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Mollezza: un nemico da combattere spiritualmente

MET GALA
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Jean-François Thomas s.J. - pubblicato il 29/08/19
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La tentazione della mollezza, dei sacrifici facili e del comfort dei buoni sentimenti ci allontana dalla realtà della vita. La verità dell’amore senza sconti si impara fin dalla più tenera età.

Si è soliti dire, troppo rapidamente e con qualche faciloneria, che le vie di Dio sono impenetrabili. Così ci affranchiamo dal riflettere e dallo scoprire conclusioni che ci scomodino o che non siano totalmente soddisfacenti. Di fatto, quanto dell’opera divina in noi e nel mondo ci è stato rivelato è spesso fonte di scandalo perché la nostra intelligenza rifiuta l’analisi e la nostra volontà respinge il combattimento spirituale. Abbiamo i nervi fragili e li curiamo a botte di emotività e di sentimentalismo, ritenendo che questo sia il nutrimento spirituale di cui la nostra anima ha bisogno. Ci accomodiamo nella mollezza, “il giusto mezzo” proprio come preferiamo inginocchiarci – se ancora lo facciamo – su inginocchiatoi di velluto invece che sul nudo legno. C’immaginiamo un Dio il cui amore corrisponde in modo molto lontano a ciò che Egli è in verità. Eppure sta tutto scritto nei santi Vangeli, nero su bianco. Dovremmo nutrire cattiva fede per affermare che siamo stati ingannati sul contenuto e sulla qualità del prodotto.

L’amore di Dio è di ferro, non di piuma

Ogni vita interiore esigente si trova a confrontarsi, un giorno o l’altro, con la prova, poiché Dio sembra rifiutarsi a colui che lo desidera. Non amiamo guardare negli occhi questa terribile realtà. Tutta la Storia santa e tutte le vite dei santi mostrano che Dio passa al setaccio, che Egli respinge i limiti della sofferenza di quelli che sono eletti. Essere capaci di Dio significa essere capaci di sofferenza, a immagine del Cristo, che fu spinto ai limiti estremi durante la Passione e nell’Agonia. Non esiste altra via, per il cristiano. Sviolinare frivolamente e superficialmente che “Dio è amore” (evidentemente lo è), senza valutare cosa ciò comporti concretamente, è senza dubbio più catastrofico che dibattersi nei lacci del dubbio. Anestetizzarsi con dei buoni sentimenti, mentre la visione del vero Amore ci pietrificherebbe nel timore di Dio, è un rifiuto della realtà. Giustamente Georges Bernanos scriveva a Jacques Maritain, dopo la pubblicazione (e il felice riscontro di pubblico) del suo Sotto il sole di Satana, che «Cristo non è l’infermiere delle anime, ne è il rapitore e in un certo senso il boia» (14 febbraio 1926).

CHILD CROSS

Rouillac
Un quadro recentemente scoperto e attribuito a Matthieu Le Nain. Rappresenta Gesù Bambino mentre medita sugli strumenti della propria Passione – tema caro alla spiritualità del Grand Siècle. Nostro Signore ci mostra così la via, non quella della mollezza bensì dell'adesione libera e cosciente alla realtà.

Nostro Signore non ha arruolato gli apostoli proponendo loro una vita di mollezza e insufflando loro frasi zuccherine: egli ha utilizzato la spada della sua Parola. Non ha annunciato che le folle sarebbero accorse ad ascoltarli, anzi tutto il contrario. Ha “insegnato contropelo”, ed ecco perché si diceva che «parla con autorità». Noi non siamo suoi discepoli per piagnucolare sulla sua spalla, per lamentarci di come tutto sia difficile e per esigere da Lui un menu modellato sui nostri gusti. Santa Teresa di Lisieux, troppo spesso rappresentata come una santarella di marzapane, aveva invece compreso – e vissuto nella carne e nell’anima – che il cuore toccato dall’amore di Dio non può conoscere se non il ferro, certo non le piume. Ella si disse pronta ad accettare tutto, anche la morte senza sacramenti, perché tutto è grazia per colui che ripone in Dio la propria fiducia. La sequela di Cristo non è carezzare agnelli e far volare colombe. Se perdiamo tempo a imbellettare e ammorbidire tutto quello che delle esigenze del messaggio evangelico ci dispiace o che ci spaventa, non potremo nascondere a lungo il marciume che ci divorerà.

Come viaggiatori nell’ignoto

È vero, zoppichiamo di continuo, ma ci appoggiamo sul bastone della fede e non esitiamo a sfoderare la spada per combattere il nemico. La traversata dell’esistenza non assomiglia in nulla a una placida crociera di piacere. Tutti lo sanno perché sono rare, rarissime, le vite ignare di colpi duri, prove e fallimenti. E poi sussiste sempre l’estenuante e assordante ritornello del peccato che va e che viene, e che torna proprio nel momento in cui non lo si aspetta. Ah, non c’è da esserne fieri! Accecarsi e pretendere di non incontrare ostacoli, magari di non sfiorare neppure una pozzanghera con le dita dei piedi, sarebbe cosa grottesca. Concretamente, gli agnelli vengono tosati e sgozzati, i colombi spiumati e bolliti. Siamo degli avventurieri che nulla sanno della tappa seguente. Tutto può fermarsi alla prossima stazione. Nell’attesa, non siamo invitati a raccogliere pratoline e a farne mazzolini stretti da nastri di raso rosa: siamo dei lavoratori, dei contadini, dei vignaioli, degli operai della prima o dell’ultima ora – che importa?! – ma non degli esseri molli che si fanno portare dai piaceri fugaci e rari dell’esistenza. Evidentemente, non mancano le voci – nel mondo e anche nella Chiesa – che c’invitano ad abbassare la guardia e a rifugiarci in una bomboniera, a schivare l’ombra della Croce e di ogni sacrificio.

I sacrifici da quattro soldi

Paul Claudel, in Partage de midi, fa parlare così Mesa, in un “monologo mistico”:

Poiché io Vi ho amato
come si ama l’oro bello a vedersi o un frutto, ma allora bisogna buttarcisi sopra!
La gloria rifiuta i curiosi, l’amore rifiuta gli olocausti bagnati. Mio Dio, il mio orgoglio mi fa schifo!
Senza dubbio non Vi amavo come si deve, ma per accrescere la mia scienza e il mio piacere.
E mi sono ritrovato davanti a Voi come uno che si accorge di essere solo.
Ebbene, ho nuovamente toccato con mano il mio nulla, ho provato disgusto per la materia di cui sono fatto.
Ho peccato fortemente.
E ora salvatevi, mio Dio, perché basta così!
Voi ci siete di nuovo, io ci sono! E Voi siete il mio Dio e io so che Voi salvate tutto.
E bacio la Vostra mano paterna, ed eccomi tra le Vostre mani come una povera cosa sanguinante e sbrindellata.
Come una canna sotto a un rullo compressore, come la vinaccia buttata sotto la trave.

Satana sa quanto siamo sensibili alle malie del peccato, e la via regia che vi conduce è tutta orlata di fiori, senza una sola pietra che possa scalfire la pianta dei nostri piedi. Ci lasciamo andare al fascino di siffatto cammino se trasformiamo Dio a nostra immagine e se lo orniamo di tutte le nostre fantasie sulpiziane. Tornare a dirsi, con Mesa, che Dio non accetta i sacrifici da quattro soldi, che Egli non ama i vanitosi e che è preferibile riconoscere il proprio nulla, perché ricadiamo incessantemente nel frutto del peccato – senza stancarsi. La misericordia allevia il cuore umiliato ma non può nulla per chi sceglie la strada ombreggiata. È quel che anche Léon Bloy esprimeva – in modo certo rude ma cogliendo nel segno – in Le Désespéré: «Un orribile lamento sul peccato: senza amarezza né solennità, ma grave, ma ortodosso e di inesauribile veracità».

Non cedere nella tempesta

Senza stancarsi, e senza concedersi nulla, dobbiamo proseguire la cavalcata, diretti lì dove non pensiamo di andare, molto più lontano e attraverso molteplici ostacoli che riusciremo a superare quando ci abbandoneremo. Verrà la sera in cui sarà necessario schierarsi sul campo, per l’ultima volta – momento in cui saremo forse immersi in tenebre simili a quelle dell’orto degli ulivi –, ma dove finirà per splendere la luce promessa. A cosa servirebbe un’intelligenza vigorosa se la nostra sensibilità risultasse compromessa all’atto finale? Bisogna tessere l’abito di non rammollirsi, di non ripiegarsi mollemente su se stessi (conservando però la tenerezza verso gli altri), di non lasciare che il nostro sale perda sapore e la nostra lampada s’affievolisca, di non cedere nelle tempeste e di non esaltarci nei momenti di quiete e di gioia. Siamo fatti per la misura, per il controllo, per l’equilibrio e per l’armonia, anche nel cuore della battaglia che intende proprio demolire ciò che abbiamo costruito (sulla roccia o sulla sabbia). Non siamo fatti per l’equivoco e per le sembianze fallaci, per cose scipite e sdolcinate. Siamo creati per batterci in prima linea.



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Una volta alle elementari i maestri ci parlavano di quei re fannulloni che furono i re franchi merovingi: ce li rappresentavano divorati dalla mollezza. Essi furono indubbiamente meno fannulloni di quanto ci lasci intendere la Vita Karoli di Eginardo, ma il messaggio colpiva gli spiriti dei fanciulli che eravamo. Comprendevamo, confusamente, che la vita non è un lungo fiume dal corso tranquillo. A maggior ragione la vita spirituale! Per un battezzato non c’è altro scopo che cedere a Dio. La rivolta sta nel rivestirsi di seta o nel proteggersi con corazze, e non funziona. La spoliazione s’impara fin dall’infanzia, è parte della pedagogia divina e dell’educazione data dai genitori ai figli, a meno che uno voglia farne degli esseri privi di spina dorsale, incessantemente capricciosi e insoddisfatti, rivolti esclusivamente alla soddisfazione dei loro desideri infantili.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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