La vera felicità non è essere soddisfatti in tutti i nostri desideri, ma trovare risposta al nostro vero bisogno. Per questo Dio, come ogni buon genitore, non ci “accontenta”.
Dove si trova la felicità?
Quando ero piccola io, pensavo che la felicità fosse una città: cresciuta con le favole di Richard Scarry, anelavo, un giorno, di abitare a Felicittà. Solo da più grande fui costretta a capire che il famoso luogo della felicità non era una meta raggiungibile nella pratica camminando verso un luogo materiale, ma andando in profondità nel mio cuore. Erano già in fase di separazione, i miei genitori, e mia madre si lamentò con mio padre di non averla resa felice: lei ha creduto tutta la vita nel fatto che altri avrebbero dovuto pensare a farla sentire bene poiché – vissuta nel boom economico – i suoi genitori la crebbero accontentandola in tutti i bisogni materiali tangibili.
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Certo: loro, cresciuti durante la guerra, erano portati a pensare che un figlio, con pancia piena e giochi di ogni sorta, non poteva abbisognare d’altro. Non credo fosse un errore voluto e intenzionale e che l’obiettivo, comune a tutti i genitori, non sia da condannare nel presupposto. Tuttavia il danno è stato ingente poiché alcune persone appartenenti alla generazione di mia madre (e successive, ovviamente) si sono avvezzate a credere di trovare la felicità nel materiale tangibile (oggettistica) e non tangibile (sentimenti ed emozioni). Il risultato è che sono nati: il terrore verso la sofferenza fisica e morale con l’auspicio di una dipartita prossima (la Nobis sono decenni che vorrebbe “togliere il disturbo” con una pasticchina -come dice lei-, e si arrabbia con Nostro Signore che non la prende con sé), il diritto alla felicità rapida e sollecita da pretendere costantemente e verso cui correre usando spesso il prossimo (pensiamo ai vari diritti di ogni genere che sorgono come funghi), e tutti quei piccoli grandi errori che noi genitori moderni compiamo costantemente (l’acquisto di cellulari a età inutili, l’incapacità a sgridare i figli e il terrore verso ogni evento che possa anche solo rattristarli)… e chissà quante cose che dimentico.
Accontentare non c’entra con il rendere felici
Quando lavoravo, cosa che mi piaceva moltissimo, notavo che il mio modo di approcciare i miei figli era spesso legato al fatto che tendevo a compiacerli senza riflettere. Sapevo che avevano patito la mia lontananza e mi dispiaceva. Tentavo di accontentarli e spesso non desideravo sgridarli. Per tutta una serie di motivi, mi ritrovai a non poter più lavorare e quando – nonostante l’immenso dispiacere – ho cominciato ad adattarmi all’idea, ho iniziato a notare – con mio stupore e tenendo tutte queste scoperte in cuor mio – che ero meno incline a soddisfare necessità inutili, intervenivo nei capricci “irricevibili” (quelli che ogni genitore non può proprio accontentare perché per età del figlio e per l’oggetto del contendere, sono del tutto non necessari alla sopravvivenza: ogni genitore possiede i propri) e ponevo più regole e limiti. Sono molto ammirata e tento infatti di imparare molto dalle mamme che, lavorando, sanno come equilibrare bene le cose e ho diverse amiche che mi hanno insegnato moltissimo (la Dottoressalucy, la Tata e tante altre).
Dio è Padre e ci vuole felici, infatti non ci accontenta in tutto
Torniamo alla felicità. C’è una scena di un famoso film (di quelli che uno sa a memoria ma continua a vedere perché son troppo ganzi: noi abbiamo i Blues Brothers e Operazione Sottoveste, ad esempio) che per me è emblematica: