I nostri figli crescono e hanno bisogno di questa distanza che permette loro di giocarsi lontano dal nostro sguardo. Le bocche delle scuole a forma di portone hanno divorato in pochi giorni i ragazzini.
Da metà settembre, la mattina è un fatto solo per adulti infreddoliti impegnati in qualche commissione. Gli alunni, ancora sbigottiti, si impilano sui treni, sciamano con gli zaini negli stessi vialoni, finché la campanella delle otto mette fine al loro sogno bimestrale di libertà, definito per brevità “vacanze estive”.
I genitori pigiati sui cancelli si confidano un sogno comune: trasformarsi per un’ora in farfalline per spiare cosa accidenti succede tra quei banchi ancora freschi di candeggina, sentire quali parole scelgono i professori per presentarsi, infine andarsi a posare nelle cucine certificando una volta per tutte il livello di igiene.
Leggi anche:
Nembrini: il talento fiorisce in un’esperienza di perdono (VIDEO)
Ma questo non può avvenire perché, più si cresce, più l’educazione è un composto che reagisce soltanto distante dallo sguardo dei familiari. Imparare è rimuovere, più che ricordare: mandare in frantumi il cannocchiale stretto del sapere ereditato, dei pochi gusti che ci sembravano gli unici adatti al nostro mondo interiore. Educarsi è concedersi il lusso di amare qualcosa che avremmo giurato fosse privo di cuore, quindi è un gesto di rivoluzione.