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Tornano a uccidere Vincent Lambert, perché morente è la nostra civiltà

JUSTICE
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 02/07/19
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È stato riavviato poche ore fa il processo eutanasico ai danni del quarantatreenne tetraplegico francese: la Cassazione aveva dato via libera pochi giorni fa alla nuova (e definitiva, salvo miracoli) sospensione di alimentazione e idratazione. Il momento è drammatico, ma pur nel dolore di un pezzo di cultura che si rompe non si deve indulgere a isterismi di sorta. Capire le cose, in profondità e complessità: questo occorre provare a fare.

Una volta passato alle spalle il rischio di aggiungere un ulteriore elemento destabilizzante nel già esplosivo calderone elettorale francese in vista delle Europee di maggio, ci si è potuti rimboccare le maniche per riprendere il lavoro sospeso con Vincent Lambert: vincere il braccio di ferro che a prezzo della sua vita permetta di estendere i margini della Loi Léonetti (che in punta di diritto si occupa di malati terminali) ai disabili, e così facendo portare la Francia verso l’eutanasia.



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Con un’asciutta comunicazione il dottor Vincent Sanchez, del CHU di Reims, ha informato che “questo martedì” – ossia oggi – avrebbe ripreso la sospensione di alimentazione e di idratazione con l’intento di portare alla morte Vincent Lambert. Passo obbligato, da parte sua, e in un certo senso “inevitabile”, dopo la sentenza della Cassazione francese del 28 giugno scorso. Giusto ieri Stéphane Durand-Souffland, forse presago di quanto sarebbe avvenuto oggi, pubblicava sul Figaro un amaro fondo (già comparso sul sito del giornale la sera prima) in cui osservava che «l’accanimento giudiziario non risolve niente». A che si riferiva? Alla minaccia dei legali dei genitori di Vincent, che contestualmente alla lettura della sentenza annunciavano l’intenzione di querelare per “omicidio di persona vulnerabile con premeditazione” i medici che si rendessero/renderanno materialmente responsabili della morte di Vincent.

Provenendo da parte di giuristi – spiegava il giornalista – questa minaccia rivolta a un capo-reparto lascia esterrefatti: gli ospedali fanno fronte ogni giorno a casi di coscienza. Dopo aver festeggiato in maniera spropositata in occasione della loro effimera vittoria in Corte d’Appello – quella stessa che la Cassazione ha appena reso carta straccia – come una “remontada”, adesso evocano una procedura che non ha alcuna possibilità di andare in porto.

I professionisti della salute vengono perseguiti per omicidio quando agiscono clandestinamente […], mentre il probabile arresto delle cure prodigate a Lambert sarà – purtroppo – l’atto medico più mediatizzato di Francia, inquadrato dalle sentenze delle più alte giurisdizioni amministrative e giudiziarie, senza che neppure la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (nota per il suo non lesinare veti) abbia trovato di che obiettare.

Non trovo condivisibili le conclusioni di Durand-Souffland (il quale comunque dichiara “eminentemente rispettabile” «lo sconcerto di un padre e di una madre»), ma pure da una doccia fredda si deve imparare una lezione: la partita finisce quando l’arbitro fischia, correre in porta dopo e minacciare denunce alla FIFA oscilla tra il ridicolo e il patetico. Ora, il triplice fischio della “partita Lambert” è arrivato il 28 giugno con la sentenza di Cassazione che dichiarava legittimo per lo Stato Francese fare spallucce davanti all’Onu senza con ciò venire meno ai trattati internazionali. La dura sintesi che Durand-Souffland espresse a mo’ di “morale della favola” è: «In una Repubblica laica è vano opporre le preghiere alle sentenze». Il che, fatta salva la sovrana libertà dell’Eterno (che certamente non ha per le toghe francesi più soggezione di quanta ne ebbe per quella di Pilato), significa che quanti si sobbarcano l’impopolare onere di difendere la dignità della vita umana – i quali in questa congiuntura storica sono largamente assimilabili ai cristiani – non possono illudersi di deviare il corso degli eventi a mezzo di slogan, o di dichiarazioni di principio, laddove l’innervamento valoriale del tessuto sociale in questo quarto di mondo è abbondantemente anestetizzato. La verità è che non ci sono da una parte i buoni e dall’altra i cattivi (i quali anzi sono tanto più mescolati quanto più la posta in gioco si alza), ma da una parte quelli che hanno a cuore la complessità della realtà e dall’altra quelli che a cuore hanno altre cose (il bilancio del welfare, la nomea di un nosocomio… o un’ideologia prolife – ché con tutto si può fare ideologia). La verità è che quasi nessuno è voluto andare oltre il primo crasso strato di disinformazione, ampiamente ammannito dal mainstream mediatico, secondo il quale Vincent sarebbe “in coma”, “tenuto in vita da macchine”, “in stato vegetativo” e altre falsità. Quasi nessuno, anche fra gli stessi cattolici, che spesso hanno preferito rifugiarsi tra dichiarazioni ambigue (“la situazione è delicata…”, “bisogna capire tutte le parti…”) e parole d’ordine quanto mai elusive, perché non pertinenti (“siamo per la vita ma anche contro l’accanimento terapeutico” – e di nuovo, che può mai significare questo in un contesto in cui non vengono praticate terapie?).


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È vero che nessuno dovrebbe andarsene fra gli strepiti e come al centro di un gigantesco tiro alla fune, dove ciascuna squadra (composta da milioni di persone) pensa di lottare per l’unica civiltà possibile e a ogni parte sembra invariabilmente che l’altra persegua un fine sadico; è pure vero che le divisioni interne a una famiglia non dovrebbero essere proiettate in mondovisione. È però altresì vero che in un modo o nell’altro Vincent Lambert è diventato simbolo di un’opzione fondamentale della nostra civiltà verso i suoi membri più deboli, e quindi già sappiamo che il quarantatreenne tetraplegico in stato paucirelazionale è solo il primo di una lunga fila di persone (due settimane fa in Francia ne contavano 1.500 circa), e che il suo caso costituirà un sontuoso precedente funzionale a leggi già da tempo presenti nell’agenda di molti gruppi di potere.


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Che significa questo? Proviamo a darne un saggio. Nell’articolo comparso ieri sul Figaro Durand-Souffland ricordava che la sentenza del 28 giugno ha messo il punto definitivo a una storia giurisprudenziale fatta di 35 (trentacinque!) sentenze diverse:

Talvolta irrisa per la sua pompa d’ermellino, per la singolarità delle sue procedure, per il gergo in cui redige le sue decisioni, la Corte di cassazione non resta neppure indipendente da pressioni esterne – politiche, finanziarie o confessionali. Ne danno testimonianza diverse delle sue sentenze più clamorose – la riabilitazione del capitano Dreyfus, l’annullamento del secondo processo di Yvan Colonna, la cassazione della parte civile nel caso Jérôme Kerviel-Société générale.

Dunque niente angelismi, niente idealizzazioni: in società si vince col potere che viene dal consenso, non con quello che viene dalla verità (chi pensa di conoscere la verità è caldamente esortato ad aggregare consenso attorno ad essa, per il maggior bene di tutti). Nelle ventisette pagine della relazione consegnata in Cassazione il 24 giugno scorso dal Procuratore Generale François Molins ci sono molte cose di cui si potrebbe discutere – certe litoti per affermare senza affermare sono da incorniciare –, ma ce n’è una che balza all’occhio e che merita di essere riportata e considerata una volta di più:

Consacrare il diritto alla vita come una libertà dal “valore supremo” avrebbe inoltre per conseguenza immediata il rimettere in discussione la legge detta “Léonetti” [la legge francese sul fine vita, N.d.T.] in favore dei malati e delle persone in fin di vita, o ancora quella relativa all’interruzione volontaria di gravidanza.

Da questa manciata di righe appare evidente come il valore della vita umana non avrebbe in sé alcun carattere di assolutezza autoevidente, per l’etica e per la politica, mentre “conquiste civili” come l’intervento terminale sulla vita nascente o morente ne avrebbero così tanto da diventare probatorî in sé. Molins dovrebbe spiegare poi se “en faveur des malades et des personnes en fin de vie” s’intenda relativamente a “remise en question…” o relativamente a “la loi dite Léonetti”? Perché in questo caso significherebbe che uccidere i malati sarebbe far loro un favore, in quello invece che non bisogna permettere a iniziative in favore dei malati di prender piede. Non che una delle due opzioni sia preferibile all’altra, ma passaggi come questo rendono bene l’idea della posta in gioco.


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Del resto, l’arcivescovo di Parigi – che è medico oltre che sacerdote della Chiesa cattolica – lo scrisse lapidariamente come fulmen in clausula della sua irreplicabile lettera aperta sul caso Lambert: «Una volta di più, ci troviamo a confrontarci con una scelta decisiva: la civiltà dello scarto o la civiltà dell’amore». Se però anche parole così misurate e accoglienti, luminose e comprensive, sono state rigettate dai cristiani oltre che dai laicisti… è vano prendersela con “il sistema” e minacciare denunce, querele, petizioni e via dicendo. Lambert muore perché morente è la civiltà degli hôtel-Dieu, e non a caso quanti (a proposito della ricostruzione di Notre-Dame) hanno parlato di quell’istituzione antica sono stati criticati dai cristiani prima che dagli altri.

Le parole di Viviane Lambert pronunciate ieri a Ginevra resteranno una pietra miliare di umanità e sarà bene lasciarle in una bottiglia consegnata al web perché qualcuno la ritrovi di là dal nostro naufragio. Ma anche di esse, come di quelle della fidanzata di Geordie, un poeta canterà:

Né il cuore degli inglesi né lo scettro del re
Geordie potran salvare:
anche se piangeranno con te,
la legge non può cambiare.



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