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Iran, stadi vietati alle donne: è morta Blue Girl, si era data fuoco per protesta

SAHAR KHODAYARI, IRAN
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Annalisa Teggi - pubblicato il 12/09/19
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Sahar Khodayari, emblema della protesta col suo velo blu, era in carcere per aver assistito a una partita travestita da uomo. Dal 1979 è in vigore una legge che vieta l’ingresso allo stadio alle donne; qualche segnale positivo di cambiamento si era intravisto durante gli ultimi Mondiali. Sahar Khodayari è morta nella notte tra il 9 e il 10 settembre all’ospedale di Teheran per le gravi ustioni riportate; qualche giorno prima si era data fuoco davanti al tribunale della capitale iraniana per protestare contro il divieto di accesso alle donne negli stadi. In un messaggio su Instagram la squadra per cui tifava Sahar le ha rivolto un ultimo saluto con queste parole:

Sei morta per realizzare un sogno semplice.

Barba, carcere, fuoco

Andare allo stadio, prendere la patente, guidare un’auto senza la presenza di un uomo accanto, frequentare un corso in palestra; sono esperienze – appunto – semplici ai nostri occhi occidentali, ma restano interdette alle donne iraniane. Il divieto di ingresso negli stadi è in vigore in seguito alla rivoluzione iraniana del 1979; negli ultimi tempi qualche segnale di cambiamento era in vista, la Khodayari è stata tra chi ha spinto sull’acceleratore della protesta.


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Non solo gli attivisti dei movimenti per i diritti umani, ma anche la politica e il mondo dello sport si interrogano sulla storia di questa giovane donna la cui vicenda si è fatta più drammatica negli ultimi 6 mesi, fino all’epilogo tragico di due giorni fa:

I fatti risalgono allo scorso 12 marzo, quando la donna, pur di tifare per la propria squadra, l’Esteghlal allenata da Stramaccioni, si era introdotta nello stadio Azadi di Teheran travestendosi da uomo. In seguito è stata incarcerata per alcuni giorni in una delle prigioni femminili più tristemente note dello stato. Si arriva poi ai primi di settembre, quando la tifosa è venuta a conoscenza della condanna a sei mesi per oltraggio al pudore a proprio carico e dunque del rischio di un’ulteriore reclusione. È a questo punto che la giovane donna è ricorsa all’estremo tentativo di affermazione dei propri diritti, pagando con la vita piuttosto che tacere di fronte alla discriminazione. (da Gazzetta dello Sport)

Si tratta, possiamo dire, di un suicidio preterintenzionale: la morte probabilmente non era nelle intenzioni di Sahar ma l’atto violento nei confronti di se stessa le ha procurato ustioni di terzo grado nel 90% del corpo. Non era stata l’unica a usare il travestimento per forzare il divieto. Altre ragazze hanno fatto lo stesso tentativo, diffondendo poi le loro foto come forma di sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale. Su Elle, ad esempio, è stata raccontata la storia di Zeinab:

Dalla cittadina di Ahvaz in cui vive, la giovane donna viaggia in treno fino a Tehran. E qui, prima di entrare nelle tribune, si traveste da uomo. Occorrono tre ore per ottenere il risultato che le permetterà di accedere allo stadio”. Non è così semplice opporsi alle regole della società iraniana: “Zeinab è obbligata a fasciare il seno, indossare una parrucca, la barba, ricreare lentiggini sul volto e parlare con voce più seria”, scrive Paris Match. Ma lei, che è stata intervistata dalla fonte in questione, non si perde certo d’animo. Zeinab è il simbolo dell’emancipazione femminile in Iran, e la sua prima sostenitrice è sua madre stessa: “È stata lei a mostrarmi come fasciare il seno. Sono obbligata a farlo perché all’ingresso dello stadio veniamo perquisiti”. (da Elle)

Chi osa compiere questi gesti clamorosi rischia tantissimo. La lotta per i diritti umani in Iran è una faccenda di vita o di morte; lo scorso marzo l’avvocato Nasrin Sotoudeh è stata condannata a 33 anni di carcere e alla pena disumana di 148 frustrate, per aver difeso il diritto delle donne a non indossare obbligatoriamente il velo.


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C’è una netta frattura nel mondo, una voragine che pare incolmabile tra l’estrema libertà di cui gode la donna a certe latitudini (e che arriva persino a episodi aberranti di svilimento del corpo) e l’autentica repressione e segregazione ancora perpetrata nei paesi vittime di un fanatismo religioso esasperato. L’attrito tra queste due “zolle” umane è stato proprio all’origine di un incentivo alla protesta in Iran: durante lo scorso Mondiale di calcio, dovendo il governo di Teheran coinvolgersi in una competizione globale, si era visto qualche debole segnale di apertura e lo scorso gennaio, in occasione della finale della Supercoppa, anche l’Italia era stata direttamente chiamata a esprimersi sul divieto di ingresso allo stadio per le donne. Ripercorriamo brevemente i fatti.


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Maxischermi e un piccolo recinto di posti

In seguito alla morte di Sahar Khodayari la FIFA ha rilasciato un commento in cui auspica e aspetta il lento smantellamento delle discriminazioni. Segnali in effetti molto lenti si erano avuti nel corso degli ultimi due anni: durante il Mondiale di calcio in Russia, nell’estate del 2018, le autorità iraniane avevano permesso alle donne di assistere alla partita Iran-Spagna in un luogo pubblico attraverso un maxi schermo disposto nello stadio Azadi; l’ottobre successivo era stato concesso a 300 donne (accuratamente selezionate!) di accedere allo stadio di Teheran per un’amichevole tra la nazionale iraniana e la Bolivia. L’evento si era guadagnato l’attenzione dei media esteri, forse risvegliando il coraggio della popolazione femminile. Il caso di Blue Girl – Sahar era chiamata così per il suo velo azzurro – rischia di essere un tragico memento sulla reale predisposizione del paese al cambiamento.

 

Anche l’Italia è stata toccata dall’impatto con questa forma di divieto, non in Iran ma in Arabia Saudita: lo scorso 16 gennaio si è giocata la finale della Supercoppa italiana tra Juventus e Milan nello stadio di Gedda (squadre italiane ma campo di gioco saudita). Quando arrivarono le direttive sull’acquisto dei biglietti montò il caso: l’85% dei posti era riservato agli uomini, i restanti posti del settore “famiglie” potevano essere assegnati a uomini e donne. In sintesi: pochissimi posti per il pubblico femminile, solo se accompagnato. La protesta che nacque trovò d’accordo persino Matteo Salvini e Laura Boldrini, auspicando entrambi – in forme diverse – un boicottaggio dell’evento. A ribaltare la prospettiva sui medesimi fatti fu la Lega Serie A:

 La nostra Supercoppa sarà ricordata dalla storia come la prima competizione ufficiale internazionale a cui le donne saudite potranno assistere dal vivo – ribatte il presidente della Lega calcio di Serie A, Gaetano Miccichè. (da Adnkronos)


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È senz’altro vero che in questi paesi il cambiamento esige tempi che sembrano tradire la nostra esigenza di giustizia, ma il traguardo non può essere frainteso. Dentro l’apparente lentezza del cambiamento si mimetizza molto bene anche una forte riluttanza al cambiamento. Per usare una metafora: si può concedere che venga accolta una donna alla volta allo stadio, ma il biglietto d’ingresso non può essere la morte o la tortura di un’altra.

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