Intervista a Julián Carrón sulla crisi della società italiana e il ruolo della ChiesaCon Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, si allarga all’intera Europa la riflessione sulla crisi della società attuale e sul ruolo della Chiesa che, da alcune settimane, portiamo avanti su queste pagine.
Giuseppe De Rita, riflettendo su queste pagine sulla crisi attuale della società italiana ed europea, ha fatto riferimento al passato, quando nel Medio Evo il buon governo di una comunità si poggiava su due autorità, quella civile che garantiva la sicurezza e quella spirituale che offriva ai cittadini il senso dell’esistenza. Le due autorità non possono essere concentrate in una sola persona, e invece spesso in Europa si tende alla concentrazione del potere. Quale può essere in questo contesto il ruolo della Chiesa e quindi la sua responsabilità?
In realtà i due aspetti sono molto legati tra di loro. Negli animi di tanta gente si nota l’ombra di una grande paura, di una profonda insicurezza. Ma di che si tratta? Come farvi fronte? Se le persone non trovano una risposta radicale alla paura, questa prende il sopravvento e produce reazioni scomposte. Risulta tuttavia del tutto evidente che la politica non è, non può essere in grado di rispondere a tutta l’ansia di sicurezza, a tutto lo sgomento, che l’uomo ha dentro di sé. Emerge allora la vera questione. La società — con tutte le sue istituzioni, i partiti, i sindacati, le scuole di ogni ordine e grado, e le sue realtà vive, le comunità, la Chiesa — ha davanti una sfida: chi risponde a questo bisogno di sicurezza che compare insieme alla paura? Per affrontarlo non ci si può affidare a muri di qualsivoglia genere: quando serpeggiano gli atteggiamenti più ostili, nel segno dell’homo homini lupus, quando qualsiasi persona o cosa diventa nemico potenziale, la risposta non è mai riducibile ai “poliziotti” o ai “muri”.
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Oggi la paura sembra essere il sentimento più diffuso quando invece, paradossalmente, la società non è mai stata così sicura, come si spiega?
Esattamente, perché la questione della paura è totalmente radicata nella questione del senso. La risposta all’insicurezza non può essere soltanto sociale, deve essere risposta alla domanda di senso, perché l’uomo non è mai riducibile ai suoi aspetti materiali. Da dove nasce in ultima istanza la paura? Dallo spaesamento che abita nell’intimo dell’uomo. La sicurezza materiale non è una risposta sufficiente di fronte allo smarrimento ultimo dell’io. Lo dimostra proprio il fatto che lei ha richiamato: le società occidentali non sono state mai così sicure, sane e in pace come oggi, eppure è aumentato il senso di insicurezza, di paura. La paura dell’uomo può essere vinta solo dalla presenza. Lo vediamo nell’esperienza elementare di un bambino. L’unica risposta alla sua paura è la presenza della mamma, che egli infatti reclama con tutte le proprie forze: non cerca altro, perché nient’altro sarebbe in grado di rispondere. Il problema è quindi più profondo. Qualche giorno fa a Parigi, presentando un libro, ho citato lo scrittore Houellebecq, che viene considerato quasi un simbolo del nichilismo. Eppure, nel fondo di questo apparente nichilismo, si rivela un’esigenza di significato impressionante e insopprimibile. In una lettera pubblica rivolta a Bernard-Henry Lèvy scrive: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora». Il desiderio è più radicale della sua riflessione. La riflessione sull’assurdità di desiderare di essere amato, di cercare una risposta a questa sua sete, deve cedere il passo al desiderio che persiste. Ecco, quello che abbiamo davanti, con cui ci misuriamo, è il problema del desiderio — il desiderio di essere amati, di compiersi —, che non trovando risposta si manifesta nella paura, nella rabbia, nella violenza, nel tentativo di creare muri; ma alla radice c’è qualcosa che sfugge, che è la natura dell’uomo, e che pur in questa situazione di nichilismo, di confusione, di smarrimento, resta irriducibile. È a questo livello che siamo interpellati.
A questo livello può intervenire la Chiesa?
Credo che la Chiesa, i cristiani abbiano a questo riguardo un compito unico. La questione è infatti: chi salva il desiderio? Che tipo di sguardo è necessario ricevere perché esso non venga ridotto? Nel mondo classico, la dismisura del desiderio era percepita con terrore, come una hybris pericolosa. Occorreva quindi mettere dei “paletti”, ridurre quella dismisura, rimetterla dentro i binari di una misura. Poi è arrivato il cristianesimo. Nel Vangelo si documenta la presenza di uno che sta davanti a tutto il desiderio dell’uomo. Gesù si rivolge proprio a questo desiderio, è in grado di guardare in faccia il desiderio, lo svela in tutta la sua portata. Perciò chiede: «Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà se stesso?» (Mt 16, 26). Tante volte interpretiamo questa domanda in modo moralistico e non come espressione ultima della natura dell’uomo, del suo desiderio, di quella sete di cui parla Gesù alla Samaritana, della fame e sete delle Beatitudini. Gesù avrebbe potuto guardare tante altre cose di quella donna “irregolare”, con i suoi cinque mariti, invece guarda dritto alla sua sete: egli sa che solo proponendole qualcosa in grado di rispondere alla sua sete di felicità, quella donna potrà non cercare altrove, in cose che non possono darglielo, il compimento del vivere. Questa non è solamente una questione personale, è una questione sociale. Houellebecq mette in evidenza proprio tale rilevanza pubblica, sociale, culturale, politica del problema, perché se l’uomo non trova una risposta adeguata alla natura del suo desiderio, in fondo resta sempre a disagio, cerca soluzioni insufficienti e finisce vittima della paura o della violenza. Il cristianesimo può stare davanti a questo desiderio, come ricorda Agostino: «Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te», fino a quando cioè non incontra una presenza proporzionata alla profondità del desiderio. Ogniqualvolta il cristianesimo entra in crisi riemerge quello spirito pagano che vuole imbrigliare il desiderio, ridurlo, «ricondurlo entro limiti di sicurezza», come dice a suo modo Todorov, perché esso diventa di nuovo pericoloso. Bergman, nel finale di Fanny e Alexander, fa dire a uno dei suoi personaggi: «Noi non siamo preparati, attrezzati per certe indagini. La cosa migliore è mandare all’inferno i grandi contesti. Noi vivremo in piccolo, nel piccolo mondo. E ci contenteremo di quello», stando nei nostri limiti. È questa la “saggezza” mondana, che non può eliminare però la sete inestinguibile di significato che brucia il cuore dell’uomo.
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Il Papa, parlando lo scorso 9 maggio alla Diocesi di Roma, ha definito le Beatitudini “il premio Nobel dello squilibrio” invitando il cristiano a “mantenere lo squilibrio”, gestire la manutenzione dello squilibrio, perché altrimenti faremo i paletti della bella armonia greca che però sminuisce l’umano. Non è questo il rischio dell’Europa che forse fino ad adesso si è concentrata a porre dei paletti burocratici, cercando di gestire la sicurezza, ma non dando risposta a quella sete sempre eccedente che però è l’umano?
È proprio questo il punto. Tutti i tentativi anche buoni sono in ultima istanza fallimentari se non si risponde a questa sete. L’Europa ha fatto uno sforzo enorme per rispondere a tanti bisogni. Nessun Paese da solo sarebbe potuto arrivare al grado di sviluppo cui siamo arrivati. Ma allo stesso tempo lo scontento e il disagio aumentano. Come mai? Il problema nasce dal non aver capito qual è la natura della “malattia”. Mi ha sempre stupito la genialità di Leopardi nel coglierla: «Tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio». Per tanti ciò è qualcosa di negativo, come una disgrazia, mentre è la diversità e la grandezza dell’uomo. Se perdiamo la consapevolezza di questa diversità, della infinità del nostro desiderio, non capiamo nulla di quello che succede. Se l’Europa non si rende conto di questo, non potrà evitare di dare risposte penultime pretendendo che siano sufficienti. Intendiamoci: da una parte l’Europa, in quanto realtà politico-economica, non deve rispondere all’esigenza ultima, perché non è il suo scopo; ma dall’altra deve riconoscere qual è la natura del problema e lasciare lo spazio per la risposta. L’Europa esiste in quanto crea e garantisce quello spazio di libertà in cui si possano incontrare le diverse risposte di senso. Perché — a me sembra una cosa definitivamente acquisita dopo il Concilio — non c’è possibilità di accedere alla verità se non attraverso la libertà. Solo se l’Europa rimane e diventa sempre di più tale spazio di libertà, potremo condividere la ricchezza che l’uno o l’altro avrà trovato nella vita e potremo offrirla come risposta alle esigenze e alle sfide che abbiamo davanti. Si tratta di uno spazio in cui sia anzitutto salvaguardata la possibilità di riconoscere quel qualcosa di più che costituisce l’uomo, che ci rende tutti esseri umani, per quanto diversi e unici nella propria complessità. Questo è il grande contributo che il cristianesimo e la dimensione della fede possono offrire.
Eppure sembra che dal disagio e dallo scontento si passi spesso al rancore e alle reazioni emotive che ne derivano, come potrebbe essere inteso il sovranismo. Se l’Europa non mi corrisponde mi chiudo nel mio piccolo spazio individuale o nazionale dove sono sovrano. Più che una risposta questa sembra essere una reazione quasi automatica.
È una reazione che mette in evidenza una mancanza. Uno che è contento, infatti, non prova rancore, non “reagisce”. La reazione prende lo spunto da una esigenza che non ha trovato ancora risposta e spesso non è nemmeno compiutamente affiorata alla consapevolezza. Questa è la grande occasione — secondo me — del cristianesimo. Il nichilismo che vediamo in tanti fenomeni della vita sociale, culturale, letteraria rivela l’esistenza di una domanda aperta, inquietante, sulla propria vita, documentando l’irriducibilità dell’umano. Chi può rispondervi? La Chiesa è chiamata in gioco, trova qui il suo compito. In forza di quello che per grazia abbiamo ricevuto e riceviamo, noi cristiani abbiamo in questo contesto un compito cruciale. L’uomo ha bisogno di essere guardato in modo non riduttivo, di essere abbracciato in tutta la sua “densità di umanità”. È il modo in cui Gesù guarda Zaccheo, che apparentemente era meno bisognoso, perché era molto ricco: intercetta in lui il bisogno vero, quello di essere guardato senza essere ridotto ai meri fattori materiali e sociali. Zaccheo si sente guardato in un modo che muove il suo io, che lo mette in azione, e accoglie Gesù pieno di gioia. La risposta a quel bisogno, a volte nascosto, a volte non sufficientemente consapevole, gli era venuta da uno che non aveva ridotto l’umano che era in lui. Gesù sa intercettare questo bisogno nei poveri che trova per la strada, nei malati e feriti del suo tempo (Zaccheo è un uomo ferito), proprio come oggi il Papa dimostra di saper fare nel rapporto uno ad uno, nel rapporto con gli altri, testimoniando nel presente la contemporaneità dello sguardo di Gesù.
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Anche il fenomeno della globalizzazione sembra avere un po’ tradito le sue promesse, ha indebolito la mediazione e ha fatto rinascere un sentimento opposto ed eccessivo dell’identità. La crisi della mediazione e dei corpi intermedi ha generato condizione di solitudine è diventata crisi dell’appartenenza a favore di un senso dell’identità forte ma solo individualistica. Anche qui il cristiano può avere una parola opportuna.
Una parola decisiva, perché il cristianesimo risponde proprio alla solitudine, alla solitudine del cuore, generata dalla esigenza insoddisfatta e irriducibile di significato, a cui solo una presenza eccezionale, la presenza di Cristo nella carne di un incontro umano, può rispondere. Pensiamo all’uomo di fronte alla malattia, alla morte. Ebbene, il cristianesimo non è solo un discorso, ma è una parola incarnata. Il Verbo si è fatto carne affinché ogni persona possa sperimentarne la presenza nella vita e nei luoghi in cui la solitudine radicale emerge più acutamente, esplode, spesso venendo elusa; il Verbo si è fatto carne, presenza, per condividere la vita intera di ciascuno di noi, senza nulla censurare, dagli aspetti elementari, concreti, fino alla solitudine più radicale. La Chiesa è per definizione una comunità, un luogo intermedio, che mette in rapporto l’individuo con il significato ultimo, con il Mistero: essa è la continuazione di quel grande intermediario che è Cristo. Cristo mette in rapporto l’Infinito con l’uomo storico concreto. Il cristiano “privato” non esiste, egli finisce sempre, per sua natura, a generare comunità, luoghi dove insieme si può affrontare la solitudine completa, quella vera.
Papa Francesco ha proposto il tema, anzi il metodo, della sinodalità; è il segno di questa generatività sociale propria del cristianesimo?
Mi sembra un punto fondamentale, perché il cammino nella vita si fa insieme. La questione è come ciascuno di noi, insieme agli altri, mette in comune le ricchezze delle esperienze che fa. Questo cammino insieme per trovare la strada, in una condivisione che costantemente prende iniziativa e corregge le cose che non vanno, dove ciascuno diventa veramente protagonista, può procedere se siamo disponibili a ripartire sempre, a cambiare, a ricominciare da capo. La provocazione della realtà è sempre “in agguato” e fa parte del cammino umano, sostenuto dai contributi che ti danno gli ultimi, ridonandoti quello che tu davi per scontato, dall’aiuto che ti offrono le persone più impensabili. Uno deve essere costantemente attento a lasciarsi arricchire da tutto quello che il Mistero fa per rispondere ai bisogni. La questione è se noi siamo disponibili a riconoscere qualsiasi briciola di verità, di iniziativa, di spunto che appare nella vita della Chiesa. Mi ha colpito tanto nella Christus vivit vedere sottolineato il desiderio di abbracciare e stimolare qualsiasi iniziativa. Quando questo avviene nella Chiesa, tutti i doni che Dio nella sua libertà totale distribuisce vengono accolti. Allora tutto contribuisce al bene della Chiesa, che, come dice il Papa, è poliedrica. La figura del poliedro ci ricorda che la vita non è rigidamente armoniosa, non è riducibile in schemi meramente logici. Come scrive Benedetto XVI nella Spe salvi, «un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale», ma dove c’è di mezzo la libertà si riparte sempre, perché essa «presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio». Per questo è difficile fare previsioni e programmazioni. Lo diceva bene Goethe: «Quello che hai ereditato dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo». Quello che i nostri antenati avevano percepito come un bene, il mettersi insieme dopo il dramma della seconda guerra mondiale — cominciando con un gesto concreto come l’accordo sul carbone e l’acciaio —, adesso che abbiamo sviluppato tutto, ci sembra nulla; per loro invece è stato l’inizio concretissimo di un cammino che è fiorito. Tutto si può correggere, ma la questione è non mettere a repentaglio le conquiste e i progressi ottenuti in lunghi anni. Si tratta di introdurre le correzioni necessarie, come in ogni opera. L’essere umano è perfettibile così come ogni sua costruzione.
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La voce del Papa è molto ascoltata ma è anche una voce isolata in un mondo che sembra muoversi in direzioni diverse se non opposte. È il momento per i cristiani di essere quelle “minoranze creative” di cui parlava Benedetto XVI?
Al Papa viene riconosciuta una originalità e autorevolezza da tante parti. Proprio nel momento in cui sembra isolato, è più facilmente riconoscibile la sua diversità. Questo è un segno di quanto il contributo dei cristiani, che in certi momenti può essere numericamente meno consistente, non è per questo meno rilevante. Alle volte abbiamo collegato la nostra capacità di incidenza solo ai numeri. Tanti ancora oggi temono che, se non abbiamo certi posti o certi numeri, la nostra presenza diventi irrilevante. Ma la rilevanza, l’incidenza storica di una presenza, non dipende dai numeri, bensì dalla sua diversità. Il Papa lo testimonia: nella sua apparente impotenza, ha una capacità di incidenza infinitamente più grande di qualsiasi altro potere. Un’opera artistica non dipende dalle dimensioni, dipende dalla bellezza che manifesta, dalla diversità che porta in sé e che comunica. È questo che Cristo ha portato, una diversità, che a noi suona come un paradosso: che Dio decida di andare incontro all’uomo smarrito e che per farlo si spogli della sua divinità ci sembra assurdo. È il contrario di quello che noi faremmo. Dio ci “sposta” costantemente. Ma, possiamo dirlo, qualche contributo, spogliandosi della sua divinità, Cristo l’ha dato al cambiamento del mondo! Questa è la forza “squilibrata” del cristianesimo, della presenza dei cristiani: dovunque esso è autenticamente vissuto genera nuova vita, anche dentro la sua apparente povertà, la sua apparente insignificanza. La Chiesa è questa bellezza che sta dentro il mondo, che fa sempre nuove tutte le cose. Questo è il grande contributo — proprio adesso che i numeri sono quello che sono — che i cristiani sono chiamati a dare. Per noi è un nuovo inizio. Ma per la Chiesa è una “vecchia storia”, come testimonia la Lettera a Diogneto. Quella lettera documenta qual era la vera testimonianza che i cristiani, nella loro apparente irrilevanza, davano nei primi secoli. A quella testimonianza siamo chiamati anche oggi.