32 anni fa l’efferato delitto, nel 2016 una svolta clamorosa che ieri la Corte d’Appello ha smentito: Stefano Binda è stato assolto. Nel chiaroscuro della giustizia terrena, la voce chiara di Lidia si affidò completamente a Dio. Ieri il nome di Lidia Macchi ha di nuovo riempito i titoli dei giornali, come li riempiono quelli di certe città che basta solo nominare per capire di cosa si parla: Avetrana, Erba, Cogne.
Perizie calligrafiche e parole uscite dall’anima
Il delitto di Lidia Macchi è, tecnicamente, un cold case, un caso vecchio e irrisolto: fu uccisa, appena ventenne, nel gennaio del 1987. Da allora non si è fatta ancora luce su ciò che accadde, sebbene si sappia che fu violentata e colpita a morte con 29 coltellate in un bosco di Cittiglio, in provincia di Varese. Dopo molti anni di silenzio, il caso di Lidia catturò di nuovo l’attenzione dei riflettori mediatici nel gennaio 2016 per una svolta improvvisa: una lettera recapitata ai genitori della ragazza morta a pochi giorni dell’omicidio e una perizia calligrafica sembravano incastrare Stefano Binda, conoscente della vittima.
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=cHIDHe-02iA&w=560&h=315]
In primo grado la giustizia ha dato a Binda l’ergastolo, ieri la Corte d’Appello ha rovesciato la sentenza precedente, assolvendolo. La sorella di Lidia ha dichiarato la costernazione della famiglia e qualche rispettosissima critica alla durata dell’Appello, svoltosi in sole 3 udienze.
Leggi anche:
Desirée Mariottini. Una morte atroce e l’omertà sulla natura del male
Il male, il dolore, la morte, la giustizia. Da 32 anni una famiglia abita l’irrisolto mistero di queste parole che tormentano l’anima. Dalla notte dei tempi questo mistero s’incarna nell’uomo; tornava anche nelle parole che Lidia scriveva. Allora non trattiamola da cadavere e approfittiamone per ascoltare quanto ci riguarda la sua voce. Ecco cosa scrisse appena 5 mesi prima di morire:
Noi e il nostro misero corpo,
noi e il nostro fragile spirito
siamo la tua gloria vivente?
Lei, giovane ragazza piena di amici, aveva messo al centro della propria vita ciò che ora tutte le trasmissioni di cronaca nera ignorano, Dio. Pieni di lenti d’ingrandimento, ci scordiamo di alzare gli occhi al cielo.
L’indagine più umana possibile
Pensi sempre che queste cose accadano agli altri, non a te. Così dichiarò in un’intervista il padre di Lidia Macchi, confessando una verità che ci appartiene: il male, quello davvero atroce, esiste ma diamo per scontato che ci schivi di qualche metro; che accada vicino, magari, ma sempre qualche strada più in là. La sera del 5 gennaio 1987 Lidia era andata a trovare un’amica all’ospedale di Cittiglio, nel rientrare a casa con la Panda di famiglia, poco dopo le 20, quel male incrociò la sua strada, diventò una presenza che l’assalì e la uccise. Alla violenza carnale, che lese il suo corpo vergine, seguì la violenza fisica di un accoltellamento furioso.
Leggi anche:
Nella discoteca di Corinaldo c’erano i nostri figli
Non ha ancora un nome e un volto l’assassino, la giustizia terrena non ha sciolto il nodo di questa tragedia; intanto l’opinione pubblica può lasciarsi intrappolare nella rete delle trasmissioni televisive che ci vogliono far giocare agli investigatori, capaci di destreggiarci tra luminol, tracce ematiche, perizie di parte, incidenti probatori. Che l’uomo possa intravedere nella giustizia terrena un riverbero di una giustizia eterna e complessiva è un desiderio sacrosanto; che la giustizia terrena possa ricucire, curare e sanare definitivamente le fratture inferte del male è un abbaglio.
Lidia Macchi forse l’intuiva già bene, lungo il sentiero di vita su cui camminava: studentessa di legge, scout e poetessa, aveva incontrato l’esperienza della fede nelle parole di Don Giussani, fondatore del movimento di CL. Giustizia sulla terra e un intenso bisogno di risposte eterne, questa l’indagine grande che Lidia conduceva entrando nei suoi vent’anni, messa per iscritto in una lettera che il mensile Tempi ha pubblicato:
E quand’anche io sappia tutto, come funziona l’universo intero, e come faccio a respirare, a camminare, a mangiare, chi si sogna per un attimo di ascoltarti quando ti chiedi chi sei, che cosa ci fai sulla faccia di questa terra? Di queste domande hanno tutti paura e nessuno ne parla… Ma perché oggi ci sei, domani muori, e buonanotte…
Buonanotte un corno! Io ci sono, le domande ci sono e voglio sapere, fossi anche l’unica con questo desiderio, in questo mondo superficiale – perché vuole essere tale – urlerò fino a squarciagola, finché morirò, quello che io sento.
Un mese fa mi è capitato, quasi per caso, di andare alla Cattolica con dei miei amici di Varese e di ascoltare uno che si chiama don Giussani, che faceva una lezione di teologia o morale, qualcosa del genere, perché questi esami lì sono obbligatori, e al posto di parlare dei santi e tutto il resto, parlava proprio di queste domande, con un entusiasmo ed una forza che mi hanno molto colpito e spiegava tutti i procedimenti tecnici e pratici che gli uomini escogitano per non starle ad ascoltare, per fare come se non ci fossero o non fossero importanti. Mi sembrava che parlasse proprio di me e ritrovavo tutti i nostri comportamenti abituali spiegati così chiaramente. (da Tempi)
Leggi anche:
“La pienezza della vita sta nella verginità e nella morte”
Sì, fa rabbrividire sentirla chiamare per nome, quasi come una profezia, il destino che avrebbe subito nella carne: morire, urlare a squarciagola. Eppure non è l’unico elemento del quadro umano che lei dipinge, c’è – più spiccato nei toni – un desiderio incontenibile di felicità, di sapere chi sei, di avere amici con cui aprire liberamente il cuore alla domanda di un bene eterno. Le discussioni dei criminologi vorrebbero farci sguazzare nelle pozzanghere dei delitti a occhi bassi; la voce ben più chiara di Lidia scarta gli abbagli di chi riduce tutto a cadaveri da vivisezionare e ci spinge tutti nel mare aperto di un’indagine più drammatica – dove le ferite restano esposte – ma anche più liberante: il grido dell’uomo chi lo ascolta?
Fiori recisi sul ciglio
in un lago d’ acqua.
Uomini uccisi nel mondo
in un lago di sangue.
È la violenza
e il seme dell’ amore,
gettato sulla strada secca,
nessuno lo raccoglie.
Calpestato grida acqua…
(Lidia Macchi, aprile 1980)
Ci servono sul tavolo tanti cocktail per tamponare le nostre mille vertigini di fronte al pensiero della morte, di fronte all’angoscia per il dolore innocente e ingiusto.
Talvolta li sorseggiamo compiaciuti, altre volte deglutiamo e basta. In fondo a noi serve quell’acqua che Gesù propose alla samaritana venuta al pozzo; qualcosa di così grande, pieno e insieme vicino, incarnato che disseti ogni fibra riarsa di emozioni e pensieri.
Leggi anche:
Madre suicida nel Tevere, si spegne la speranza per le gemelline
Eccomi
È impossibile non tirare fuori la speranza cristiana quando ci si occupa di Lidia Macchi; alcuni lo fanno solo per dovere di cronaca, per informare sul percorso umano della ragazza. Non mi stupisce che nella sua trasmissione Blu Notte Carlo Lucarelli abbia accostato l’omicidio Macchi alle storie di Padre Brown scritte da G. K. Chesterton: volendo trovare un appiglio letterario ai “gialli” della cronaca nera, la morte di Lidia non può che suggerire di andare a pescare le parole di chi trattò le detective stories come una faccenda profondamente spirituale. Diceva infatti GKC:
Qualsiasi forma letteraria che rappresenti la nostra vita come qualcosa di pericoloso e sorprendente è più vera di quelle che la descrivono pervasa dal languore e dal dubbio. Perché la vita è una lotta non una conversazione. (da Svelare il mistero)
Il mistero del male, che trafigge i nostri giorni terreni, innesca la lotta e l’agone. Il più delle volte è una battaglia in cui i nostri colpi sono casuali, senza una direzione precisa, sterili urla nel vuoto. Ci manca una compagnia invincibile quando siamo nel buio. A Lidia non mancava ed è significativo notare che, quando nel 2016 il suo caso riemerse agli onori di cronaca per l’incriminazione nei confronti di Binda, anche Biagio Antonacci ricordò su Facebook la ragazza con una sua poesia; quasi tutti quelli che commentarono il post fraintesero l’interlocutore di Lidia, quasi nessuno pensò che lei stesse rivolgendosi a Dio.
Nulla
nemmeno il dolore più atroce
è privo di senso:
è così semplice rispondere
eccomi.
Anche nella notte più fonda
sono Tua prima di tutto.
Eccomi
ora nulla mi fa paura.
[protected-iframe id=”41d4be401534d0ffd9343b0947e464db-95521288-57466698″ info=”https://www.facebook.com/plugins/post.php?href=https%3A%2F%2Fwww.facebook.com%2Fbiagioantonacciofficial%2Fposts%2F10153928230314630&width=500″ width=”500″ height=”613″ frameborder=”0″ style=”border:none;overflow:hidden” scrolling=”no”]
Leggi anche:
«Sto per andare in cielo, vi aiuterò da lì»
Quasi tutti pensarono a un ragazzo, a una poesia d’amore in cui lei si consegnava a lui. Alcuni non erano neppure d’accordo: “io sono mio e basta“. Ma gli occhi di Lidia erano altrove. Vogliamo seguirli? Parlano di un’appartenenza radicata nell’abbraccio del Padre, capace di sottrarre alle grinfie della morte un corpo che subisce la notte della violenza: anche nella notte più fonda, sono Tua prima di tutto.
Dove ci porta l’egoismo di consegnarci solo a noi stessi? A contemplare cadaveri, a contare le ferite su un corpo mortale; a dimenticare che siamo un’anima infinitamente amata. A tutti quelli che continueranno a commentare le vicende di cronaca nera riempiendo il nostro orizzonte di incubi e paure, mettendoci in cuore nient’altro che il brivido per la nostra fragilità, auguro di affacciarsi sull’orizzonte ben più sorprendente che Lidia intuiva con chiarezza e che certamente visse nella notte in cui morì: non erano le mani dell’assassino a possederla, ma quelle di Dio ad abbracciarla dentro la prova. Non fu sola lei, non lo siamo noi. Appartenere a Lui dentro le notti della nostra esistenza è già la presenza di una giustizia più piena, che ci libera dall’incubo di essere prede inerti e sconfitte della violenza.