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Sola nella stanza dell’anima mi sono chiesta: “Chi sono?”

KOBIETA W ŚWIETLE
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Il peso specifico delle parole - pubblicato il 10/09/19
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Non è facile mettere da parte le parole e scegliere un momento di raccoglimento, che è anche accoglimento: qualche momento per abitare in silenzio l’intimo della nostra anima ci fa scoprire chi siamo, prima di diventare chi siamo. Quanto bisogno del silenzio che ho. Solo ora che ho accettato di farlo entrare nella mia vita mi rendo conto di questa necessità. Ho sempre parlato tanto e mi piace tutto ciò che possa trasformarsi in parole. Ma non c’è parola senza silenzio. Non c’è discernimento, né accoglimento. Un tempo avrei avuto paura del silenzio, il non scrivere, il non saper che cosa dire, stare in silenzio di fronte a qualcuno mi spaventava. Ma te hai curato questa mia paura. Guardandoci spesso le parole sono di troppo e nulla dei nostri dettagli che ora noto sarebbero diventati così importanti.


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Saranno due mesi forse, anzi, sicuramente tre, che rifletto e cerco di trovare le parole per il silenzio. Avevo accantonato l’argomento ma è risbucato tanto prepotentemente da non poterlo più ignorare.
Un grande spazio della mia giornata è dedicato a te e io non sapevo se questo fosse spaventoso o meraviglioso. Forse perché è stato entrambe le cose in momenti differenti.

Nulla avrebbe potuto farmi intuire che quella stanza tutta per me, che poi era anche la mia casa, sarebbe stata in grado di far risuonare il silenzio nella mia anima. Chi avrebbe potuto immaginare mai il rumore del silenzio?
Dapprima piccolo, poi sempre più grande, fino a poter occupare tutto lo spazio a disposizione.
Il rumore del silenzio prende la forma del suo contenitore, proprio come l’acqua. Non è però insapore, né incolore, né tanto meno inodore. Ha il potere di far riaffiorare alle menti sapori, odori e colori che si estendono virtualmente dall’esterno all’interno.
Solitamente non chiede il permesso, il silenzio, e cerca di trovare accoglienza negli spazi e nelle anime almeno una volta al dì.
Virginia Woolf aveva dato molta importanza a quella stanza tutta per sé, senza la quale non sarebbe potuta divenire una scrittrice, a detta sua. In quello spazio aveva infatti accolto il silenzio, misurando la forma della sua anima, il contenitore. Forse lì incontrò il turbamento, l’amore, la passione, la fantasia, affrontò i suoi demoni, perdendo o vincendo, chi può saperlo.



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Trovai quel libro in un mercatino al mare, di quelli che vendono libri usati la cui etichetta spesso non corrisponde al prezzo che il libraio ti chiederà alla cassa. Poca importanza all’apparenza, molta alla sostanza, se volessimo trovare uno slogan per questo tipo di mercatini, sarebbe questo. Le pagine di quei libri hanno sempre l’odore di qualcuno e di qualcosa, portano con sé la storia di un luogo e non conoscono il loro destino.

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Si affacciano ad un nuovo mondo ogni volta che qualcuno casualmente sfoglia le loro pagine e vivono ansiosi di conoscere una nuova vita aspettandosi di finire in qualche borsa o su qualche comodino.
In alcuni casi, sono i libri a chiamarci. Sono loro a conoscerci e a indicarci una strada. Sono sapienti conoscitori del silenzio e non ne hanno mai paura. Quella volta, sinceramente, non sentivo di essere chiamata da un libro. Si tratta di circa sette anni fa. Non ricordavo esattamente le sensazioni che aveva provato mentre mi dirigevo verso la cassa. Tuttavia, ricordo che la professoressa di inglese, una tipa strana che sembrava avere dentro una sorta di ribellione perenne, aveva parlato a lungo della Woolf e la sua vita un po’ malinconica era rimasta dentro il mio cuore. E poi To the Lighthouse mi era piaciuto così tanto. Forse Una stanza tutta per sé attendeva di farmi conoscere le sue parole e molto altro ancora.


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Ad ogni modo, consapevole o meno, quel libro mi chiamò con le sue cento pagine e con una copertina davvero poco accattivante. Immagini di specchi su sfondo rosa acceso. Forse lo pagai un euro. Anzi, sì, sicuramente un euro (0,99 centesimi, per la precisione), perché si trovava nella sezione della svendita dei grandi classici, messi lì ad attendere la loro prossima destinazione.
Hanno diverse possibilità quei libri là. Avendo bazzicato nelle librerie a lungo, sia dalla parte del bancone che girovagando tra gli scaffali, avevo notato che solitamente il loro destino, nel migliore dei casi, era quello di finire tra le mani di qualche ragazzo. Mi riferisco a quel tipo di ragazzo impavido che affronta la decisione di acquistare il libro indicato dalla professoressa anziché leggere qualche trama al volo su Internet prima dell’interrogazione al rientro dalle vacanze. “Nel migliore dei casi” perché troppo spesso sono le madri, la cui ansia trasuda dal foglietto stropicciato staccato dal diario del figlio, che si imbarcano alla ricerca dei libri richiesti dalle insegnanti, impazienti di mettere una trionfante “x” accanto al titolo del libro acquistato.
Le riconosci subito, non girano quasi mai tra gli scaffali, ma ti si mettono davanti mostrando la lista con l’aria di fartela pagare se non riuscirai a consegnare loro tutti i libri, proprio quel giorno lì. A volte nemmeno parlano, mostrano i titoli, il resto è tutto nelle mani del libraio. Ho sempre pensato che dessero troppa importanza alle professoresse e vedessero le loro richieste come pretese immense da caricarsi sulle spalle, manco a scuola fossero loro a doverci andare. Ecco perché poi, durante l’estate, al bancone delle prenotazioni dei libri scolastici, ti ritrovi ragazzi ignari della sezione di appartenenza, talvolta anche dell’indirizzo scolastico.


KOBIETA W ŚWIETLE
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Tra la salsedine, la brezza marina e il colore azzurro del cielo comprai quel libro.
Non mi ricordo quasi nulla di quello che lessi sette anni fa. L’ho ripreso in mano solo ora sperando che qualche frase sottolineata mi balzasse agli occhi. Succede così, pomeriggi a leggere Murakami ininterrottamente e quattrocento pagine sembrano durare un soffio. Storie che ci appassionano, frasi che sembrano poter essere state scritte da noi per quanto le sentiamo reali, profonde e vere. Trame ingarbugliate che in quel momento l’insieme degli inciuci amorosi di Grey’s Anatomy sembrano storielle da liquidare in due parole. Poi un giorno, anni dopo, ci viene nominato quel libro o quella storia e i dettagli appaiono nella nostra mente così sbiaditi che quasi ci sembra di aver tradito quel legame tanto forte che si era creato durante la lettura.
Credo sia un percorso normale e sano questo allontanamento graduale dal dettaglio. Salutare, perché penso che la nostra mente abbia bisogno di creare spazio nuovo, pulito; normale, perché succede così con tutte le esperienze della nostra vita. Tuttavia, c’è qualcosa che permane dentro di noi… qualcosa che, nonostante l’assenza talvolta totale di dettagli, continua a parlarci riesumando perle sedimentate, piccole perle di senso.

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Dorothe Wouters/Unsplash | CC0

Non sempre per ricordarci quelle storie è necessario visualizzare visivamente il libro in questione o sentirlo nominare da qualcuno. Talvolta ci viene incontro un evento che ce ne parla oppure semplicemente si fa spazio nel silenzio. Aspetta, avevamo nominato prima il silenzio. Ecco che cosa volevo dire prima di perdermi tra i ricordi. Ecco il rumore del silenzio. È pieno di parole, frasi che ci sussurrano qualcosa. A qualcuno potrebbe voler dire di intraprendere una qualche strada o di lasciarne indietro un’altra, ad un altro sembra ricordargli una persona che forse necessita della sua presenza in quel momento, oppure semplicemente quella frase gli sarà indispensabile per affrontare la giornata. Tutto ha un collegamento invisibile che ci indica un’onda da seguire. Mi piace pensare all’immagine dell’onda perché non è mai statica e ci trasporta, non siamo completamente capaci di mantenere il controllo in mezzo ad essa e questo è spaventoso, terribile ed elettrizzante allo stesso tempo. Come la vita stessa.


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Per me, tutto questo avviene nella stanza tutta per me. È la prima cosa che mi è venuta in mente quando sono entrata nella casa dove vivo con Tommaso. Un piccolo spazio dove la condivisione degli ambienti si era ridotta da sette persone a due. Strano, nuovo, pauroso e meraviglioso. Anche curioso, perché poco dopo ho ripreso carta e penna, vecchi diari e ho ricominciato a scrivere, o forse dovrei dire cominciato a dare una forma alle mie parole. Quel libro aveva concluso la sua missione: mi aveva parlato al momento opportuno.
La Storia che il silenzio mi ha ispirato. Progetti audaci e silenziosi stanno trovando un piccolo spazio su questo foglio virtuale. Non ho più paura del silenzio. Guardarsi dentro, scrutarsi, conoscersi e scoprire la propria anima sono frutti anche del silenzio. Sembra di fare un viaggio dove l’unico compagno sei te stesso.”Scoprire se stessi” prima di diventare noi stessi e poterlo essere sempre. Chi siamo? Ricongiungerci con la nostra anima, questo è l’inizio della Storia che il silenzio mi ha ispirato.

QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO DA IL PESO SPECIFICO DELLE PAROLE

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