Vietnam: iniziato il secondo incontro-vertice tra Donald Trump e Kim Jong-un
A Hanoi è iniziato mercoledì 27 febbraio in un clima disteso, il secondo incontro-vertice tra il presidente americano Donald Trump e il suo omologo nordcoreano Kim Jong-un. Mentre il presidente USA è arrivato martedì 26 febbraio a bordo dell’aereo presidenziale «Air Force One» nella capitale del Vietnam, Kim ha preferito fare l’intero viaggio (lungo circa 4.500 chilometri, quasi tutto in territorio cinese) da Pyongyang a Hanoi nel suo treno blindato.
«Il Vietnam sta prosperando come pochi posti sulla terra. La Corea del Nord farebbe lo stesso, e molto rapidamente, se denuclearizzasse. Il potenziale è TREMENDO, una grande opportunità, come quasi nessun altro nella storia per il mio amico Kim Jong-un. Lo sapremo presto – davvero interessante!», ha scritto Trump in un messaggio diffuso sul suo account Twitter.
Trump ha ripetuto lo stesso concetto in un altro tweet, che rivela l’obiettivo del suo viaggio: spingere la Corea del Nord ad abbandonare il suo programma nucleare in cambio di aiuti economici. «Kim e io lavoreremo molto sodo per fare qualcosa per la denuclearizzazione e poi fare della Corea del Nord una potenza economica», così ha dichiarato Trump. Ma molti esperti, fra cui Jean Lee e Andrei Lankov, dubitano seriamente che questa strategia «della carota» possa funzionare con Kim e il suo influente braccio destro Kim Yong-chol.
Mentre uno degli altri obiettivi del summit è chiudere formalmente la guerra di Corea (1950-1953) – «vedremo», ha detto Trump ad un giornalista – c’è chi sostiene che il presidente americano stia commettendo «un errore pesante», come ha dichiarato in un’intervista con L’Express l’ex vice-ambasciatore nordcoreano a Londra, Thae Yong-ho, fuggito in Corea del Sud nel 2016. Secondo l’ex diplomatico, Kim non rinuncerà al suo programma nucleare. «La bomba atomica protegge il Paese, ma è anche un orgoglio nazionale. Rappresenta l’assicurazione sulla vita per il regime e garantisce di mantenere la sua identità».
Iran: il presidente Rouhani respinge le dimissioni del ministro degli Esteri Zarif
In Iran, il presidente Hassan Rouhani (scritto anche Rowhani o Rohani) ha respinto mercoledì 27 febbraio in modo formale le dimissioni offerte lunedì 25 febbraio dal ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif. «Apprezzo il Vostro duro lavoro», sottolinea Rouhani in una lettera inviata al ministro e pubblicata sul sito ufficiale della presidenza, e «dal momento che credo Voi siate in prima linea nel resistere alle intense pressioni degli Stati Uniti, ritengo l’accettare le Vostre dimissioni contro gli interessi del nostro Paese, e le respingo».
Come ricorda El Mundo, Zarif è stato il principale negoziatore iraniano dell’accordo nucleare firmato nel 2015 tra la Repubblica Islamica e il cosiddetto «Gruppo 5+1» (cioè USA, Russia, Francia, Cina, Gran Bretagna, più la Germania), che «gli è valsa l’immagine di un politico dialogante ed efficace, sia a livello interno che esterno».
Come spiega in un’intervista con la Deutschlandfunk il politologo Jochen Hippler, è molto difficile per Rouhani accettare le dimissioni di Zarif: lui stesso rischia di finire nella mira degli integralisti religiosi o «hardliner» di Teheran, rafforzati dalla politica del presidente americano Donald Trump e la sua decisione di abbandonare l’accordo del 2015.
Per il quotidiano L’Orient-Le Jour, i problemi di Zarif sono principalmente due. Prima di tutto è «accusato dai conservatori di aver spinto Teheran a fare delle concessioni per concludere un accordo che non è stato rispettato da Washington». Inoltre, così continua la testata libanese, l’attività diplomatica di Zarif consiste «essenzialmente nel trattare con i partner occidentali questioni strategiche dalle quali lui stesso è escluso sul foro interno». La politica estera di Teheran in Medio Oriente, dalla Siria allo Yemen, è infatti nelle mani dei Guardiani della Rivoluzione (o Pasdaran), suggerisce il quotidiano.
Nigeria: il presidente Buhari è stato rieletto
Nelle elezioni presidenziali che si sono svolte sabato 23 febbraio con una settimana di ritardo in Nigeria (programmate per sabato 16 febbraio, erano state spostate all’ultimo momento), si è imposto l’attuale presidente Muhammadu Buhari, 76 anni, del partito Congresso di Tutti i Progressisti (APC in acronimo inglese). Secondo la Commissione Elettorale Nazionale Indipendente della Nigeria, che ha diffuso il nome del vincitore nella notte tra martedì 26 e mercoledì 27 febbraio, Buhari ha ottenuto il 56% delle preferenze (15 milioni di voti), battendo con uno scarto di 4 milioni di voti il suo principale sfidante, Atiku Abubakar, 72 anni, del Partito Democratico Popolare (PDP), così spiega Le Monde.
Anche se un numero record di 84.004.084 persone si era fatto registrare per esprimere il proprio voto – un aumento del 18% rispetto alle presidenziali del 2015 –, l’affluenza alle urne è stata bassa: neppure il 40%, un calo rispetto al 2015. Secondo il quotidiano francese, oltre al fatto che la decisione di spostare le elezioni abbia scoraggiato milioni di elettori – molti infatti avevano viaggiato centinaia di chilometri per poter votare nel loro luogo di provenienza –, a spiegare la fiacca partecipazione al voto è inoltre l’attuale sfera politica «poco rinnovata», che «non attira più un elettorato sempre più giovane e avido di cambiamento».
La formazione dello sfidante Abubakar respinge l’esito delle urne. La vittoria di Buhari, che per la sua salute cagionevole viene anche soprannominato «Baba go slow», cioè «papà va piano», sarebbe il risultato di brogli e di irregolarità, sostiene il PDP. Un portavoce del partito, Tanimu Turaki, aveva chiesto martedì 26 febbraio di fermare il conteggio delle schede, scrive la Deutsche Welle.
Cuba: l’86,85% dei votanti approva la nuova Costituzione
L’elettorato cubano ha approvato in un referendum nazionale, che si è svolto domenica 24 febbraio, il progetto di nuova Costituzione per l’isola. Dai dati preliminari pubblicati lunedì 25 febbraio dalla Commissione Elettorale Nazionale (CEN) emerge che l’86,85% dei 7.848.343 elettori che si sono recati alle urne, ossia 6.816.169 cubani, hanno detto «sì» al nuovo testo. Il 9% invece ha detto «no», mentre le schede nulle o bianche sono state il 4,1% circa. Per la Neue Zürcher Zeitung, si tratta di «un’espressione senza precedenti di opposizione», visto che l’attuale Costituzione era stata approvata dal 98% dei votanti nel 1976. Osservatori indipendenti non erano ammessi, ricorda la NZZ.
Secondo il noto quotidiano di Zurigo, il nuovo testo «rende ogni apertura politica impossibile». «La nuova costituzione – così scrive l’autore, Peter Gaupp – rafforza la posizione del regime del Partito Comunista. Non c’è alcuna traccia di pluralismo politico e viene mantenuto anche il primato dell’economia pianificata socialista».
Molto critico è il Dipartimento di Stato americano. «Nessuno deve lasciarsi ingannare da questo esercizio», così si legge in una dichiarazione del Segretario di Stato, Mike Pompeo, che parla di un «teatro politico». «La nuova Costituzione afferma in primo luogo il ruolo del Partito Comunista come unico partito politico legale e decreta il sistema socialista come “irrevocabile”, bloccando la possibilità di riforme economiche disperatamente necessarie. Anche questo documento non riesce a garantire al popolo cubano le libertà fondamentali», sostiene Pompeo.
Amnesty International: «massicce violazioni» dei diritti umani in Medio Oriente e Africa del Nord
In un rapporto reso pubblico martedì 26 febbraio, la nota organizzazione non governativa internazionale Amnesty International (AI), impegnata nella difesa dei diritti umani in tutto il mondo, denuncia «l’inadeguatezza della risposta internazionale a clamorose violazioni dei diritti umani da parte dei governi» in Medio Oriente e Africa del Nord. «In tutta la regione, le autorità hanno utilizzato la detenzione arbitraria, la forza eccessiva contro chi protesta e le misure amministrative per limitare la società civile», così si legge nel documento intitolato «Human rights in the Middle East and North Africa: Review of 2018» e disponibile in quattro lingue.
«Vi sono stati alcuni limitati sviluppi positivi per quanto riguarda la pena di morte, ma numeri elevati di persone continuano ad essere giustiziati in Egitto, Iran, Iraq e Arabia Saudita, molti dei quali sono stati condannati a morte in processi iniqui», osserva il rapporto, che denuncia anche le esportazioni di armi verso l’Arabia Saudita. «C’è voluto l’omicidio a sangue freddo di Khashoggi […], perché una manciata di Stati maggiormente responsabili sospendessero i trasferimenti di armi a un Paese che guida una coalizione responsabile di crimini di guerra e che ha contribuito alla catastrofe umanitaria dello Yemen», così ha dichiarato Heba Morayef, direttrice regionale per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di AI, in un comunicato stampa.