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I benedettini che salvarono l’Europa

Entrega de la Regla de San Benito, códice del Monasterio de S. Gilles, en Nimes (Francia), año 1129

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 19/06/19
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La difesa e la promozione del sapere classico, sacro e profanodi Roberto Cetera

Il bellissimo libro di Paolo Rumiz Il Filo infinito (Milano, Feltrinelli, 2019, pagine 176, euro 12) racconta, attraverso un itinerario contemporaneo tra i monasteri benedettini europei, come in un passaggio epocale tra la fine dell’impero romano e le invasioni massicce dei popoli del nord, sparuti gruppi di uomini ispirati dalla Regola di Benedetto da Norcia siano riusciti a salvare, preservare e valorizzare quella cultura classica, sacra e profana, quello straordinario incontro tra ellenismo e spiritualità semitica, che ancora oggi costituisce — piaccia o meno — il collante di ciò che chiamiamo Europa, o ancor più Occidente.

L’evidente scopo del libro di Rumiz è quello di proporre analogie con il mondo attuale. Globalizzazione, soverchiante dominio dell’ideologia dei consumi, gigantesca mobilità di umani da un continente all’altro, crescente marginalità del sacro: gli ingredienti della scomparsa di una civiltà in effetti ci sono in abbondanza. Più problematica appare invece oggi una capacità di resistenza analoga a quella che i “monaci neri” riuscirono a esercitare con successo quindici secoli fa. Per rispondere alla questione bisognerebbe intanto indagare su quali furono le modalità con cui quella resistenza si manifestò, quali le forme originali di quell’opus benedettino che, seppur largamente minoritario e senza una volontà dichiarata di proselitismo, riuscì ad assorbire e dominare i popoli e le culture del Nord. Senza dubbio la forza dirompente del messaggio cristiano fu l’ingrediente principale, ma altrettanto certamente la forza di attrazione esercitata anche dal pensiero, dalla parola e dalle arti della classicità non furono da meno. Parafrasando Dostoeveskij: la bellezza già una volta ha salvato il mondo.

Questo è il sottinteso da cui nasce una nuova iniziativa dei monaci benedettini dell’Ateneo Pontificio di sant’Anselmo: riproporre un’Agorà (questa volta anche virtuale) di coltivazione delle arti nobili, in primis la poesia.

«Monos — spiega padre Bernard Sawicki, professore dell’ateneo e coordinatore di questa iniziativa — non è solo uno, solo, separato, ma è anche uno, unitario, riunificato. E cosa altro c’è che più “riunifica” la percezione sensoriale con la trascendentalità che non la poesia?» Chi dedica la vita a costruire amore opera spesso nel silenzio, nel nascondimento, ama usare l’opera silente del classico comporre, con ausilio di ricerca, accuratezza, incardinata in un linguaggio scritto, espressione di spiritualità e poesia. Non si discosta dalla realtà, perché l’amore è comunque una realtà vera. La sapienza poetica, come quella filosofica, sono necessarie all’uomo perché costituiscono un sapere profondo e radicale che tende a scoprirsi, a ricercare la verità di sé. È una sapienza che si distingue proprio per la sua apertura all’essere delle altre persone, del mondo e di Dio. E se, da un lato, la spiritualità ha un ruolo per lo sviluppo del sapere e per il suo servizio all’uomo, dall’altro lato la poesia ha la grande facoltà di contemplare in sé l’armonia musicale delle parole, elaborare in verticale il pensiero, ed essere perciò congrua a trasmettere emozioni, pensiero, e stato d’animo. «Il progetto intitolato “Le vie dell’anima” — spiega Maria Francesca Carnea docente di comunicazione spirituale e tra i promotori dell’iniziativa — ha l’ambizione di calare la parola poetica nelle carni ferite di un’umanità da ritrovare e rendere feconda, come un seme spirituale che sprigiona un nuovo sguardo al cielo». L’idea è quella di dialogare e interagire tra letteratura, filosofia, spiritualità, in relazione con altri linguaggi artistici: la poesia, ma anche la pittura e la musica. «L’ispirazione ci è venuta gustando le meravigliose poesie di Silja Walter, la celebre monaca benedettina di Fahr in Svizzera, scomparsa nel 2011 ma ancora tanto viva nei suoi scritti — continua la professoressa Carnea — ma c’è tutto il riferimento alla vasta tradizione letteraria monastica e della lectio divina, che parte dagli scritti dei padri del deserto, passa attraverso Anselmo e Bernardo di Chiaravalle, fino ai nostri giorni, alle poesie di Thomas Merton e agli studi sul rapporto tra letteratura e spiritualità di Jean Leclercq sintetizzati nel celebre L’amore delle lettere e il desiderio di Dio». Il progetto prevede esibizioni di lettura e scrittura poetica, corsi di E-learning, incontri di Lectio Divina, editing di testi poetici, workshop degli autori, ed è aperto a tutti coloro che desiderino approfondire tematiche di spiritualità, poesia, scrittura, elaborazione testi e musiche.

«È un’iniziativa che parte dall’Ateneo — conclude padre Fernando Rivas, coordinatore dell’istituto di spiritualità monastica di sant’Anselmo — ma che vuole uscire dall’università. Avrà un senso se saprà guardare e aprirsi al mondo, come fecero appunto i monaci quindici secoli fa».

 

Qui l’originale de L’Osservatore Romano

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