La diagnosi della trisomia 18 gli prospettava difficile nascere, difficilissimo sopravvivere qualche anno. Lo scorso giugno sua madre Marta ha voluto condividere il suo grazie a Dio in occasione del 18 compleanno di questo figlio amatissimo. Il 18 è un numero importante nella vita di una persona, è la tappa a cui si associa l’ingresso nel mondo degli adulti. Per l’americano Kayden Johnson Mc Clanahan è doppiamente simbolica questa doppia cifra: il 18 infatti è il numero legato alla malattia che si porta addosso fin dal ventre materno; molte diagnosi avevano decretato per lui un destino molto più infausto di quellache oggi è la sua vita.
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Lo scorso giugno sua madre Marta ha voluto gridare la gioia euforica per il compleanno di un figlio amatissimo che ha contraddetto giorno per giorno le cupe prospettive di medici pronti a non farlo nascere:
Grido con tutto il fiato che ho nei polmoni BUON 18ESIMO COMPLEANNO! al mio ragazzo Kayden, meraviglioso, forte e felice. E pensare che ci fu detto che non sarebbe vissuto, ecco ora ha senz’altro dimostrato che si sbagliavano. Ha attraversato e combattuto una catasta enorme di pregiudizi contro di lui. Ne avrebbe superati molti di più e noi con lui, ma siamo qui a festeggiare 18 anni pieni di amore, felicità e tanta gioia! I dottori ipotizzarono che non ci sarebber stata una qualità di vita, quella che vedete qui è una pessima qualità di vita? Grazie Signore per questo ragazzo splendido e per averlo affidato alle nostre cure. Siamo stati benedetti e preghiamo di trascorrere molti altri anni insieme a lui.
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Le mere statistiche sulla Trisomia 18 velano l’orizzonte di un buio pesto, in effetti. Questa è una delle tante storie che documenta non tanto la possibilità di cambiare miracolosamente il destino di una persona, ma di scegliere di viverlo appieno. Inoltriamoci nel “a posteriori”, cioé non lasciamoci blandire da una compassione a priori (“Sopprimiamolo perché non soffra, dai”) … e che poi altro non è se non paura di percorerre sentieri fuori dalla strada battuta delle nostre quiete comodità.
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Diagnosi e vita
Quando una famiglia deve fare i conti con la malattia non ha bisogno di una verità edulcorata, di un inganno a fine di bene. Non ha neppure bisogno di sentenze di morte irrevocabili per chiudere alla svelta un dolore incontenibile. Una diagnosi chiara deve essere un aiuto per i genitori che si trovano in attesa di figli gravemente malati a esercitare appieno la propria libertà, soprattutto quella di dare alla vita – anche molto molto fragile – lo spazio di essere, e di essere qualcosa di unico non scritto per filo e per segno nelle enciclopedie dell’umanità. Il messaggio della mamma di Kayden in occasione del compleanno del figlio non è solo la medaglia di una donna che vuole ostentare quanti anni sta vivendo un bambino che non doveva neppure nascere; piuttosto è una mano tesa a chi vive in un simile calvario di amore, un incentivo a non lasciarsi schiacciare dalle diagnosi e a lasciarsi stupire dalle presenze.
Certo, partire dalla durissima realtà è un passo da fare e nel caso della Trisomia 18 (malattia genetica che comporta la presenza di 3 cromosomi 18 anziché due) il quadro clinico parla di danni serissimi sia a livello fisico che mentale:
La sindrome di Edwards o trisomia 18 è caratterizzata da un grave ritardo mentale associato a ritardo di crescita sia prima che dopo la nascita con aspetto emaciato, capo piccolo (microcefalia) e anomalie a carico di diversi organi. In particolare ritroviamo anomalie della faccia e della testa, mento piccolo e sfuggente (micrognanzia), gli occhi assai distanziati (ipertelorismo) e piccoli (microftalmia), la presenza di dita in sovrannumero alle mani e/o ai piedi (polidattilia), o la fusione di alcune dita tra di loro (sindattilia), malformazioni cardiache in oltre il 90% dei casi, del tubo digerente come atresia esofagea (ostruzione congenita dell’esofago) e genito urinarie come la mancanza di uno o di entrambi i reni (agenesia renale). (da Ospedale Bambino Gesù)
Questa descrizione sembra impossibile da associare alla foto di Keydan, un ragazzo che porta i segni della malattia ma è indiscutibilmente bello; cioé indiscutilmente segnato negli occhi da una gioia non falsificabile.
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A fronte di questa discrepanza tra parole e presenza, ci basta forse dire: “Magari a lui è andata bene, è un caso tra i meno gravi”? Oltre questa mera constatazione clinica, c’è altro da evidenziare? Sì. Mi colpisce che proprio la pagina del sito dell’Ospedale Bambino Gesù dove sono andata a recuperare i dati più generali sulla Trisomia 18 accompagni le informazioni cupissime sulla prognosi (più del 50% muore entro la prima settimana di vita, solo l’ 1% arriva a 10 anni) a un paragrafo intitolato “il ritorno a casa“, in cui si dice:
L’obiettivo principale per questi pazienti è di favorire la dimissibiltà a casa per migliorare la qualità di vita del paziente e di tutta la sua famiglia. (Ibid)
L’ospitalità ha l’ultima parola, in molti sensi. Il malato ha bisogno di essere ospitato; ma tutti siamo in cerca di un’ospitalità più radicale, dentro i piani di una Provvidenza che sembra infrangere i nostri desideri più sacrosanti, poi li ricolma appieno in modi inconcepibili. Ho pensato che il nome della mamma di Kayden non fosse casuale, o forse è meglio dire che l’associazione mentale che è scattata in me legegndo il suo nome ha completato il ritratto umano della faccenda.
Marta
Lo abbiamo festeggiato da poco, il giorno di Santa Marta. E di lei si può senz’altro dire che sia la protagonista di quello spazio sacro che è la casa. Una madre, che accoglie nel grembo e poi in casa un figlio malato, ospita nella sua vita quel mistero potente che ci può trasformare in operai incattiviti e testardi oppure in servi inutili, cioé gente che serve ( = di cui c’è bisogno) e tanto tanto libera.
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Chi è il vero ospite che bussa a casa mia e ha il volto delle contraddizioni, degli imprevisti, delle ferite che sanguinano sul volto di chi amo di più? È un monarca assoluto che mi schiaccia o il padrone del mondo vestito da amico? Quando osservo, a molti passi di distanza, la vita delle mamme che accudiscono parenti o figli malati le vedo davvero come sante dal nome di Marta. Devono fare tantissimo, devono supplire quello che la società civile non offre loro, devono fare salti mortali di quotidiana fatica, devono trovare appigli di creatività, sostegno e speranza a fronte di sentenze già scritte. Io uso il verbo “devono”, ma loro no: fanno, e basta. Come Santa Marta.
La mamma di Keydan è una delle tante che porta questo nome operoso, e conclude il suo biglietto d’auguri per il figlio guardando dritto negli occhi l’Ospite che da 18 anni abita in casa sua: “Grazie Signore”, dice. Insomma, per rimanere in modo molto pedestre nella metafora evangelica, solo chi ha gli occhi Maria può avere le braccia di Marta. Non ci rende davvero operosi nella cura la Voglia di Fare e Dimostrare, neppure l’Idea astratta del Valore della Vita, ma solo il rapporto vivo con l’Ospite che c’è dentro ogni frammento di giorno, e che spetta a noi far entrare o lasciare alla porta.