Farà discutere l’ultimo libro di Don Luigi Ciotti, che ricostruisce l’origine del clima d’odio di questi tempi, tirando in ballo anche Livia Turco e Matteo Renzi
Si intitola “Lettera a un razzista del terzo millennio”, l’ultimo libro di don Luigi Ciotti, edito dal Gruppo Abele. Attraverso le sue 78 pagine, l’autore propone una visione innovativa su un argomento irrinunciabile per capire la nostra identità nell’attuale corso storico (L’Huffington Post, 9 marzo).
Il razzista del nuovo millennio
Gli stranieri ci stanno invadendo? Chiudere i porti è una soluzione? Che cosa vuol dire «prima gli italiani»? Don Ciotti scrive una lettera a cuore aperto contro «l’emorragia di umanità alimentata dagli imprenditori della paura»: una presa di posizione salda contro tutti i razzismi da parte di chi ha fatto dell’accoglienza la propria missione da più di cinquant’anni.
Una lettera indirizzata a un razzista del nuovo millennio ormai avvelenato da luoghi comuni e narrazioni tossiche. Per decostruire i pregiudizi e affermare i principi di una società più giusta (Edizioni Gruppo Abele).
In principio fu Napolitano
Tracciando la genealogia del decreto Sicurezza, Ciotti allinea le leggi che hanno contribuito «a dare diritto di cittadinanza al razzismo: ebbene, la prima di esse non porta il nome di un politico fascista, ma quelli di Livia Turco e Giorgio Napolitano (1998). Da allora, i migranti non hanno goduto più degli stessi diritti dei cittadini.
I neri – di questo si tratta – diventarono per legge diversi dai bianchi: e l’autore di quella legge divenne presidente della Repubblica. E questo giudizio, in bocca a don Ciotti, guasta il maquillage con cui il Pd prepara una campagna elettorale contro i razzisti.
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L’ipocrisia di Salvini
Ancora. In un passaggio lucidissimo e coraggioso, Ciotti scrive che «il culmine dell’ipocrisia, con cui il razzismo nasconde la propria cattiva coscienza e cerca di darsi rispettabilità e credibilità, sta nell’affermazione ‘aiutiamo i migranti a casa loro’».
Qua si guarda in faccia non Salvini in sé, ma “Salvini in me”, per riprendere una celebre espressione coniata per Berlusconi. E cioè la diffusione di quella retorica che va sotto l’etichetta di «non sono razzista, ma…» (per usare il titolo di un libro di Luigi Manconi e Federica Resta).
Il gioco di Renzi
Fatto è che il più autorevole uomo pubblico che ha usato quel nascondimento è l’ex segretario del Pd, Matteo Renzi, che nel suo libro del 2017, scrive: «Vorrei che ci liberassimo da una sorta di senso di colpa. Noi non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale di aiutarli. E di aiutarli davvero a casa loro» (Antimafia Duemila, 9 marzo).
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