In Sierra Leone, tra guerra ed ebola, una studentessa ventenne ha recuperato una pregiata varietà locale di caffè, ha imparato la torrefazione e ora gestisce una piccola e fiorente attività. Ogni mattina scelgo una capsula diversa, e mi pare di viaggiare. Di qualunque marca o sottomarca siano, i caffè monodose hanno nomi che rimandano a luoghi esotici dai sapori e profumi forti, o fruttati, o tostati. What else? ci ha insegnato George Clooney. Sembra proprio che pure il nostro amato caffè sia stato trasformato in un genere di lusso a portata di tutti, le capsule non assomigliano un po’ alla forma del diamante?
E poi, quante volte è capitato, anche a me, di sorseggiare il mio caffè – il prelibato nettare della grande distribuzione, della globalizzazione che ti porta in ogni angolo di mondo stando a casa – leggendo qualche articolo sul valore dei prodotti locali, sull’intraprendenza coraggiosa dei piccoli artigiani. Contraddizioni? Strabismi dell’attualità, viaggiamo su una consolidata corsia di abitudini (che ci coccolano) parallela e separata dalla corsia delle idee buone, pregevoli (che applaudiamo mentalmente).
Leggi anche:
La fatica di nascere donna in Africa e quello che si può fare davvero per aiutare
Di sicuro è una forte contraddizione quella in cui si è imbattuta Hannah Tarawally, ventenne della Sierra Leone, vedendo le strade di casa sua riempirsi di punti vendita Starbucks in un paese custode di una delle più pregiate piante di caffé, la cui coltivazione è stata abbandonata. Come abitare a un passo da una miniera di diamanti, eppure rifornirsi da gioiellerie straniere.
Allora, Hannah, ha avuto un’idea e si è rimboccata le maniche.
Guerra, ebola & Starbucks
Il nome della Sierra Leone evoca lo scenario africano più tragico, fatto di guerra, persecuzioni, malattia e povertà. Tutto drammaticamente vero: all’indomani della dominazione coloniale, il paese ha conosciuto anni di dittature e lotte intestine; un barlume di stabilità è arrivato agli inizi del 2000, ma poi l’ebola ha portato un ulteriore colpo ferale alla gente del luogo. Nonostante ciò, è uno dei paesi africani a più alta densità di popolazione e uno dei pezzi forti dell’economia è proprio il famigerato olio di palma.
Sulla rivista Africa è comparso un reportage di Marco Trovato che permette di conoscere un volto della Sierra Leone fuori dagli stereotipi, ed è proprio un viso vero e proprio che ci viene incontro, quello della giovane studentessa e imprenditrice Hannah Tarawally. Oggi, quando si parla di giovani di successo con una buona idea in tasca si pensa subito alle influencer di Instagram e Youtube, grande impatto mediatico e poca presa sulla realtà. Hannah è l’opposto:
Orfana di padre in un Paese povero e travagliato, ha dovuto ben presto rimboccarsi le maniche. Due anni fa, per pagarsi gli studi, ha avviato una piccola attività che oggi le sta dando grandi soddisfazioni: “Hannah Coffee”. «Sono la prima produttrice di caffè della Sierra Leone – dice con una punta di orgoglio –. Adoro questa bevanda, il suo aroma intenso. Me ne sono innamorata nell’istante in cui l’ho assaggiata la prima volta in casa di un amico europeo». (da Africa, la rivista del continente vero)
[protected-iframe id=”c7724de54fadd3e1014a7690183a6b36-95521288-57466698″ info=”https://www.facebook.com/plugins/post.php?href=https%3A%2F%2Fwww.facebook.com%2Fcoffeecouriers%2Fphotos%2Fa.377970395739339%2F719001244969584%2F%3Ftype%3D3&width=500″ width=”500″ height=”476″ frameborder=”0″ style=”border:none;overflow:hidden” scrolling=”no”]
In effetti, approfondendo la sua storia personale, si scopre che – come sempre – anche di fronte a una buona idea non c’è mai una singola persona dietro le quinte, ma una cordata umana.
Leggi anche:
La vocazione di Eseosa: tornare in Nigeria per costruire una casa a Dio
Finita la scuola secondaria, la ragazza non poteva permettersi di proseguire gli studi; il fratello era alla dipendenze di un signore inglese trasferitosi in Sierra Leone per lavoro e fu lui a suggerire ad Hannah di pagarsi gli studi distribuendo caffè per gli impiegati delle aziende locali. Lei ha colto la palla al balzo, ma il caffè fornito da un brand locale non era gradito al pubblico.
Allora ha pensato di tostare da sé il caffè e distribuirlo. Ha fatto alcune ricerche su come procedere e ha trovato un fabbro che le ha creato una macchina per la tostatura. Come ogni altro esercizio commerciale l’ebola ha colpito duro anche i suoi affari. Oggi non distribuisce più caffè recandosi negli uffici, lo spedisce su ordinazione. “Ho sei collaboratori che mi aiutano nella distribuzione, mentre io mi concentro sulla tostatura”. (da Visit Sierra Leone)
Non sono esperta di marketing, ma credo che questa sintetica trama racconti le tappe classiche di crescita di un bravo imprenditore: ricerca, intraprendenza e sviluppo. A differenza di me, la giovane Tarawally diventerà anche competente in materia economica, perché l’attività le ha permesso di rimettersi a studiare e la sua scelta è proprio caduta sul marketing:
[…] sogna di aprire una caffetteria. «Un luogo di ritrovo giovanile dove sorseggiare caffè di qualità, qualcosa di alternativo al modello Starbucks che sta dilagando in Africa… Lo so: sono una donna, sola, contro un colosso americano. Ma ce la metterò tutta». (da Africa)
C’è del buono nel giardino piccolo e nelle mani lente
Il caffé è quasi sinonimo della frenesia lavorativa quotidiana, penso alle tante immagini nei film americani di impiegati svelti con la loro tazza da asporto; affrettati, oberati, raramente capaci di gustare qualcosa. Hannah ha riportato il caffé nell’immaginario migliore, che è anche una buona ipotesi di vita: la pausa vera (senza guardare l’orologio), le chiacchiere con gli amici condividendo il gusto di qualcosa di piacevole. Il pensiero va subito alla contea degli Hobbit di tolkeniana memoria, a una terra di piccola gente, di indaffarati lavoratori e amanti del cibo, che sanno fare della propria terra un giardino. E ogni frammento di terra, per quanto prostrato dalle ferite della storia può essere un giardino.
Leggi anche:
La prima donna meccanico nigeriana che insegna il mestiere alle prostitute e alle ragazze madri
Hannah ha trovato un tesoro dimenticato della sua terra, una varietà di caffé molto rara e chiamata Coffea stenophylla. La sua coltivazione è all’opposto delle attuali logiche commerciali, richiede 9 anni di tempo per maturare e la sua torrefazione è un processo che va seguito con premura:
Tutto avviene manualmente, nel retro del suo ufficio, con macchinari artigianali. I chicchi vengono anzitutto versati in un cilindro metallico che, per mezzo di un’asta, viene fatto ruotare sul fuoco per 15-20 minuti. «Il caffè deve essere cullato delicatamente sul calore affinché ogni chicco sia tostato in modo perfetto e omogeneo. Solo così tutte le sue qualità organolettiche possono mantenersi inalterate e sprigionarsi pienamente al momento della degustazione». Poco alla volta i morbidi grani si trasformano in chicchi friabili, leggeri, bruni e profumati. «La torrefazione ha un ruolo fondamentale nel determinare la qualità della bevanda ottenuta», ricorda Hannah. (Ibid)
[protected-iframe id=”4bc6129f8fa3981bbb73b7af871679f4-95521288-57466698″ info=”https://www.facebook.com/plugins/post.php?href=https%3A%2F%2Fwww.facebook.com%2Fcoffeecouriers%2Fphotos%2Fa.377970395739339%2F719001534969555%2F%3Ftype%3D3&width=500″ width=”500″ height=”503″ frameborder=”0″ style=”border:none;overflow:hidden” scrolling=”no”]
Quello che la pubblicità ci fa immaginare dietro ogni capsula di caffè, lei lo fa davvero. Ed è l’ennesima riprova del re che è nudo, cioè che la dimensione più adatta alla persona non è l’omologazione ma la premura particolare. Quante volte ci convincono a comprare un prodotto perché ci mostrano che le mucche sono coccolate, il mugnaio ha cercato e assaggiato tanti cereali e il contadino ha sudato nei campi? Quello che qui è strategia commerciale, in luoghi come il paese di Hannah è ancora ciò che fu in principio: la buona volontà dell’uomo, collaboratore del Creatore.