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Si può essere felici senza cercare ossessivamente di superare i nostri limiti?

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Silvia Lucchetti - pubblicato il 29/07/19
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Alberto Scicchitano ci porta a riflettere sulla necessità di riconciliarsi con se stessi per poter essere capaci di amare veramente.Il nuovo lavoro di Alberto Scicchitano: “La ricchezza del limite – Riflessioni sul senso della vita”, Cantagalli editore, è un libro di poco più di 100 pagine, ma estremamente denso di riflessioni e suggestioni su temi di grande rilevanza etica ed antropologica affrontati all’interno di una cornice scientifica di carattere psicologico e neurobiologico, ma trascendendola ampiamente con richiami poetici, mistici e filosofici. Nella prefazione Tonino Cantelmi si concentra sull’elemento che il titolo dell’opera mette in primo piano: quello del limite, la cui consapevolezza ed accettazione rappresenta per ogni individuo la dimensione antropologica della felicità, cioè la capacità di vivere secondo (la propria) misura.

“Essere uno”

È nel primo capitolo : “Essere uno”, che l’autore fa trasparire chiaramente le profonde radici psicodinamiche delle sue riflessioni, sottolineando la centralità della vita emotiva ed affettiva nella vita e nel destino di ogni essere umano.

Quello che noi dobbiamo riuscire a capire è che per comunicare, comunicare all’interno di noi stessi o comunicare con l’esterno, ci servono le emozioni, che sono il motore della comunicazione e della comunione.

Ma Scicchitano al riguardo non è un ottimista ingenuo, bensì assolutamente consapevole della complessità e della conflittualità insite in questo motore:

Il problema è che dentro di noi esistono delle polarità e fra queste dissidi e possibili crepe: tra la parte conscia e la parte inconscia, tra la parte materna e paterna, tra la parte affettiva e la parte razionale. Le crepe possono portare a fratture, parcellizzazioni di parti del Sé, che spesso equivalgono a sofferenza e disagio psichico. E’ importante che tra queste dimensioni polari ci sia una comunicazione, una comunione, un essere ‘insieme’, perché noi abbiamo bisogno di quest’unità.



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La ricerca della sintesi, del completamento, dell’armonia interiore rappresenta una potente leva di sviluppo personale:

Essere ‘uno’, a livello fisico, psichico, spirituale è un’aspirazione profonda di ognuno di noi. Non è un caso se ciò a cui aneliamo, spesso, è sentirci integri in noi stessi e in un rapporto di amore con qualcun altro: ‘uno con qualcuno’. Siamo felici quando sentiamo che questo ‘uno’ si realizza; quando manca, la frammentazione porta non accettazione, critica, giudizio, disallineamento e non integrazione.

E riferendosi ad un libro di mistica indiana, la Ghita, l’autore ne cita questo passo:

“L’uomo è come due colombi, uno opera e l’altro sta a guardare: il problema è il colombo che guarda e critica in continuazione”.

Il capro espiatorio

Il disagio provocato dalla conflittualità interiore, con facilità conduce a cercare di individuare nell’ambiente esterno le cause della sofferenza identificando uno o più capri espiatori: una persona o un gruppo sociale, il contesto socio-economico, un’attività lavorativa che non fa per noi, quando non anche l’incantesimo di qualche stregone. Anche se più doloroso sarebbe certamente più fruttuoso guardarsi dentro e cercare di capire l’origine del nostro star male, cercando di non illudersi di sfuggire alla proprie contraddizioni, come magistralmente ci insegna il filosofo Seneca:

“C’è una certa agitazione in tutti, uno un giorno fa un mestiere un giorno ne fa un altro, un giorno va a Napoli, un altro giorno al fresco fuori Roma, un altro giorno al Circo Massimo: ma a che serve questo girovagare, se dovunque vai ti porti te stesso come insopportabile compagno?”



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Una riflessione lapidaria che calza perfettamente anche oggi, o forse più che mai oggi! Di fronte ai conflitti derivanti dalla vicende della storia personale che non abbiamo il coraggio di affrontare apertamente la tentazione è quella di cercare di trovare una soluzione compensativa attraverso un equilibrio aggressivo, dove l’altro assume il ruolo di capro espiatorio su cui scaricare tutto ciò che abbiamo di negativo.

(…) Noi per poter aggredire un altro – che è quello di cui abbiamo profondamente bisogno tutti quanti se non abbiamo una risposta seria da dare ai nostri conflitti interiori – abbiamo bisogno di giustificare l’aggressività necessaria per ristabilire equilibrio nel nostro interno. Per questo motivo prima di aggredirlo dobbiamo sentire che l’altro è ‘diverso’ ed è ‘colpevole’. A questo punto, se chi è entrato nel nostro territorio è sia diverso che colpevole, possiamo aggredirlo impunemente.

Accettare il limite

L’autore si chiede se sia possibile non aver bisogno di un capro espiatorio, e quindi dover ricorrere coattivamente ad un equilibrio aggressivo nel tentativo di ricomporre le divisioni e lacerazioni che ci portiamo dentro. Per uscire da questa trappola, dall’illusione di poter trovare una risposta nell’odio, dobbiamo accettare il limite insito nella nostra storia personale, liberandoci dall’invischiamento continuo nel passato e recuperando così la capacità di amare.

Avere la capacità di perdonare, di perdonarsi, di liberarsi dall’investire negativamente su tutte quelle storie negative che abbiamo vissuto, significa ritirare quella affettività e investirla in positivo, significa essere liberi. Perdonare non è dimenticare, ma è sentire come in noi tutto abbia la capacità di trasformarsi. Perdonare è appropriarsi della propria storia e agire con discernimento nella nostra vita.


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Dove trovare la forza per scegliere di perdonare e perdonarsi? Se per il filosofo Seneca questa va cercata unicamente dentro di noi: “Vero saggio è colui che accetta liberamente ciò a cui il fato lo costringe”, il cristiano conosce la vera risposta: “… la capacità di perdonare è divina, non viene da noi, ma è anche nostra, noi ce la possiamo attribuire perché Dio ce la dona (per-dono)”.

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