Intervista al cardinale Gualtiero BassettiA un secolo dalla nascita del Partito Popolare, l’impegno dei cattolici in politica è tornato nel dibattito culturale in atto nel paese. Sul tema interviene anche il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana, offrendo spunti di riflessione per il presente, senza dimenticare il contributo del laicato cattolico alla storia della nazione.
Più di quarant’anni fa Aldo Moro definiva l’Italia «un paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili», parole che oggi suonano profetiche: la passionalità è diventata sempre più feroce, incattivita, e la fragilità del tessuto istituzionale e sociale è aumentata. Lei individua nel nodo della formazione il primo punto da cui partire, sapendo che bisogna investire nel futuro con la logica del seminatore che spesso non vede i frutti del suo lavoro. Ma per l’oggi della politica, data la grave situazione di crisi, cosa si potrebbe intanto cominciare a fare? Cosa può fare la Chiesa italiana?
L’ho detto tante volte: per la Chiesa oggi è il tempo della semina. È il tempo in cui occorre ricostruire, ricucire e pacificare l’Italia e l’Europa. Soprattutto è il tempo in cui il laicato deve assumere la consapevolezza del suo ruolo e della sua missione. Ovvero essere il sale della terra in ogni ambito dell’agire sociale, anche in quello politico. Almeno in quattro punti. La formazione, basata su una reale comprensione della dottrina sociale della Chiesa Cattolica, è un buon inizio, ma non è sufficiente. Dare vita, dal basso, ad una rete o ad un forum di tutte le realtà associative presenti nel Paese che si occupano di bene comune è, invece, un passo importante. Lasciare spazio ai giovani talenti italiani e dare loro la possibilità di esprimersi è un imperativo morale. Dialogare con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, a prescindere dalla loro fede, costruendo con loro un percorso comune è un obiettivo fondamentale.
Abbiamo citato Moro, erano quelli gli anni di Montini assistente della fuci, di La Pira, quale può essere la lezione per il laicato cattolico che scaturisce da quella esperienza?
Ci sono due lezioni. La prima riguarda le premesse culturali. Queste grandi personalità che lei ha citato sono tutte legate da un filo comune: il personalismo cristiano. Mi piace citare l’Umanesimo integrale di Maritain che, al di là delle diverse interpretazioni, rappresenta un passaggio fondamentale del ’900. È necessario riscoprire e riattualizzare il personalismo di fronte alle sfide odierne: quella tecnico-laicista da un lato, e quella populista-xenofoba dall’altro. La seconda lezione rimanda, invece, alla testimonianza esemplare di quella che, come ho già detto, è la “tradizione alta e nobile” del cattolicesimo politico italiano. Una tradizione che riassumerei con tre concetti: la politica come missione; la responsabilità verso il popolo italiano; la sobrietà nei comportamenti.
Un secolo fa Sturzo fondava un partito laico, non confessionale, non “di cattolici” ma di ispirazione cristiana. Oggi la Chiesa italiana sembra assestarsi su una posizione di “voce critica”, pronta a parlare e dialogare con tutti, può essere sufficiente questo atteggiamento o è tempo di un intervento più concreto e operativo?
La Chiesa parlando al mondo di oggi alla luce del Vangelo e spronando il laicato ad un impegno sociale svolge già un intervento estremamente concreto. L’esempio di Sturzo da lei citato è emblematico: il prete di Caltagirone iniziò il suo impegno sociale dopo la pubblicazione della Rerum novarum del 1891 ma dette vita al Partito popolare solo nel 1919. I cattolici svolsero poi un ruolo concreto soltanto dopo il 1943 e oggi si possono annoverare tra i “soci fondatori” della Repubblica. E proprio in virtù di questo status, di essere cioè tra coloro che hanno fondato la Repubblica italiana, che i cattolici hanno il compito e il dovere di assumersi delle responsabilità nei confronti del Paese, ma i tempi non ci appartengono. Come dice Francesco oggi è fondamentale avviare dei processi più che occupare spazi. E questo fatto rappresenta, già di per sé, una grandissima novità rispetto al passato.
Il Papa ha parlato, sin dal convegno di Firenze, di sinodalità, si tratta di un invito all’assunzione di uno stile da mantenere a tutti i livelli, dalla parrocchia alla Cei, strutture che forse sono da ripensare. Per avviare questo processo è forse necessario passare per un evento concreto come ad esempio un sinodo tematico per l’intera Chiesa italiana?
Quella del Sinodo è un’idea buona ma che va maturata nel tempo. In questo momento è fondamentale approfondire alcuni criteri di sinodalità e soprattutto prepararci all’Incontro di riflessione e di spiritualità per la pace nel Mediterraneo che si svolgerà a Bari nel febbraio 2020. Un’assise unica nel suo genere, promossa dalla Chiesa italiana, che permetterà l’incontro tra i vescovi dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e che, soprattutto, valorizzerà la sinodalità per favorire il discernimento ecclesiale sui problemi e il futuro dell’intera regione. L’incontro di Bari, che trae ispirazione da un’intuizione lapiriana, sarà quindi un’applicazione concreta del metodo sinodale per affrontare alcune questioni di grande importanza per l’Italia e l’Europa come, ad esempio, il dialogo interreligioso, la pace nel bacino mediterraneo e le migrazioni internazionali.