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Perché non avvertiamo (più) la tragedia del dolore innocente?

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 18/07/19
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Vincent Lambert è morto e sepolto, già ci giungono notizie sulla prossima vittima designata dalla “società dello scarto” e appare sempre più fiaccata la capacità non solo di offrire una risposta e un’alternativa alla dissoluzione, bensì anche quella di coglierne il dramma. Un giovane gesuita italiano si chiede se la libertà umana non sia stata “inventata” dagli autori sacri, e l’idea promette di rivelarsi più che meramente “suggestiva”.

Questa mattina commentavo con un’amica la terribile notizia della bambina uccisa da una pallina da golf fatalmente impattata sulla sua nuca dopo essere stata colpita dal padre, il quale portava abitualmente la figlia sul green. La bimba era quietamente seduta sulla golf cart, il padre non era un giocatore della domenica (e del resto aveva portato la figlia su un prato da golf, certo non a un safari). Eppure per la seienne non c’è stato nulla da fare. A stento si riesce a immaginare che si possa fare qualcosa per il padre. La mia amica commentava:

Vedi? La tragedia è sempre dietro l’angolo della vita di ciascuno. Dio dice che valiamo molto più di molti passeri, ma spesso si ha l’impressione che valiamo meno della sabbia. Ci mettiamo a battagliare per una vita in bilico e migliaia di vite cadono come grano sotto la falce ogni istante; è meglio morire vittima della mano iniqua dell’uomo o per il distratto fato? meglio una pallina in testa nel campo da golf o il sistema sanitario inglese che ti fa guerra e ti stacca il respiratore?

Dato il suo riferimento al delicato caso della piccola Tafida, di un anno più giovane della bimba statunitense, ho osservato di rimando che quando la posta in gioco è così alta anche solo il sospetto del dolo è più intollerabile dell’evidenza della colpa, e più lieve di tutto appare il cieco fato. Un dolore al quale non possano mescolarsi rancore e risentimento, paragonato agli altri due, sembra quasi dolce. La verità, però, è che nessuno ama soffrire e men che meno qualcuno desidera morire: quando poi a morire sono (o devono essere) delle persone amate lo strazio si fa insopportabile e si giunge a sognare di poter barattare la vita dell’amato con la propria. E neppure questo, ordinariamente, è possibile, dunque restano umanamente condivisibili solo i versi della leopardiana Saffo:

[…] Negletta prole / nascemmo al pianto, e la ragione in grembo / de’ celesti si posa. […]

L’escalation di disfatte per il “fronte bioconservatore”

Non è questa la sede in cui parleremo di Tafida (anche perché si è già scritto qualcosa di eccessivo, a quanto ho potuto appurare dalle fonti, ed è bene – per la bimba soprattutto – far calmare le acque): quand’anche emergesse un (altro) caso di malasanità, esso sarebbe ulteriormente imbruttito dal contorno raffazzonato e scomposto di certo associazionismo, che rapsodicamente insegue “casi” da intestarsi per un pugno di clic (o di euro). Troppo fresca è ancora la cocente sconfitta del “fronte bioconservatore” nella vicenda Lambert, e quella francese è stata appena l’ultima di tutta una serie di Caporetto bioetiche: Alfie Evans, e Charlie Gard sono le più famose, Isaiah Haastrup e la quasi-anonima Inés passarono quasi inosservate, ma il copione – che poi è sempre il medesimo – prevede che alle mute Parche si affianchi un’istituzione impolverata di grigia burocrazia, e che contro di essa le stesse Istituzioni non possano più di quanto gli antichi dèi potevano contro l’onnipotente Fato: nel “poema della forza”, l’Iliade, perfino Zeus dovette sottostare all’ineluttabile sentenza delle Moire sul figlio Sarpedonte, che Patroclo avrebbe dovuto uccidere.


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Questo pone – in chiave postmoderna quanto si voglia – il sempreverde tema della libertà umana, nella fattispecie della libertà di fronte ai mali. Mali fisici e che si subiscono, certo, dunque i meno ambigui ma i più scottanti. Proprio sul numero de La Civiltà Cattolica che verrà pubblicato sabato ho potuto gustare un bell’articolo del giovane gesuita Vincenzo Anselmo, che ha innestato negli anni le specializzazioni bibliche nelle basi di una solida formazione psicologica: bizzarra coincidenza leggerlo proprio oggi che m’interrogavo sul titanismo frustrato a cui ogni sforzo prolife sembra destinato in partenza nel nostro panorama. La domanda sottesa all’articolo – anzi, l’hanno messa come titolo… – è se sia stata la Bibbia a “inventare” la libertà dell’uomo: considerazione storico-culturale che, date le premesse di cui sopra, rivestirebbe una sfumatura in più in ordine alla comprensione del nostro contesto già abbondantemente post-cristiano.

La lotta dei personaggi biblici contro un destino avverso e sproporzionato rispetto alle proprie forze e alle proprie colpe – si domanda p. Anselmo – li rende nel loro agonismo personaggi tragici?

Vincenzo Anselmo, La libertà dell’uomo è un’“invenzione” della Bibbia?, in La Civiltà Cattolica 4058, 127-137, 128

La Bibbia è piena di drammi (e di teo-drammatica), ma latita la tragedia

Certo, nella Bibbia ci sono moltissime bellissime storie: dall’epico Mosè alla dolcissima Ester, dalla “maschia Giaele” all’umanissimo re Davide, santo e peccatore (e che diremo di Noè o di quasi tutti i personaggi dei libri maccabaici?). Per trovare un personaggio veramente tragico, tuttavia, Vittorio Alfieri dovette accontentarsi del solo Saul – e difatti anche p. Anselmo menziona il tormentato re biblico –, ma il personaggio oggettivamente più impressionante di tutti è Iefte, che immolando al Dio biblico la figlia unigenita come prezzo cruento della vittoria militare sugli ammoniti riecheggia sinistramente il sacrificio di Ifigenia. I tempi delle storie coincidono, grossomodo, così pure come quelli dei racconti, perché il conflitto di Troia avviene nell’Egeo poco dopo l’epoca biblica dei Giudici in Palestina, e del resto Euripide visse poco dopo la redazione finale presunta del libro scritturistico. Quel che importa però non è chi sia arrivato primo, né chi abbia eventualmente attinto dall’altro, ma proprio quell’ingrediente che impedisce alla vicenda di Iefte di trasformarsi in una vera e propria tragedia. Il p. Anselmo annota tutta una serie di considerazioni importanti sulla suspense della narrazione biblica, ottenuta quando alla sospensione dell’incredulità si unisce la percezione che Dio “lasci fare” la vicenda senza intervenire costantemente a gamba tesa (a differenza che nell’Iliade), ma il passaggio fondamentale su Iefte è un altro, perché

[…] non c’è suspense circa l’intervento divino, mentre la tensione narrativa riguarda gli esiti di un voto drammatico che non è stato richiesto né approvato da Dio.

Ivi, 134

Aveva infatti spiegato subito prima, il gesuita:

De un punto di vista narrativo, se il voto precedesse l’azione divina, allora si potrebbe pensare a un’approvazione del Signore di fronte a un elemento determinante perché egli manifesti il suo favore agli israeliti. Nel racconto, invece, Dio scende direttamente in campo prima che il voto venga formulato.

Ibid.

E subito dopo:

Iefte mostra così di non fidarsi totalmente dell’azione di Dio, perché, pur di ottenere la vittoria, è disposto ad acquistarla, pagando un prezzo molto alto. Egli si propone di offrire un olocausto di valore per ricevere in cambio un successo di cui non si sente sicuro, nonostante l’intervento del Signore.

Ibid.

Non è solo il contesto prossimo, dunque, ad allontanare Iefte da Agamennone – ché all’Acheo l’oracolo stesso impose l’olocausto della figlia come conditio sine qua non della vittoria militare ad Ilio –, ma anche quello remoto:

Da un punto di vista narrativo – spiega infatti il gesuita –, la storia di Iefte è collocata nel macroracconto di Genesi-2Re, dopo che Israele ha ricevuto la Torah, che proibisce esplicitamente i sacrifici umani (cf. Lev 18, 21 e 20, 2-50).

[…] Com’è possibile che colui che mostra di conoscere così bene la Torah, quando riferisce al re degli Ammoniti gli episodi raccontati nel libro dei Numeri, non sia al corrente della proibizione dei sacrifici umani?

Ivi, 135

Iefte non è vittima del destino e degli dèi, ma di un panorama religioso che egli ha plasmato a propria immagine e somiglianza a prescindere dalla Rivelazione divina (e anzi in aperto contrasto con essa). Il p. Anselmo sottolinea che l’“assenza e il silenzio di Dio” non esprimono “disinteresse”, ma pongono «ogni uomo in ogni tempo davanti alle proprie responsabilità» (ivi, 137). Questo è sicuramente vero, e anzi mi suscita una considerazione che annoto a margine: è paradossale ma tanto più indicativo che il silenzio avvolga (e abbia sempre avvolto) il resto della vicenda di Iefte e della figlia, che termina col sacrificio, mentre ancora secoli dopo l’avvio dell’epos omerico i tragici svisceravano con insistenza le vicende collaterali a quella di Ifigenia (ovvero quelle di Agamennone – e di Clitennestra – tanto per tenerci stretti). La domanda è: se l’ineluttabile fato impone un sacrificio, perché macerarsi nel rimorso come se si fosse potuto fare diversamente? Perché la madre della ragazza immolata dovrebbe uccidere il marito (o anche solo serbargli rancore), dal momento che la ragione per cui è andata perduta la vita della figlia è immensamente superiore anche alla pur grave ragion di Stato?

La libertà oggi: un gadget obsoleto

La tragedia indugia, con gusto tarantiniano per la scena truculenta, sugli effetti di libertà continuamente negate e ostinatamente rinate; al contrario, la scena biblica si chiude su Iefte e sulla figlia senza che più nulla (neppure nei secoli successivi) venga descritto a corollario della loro vicenda. Perché essa era già tutta compresa nell’ottica della libertà di un padre di famiglia (che il contesto – già allora contrastato dalla rivelazione divina – dava pacificamente per signore assoluto della casa).


ANDREA BOCELLI
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I tragici intuivano che la libertà umana doveva esistere, come pure quella degli dèi, ma non sapevano rendere ragione di questa speranza (cf. 1Pt 3, 15) – ritengo perché ignari dell’orizzonte teologico offerto dalla notizia (veramente evangelica) della volontà salvifica universale di Dio. Se Dio vuole entrare in contatto con gli uomini e stringere un’alleanza con loro, l’anelito alla felicità che essi da sempre percepiscono nel cuore trova una spiegazione ragionevole e profonda: se di quest’alleanza non s’è mai sentito parlare (e anzi si hanno diverse ragioni per sospettare le divinità capaci di atroci nefandezze), allora l’uomo resta un animale razionale divorato dal senso del tragico.


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Quando a quell’animale razionale è stata sequestrata la stessa nozione del divino, ciò che ne è rimasta è a stento “una passione inutile” (Sartre): il paradosso tragico era claudicante e sanguinolento, ma gli uomini non lo mollavano perché intuivano al suo cuore una profonda benché ancora indistinta verità; immerso negli acidi dei “maestri del sospetto”, di esso resta il sordo assurdo.



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Non più Agamennone o Iefte uccidono degli innocenti per lucrare (a seguito o no di previo e specifico comando) un’auspicata vittoria, ma dei grigi sistemi senza volto, i quali esercitano sui bambini quel diritto – ius vitæ ac necis – che un tempo avevano giudicato barbarico nel patriarcato. E neppure possiamo scriverci su una tragedia – quel che forse è perfino peggio –, perché non ne siamo capaci. Della libertà non sappiamo più cosa farci.

L’ha recentemente illustrato un poeta del nostro tempo di orfani:

Ora che sono… Ora che sono qui,
in questo stupido stupido hotel,
e non sei qui con me…

Tutto mi sembra inutile,
tutto mi sembra com’è:
farmi la barba o uccidere…

che differenza c’è?

 

 

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