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Ho finalmente capito perché Chesterton accosta le fiabe ai riti della religione

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Chiara Bertoglio - pubblicato il 22/02/19
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Non è la fede ad essere “della stessa pasta” delle favole, ma sono le favole a dar voce ad un istinto che è la sete di assoluto e di bellezza che vive nel cuore dell’uomo. Qualche giorno fa è stato il compleanno di mio padre. E siccome venivamo tutti da un periodo piuttosto faticoso e stressante, per vari motivi, ho pensato di invitare i miei genitori a concederci una mini vacanza, di ventiquattr’ore, a Venezia. Un po’ perché, come si dice, “Venezia è sempre Venezia”; un po’ perché mio papà è legato profondamente a questa città da cui proviene parte della sua famiglia ed in cui ha trascorso numerose vacanze da ragazzo; un po’ perché mia mamma viene da una terra che è stata profondamente influenzata ed arricchita dalla presenza veneziana, dalla lingua all’architettura alle tradizioni culinarie. E un po’ perché io stessa sono una cafoscarina, ed alcuni dei miei ricordi più belli sono proprio legati alla città che sorge sull’acqua.

Così si decide, si prenota e si combina la gitarella. Ma siamo a carnevale: così, per aggiungere un po’ di allegria a questa vacanzina familiare, propongo ai miei genitori di andare in maschera. Non mi aspettavo che mio padre sarebbe stato d’accordo: lui è uno di quei gentleman d’altri tempi che quando si mette un completo blu anziché uno nero sembra già che stia facendo follie. Invece, inaspettatamente, papà è stato subito al gioco, curando il suo costume in un modo che non avrei mai immaginato. Addirittura si è confezionato da solo delle spettacolari fibbie per le scarpe, si è procurato un bastone molto chic e tutto un travestimento da nobile settecentesco. Anch’io e la mamma abbiamo trovato in casa il necessario, e così siamo partiti: sembravamo un po’ la proverbiale famiglia Brambilla, con bagagli adatti ad una spedizione al Polo Nord da incastrare negli spazi del treno e sul vaporetto, ma l’allegria non mancava.

Arrivati in albergo, abbiamo indossato i costumi e ci siamo preparati ad arrivare in piazza San Marco con l’intenzione di farci qualche fotografia. Quello che ci è accaduto, non ce lo saremmo mai immaginati. Per tre ore, siamo stati immortalati da centinaia (letteralmente) di turisti e fotografi, provenienti da tutto il mondo: americani del nord e del sud, africani, asiatici, tanti francesi, di tutte le età e di tutti i tipi. Ma, soprattutto, quello che ci ha commossi è stata la chiarissima percezione che, con i nostri semplici travestimenti e nel contesto apparentemente frivolo del carnevale, abbiamo in realtà contribuito, involontariamente ma con gran gioia, a rendere felici tantissime persone.



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Era stupendo vedere illuminarsi lo sguardo di bambini, giovani, adulti ed anziani con volti e tratti che ne tradivano la provenienza da tutti i punti del globo. “Amazing”, diceva qualcuno; “Wow” qualcun altro; “qué lindo!” usciva dalle labbra di un terzo, “c’est merveilleux” aggiungeva un quarto. Ci hanno chiesto fotografie una giovane mamma che ha posizionato la culla del suo neonato in mezzo a noi, una signora che portava in giro la propria anziana mamma disabile, persone semplici, persone che sembravano ferite dalla vita, persone normalissime e persone originali. Così per tre ore.

Davanti all’apparizione di tre maschere, che avevano qualcosa di incantato e di fiabesco, si vedeva la reazione sempre uguale delle persone, pur nella loro diversità di età e di provenienza: un rallegrarsi e meravigliarsi in cui il sorriso e lo sguardo di ciascuno diventavano innocenti e felici come quelli dei bambini. Non solo: il fatto che i nostri volti fossero in parte coperti dalle maschere contribuiva a rendere spontanee e senza filtri le reazioni delle persone, per cui (sembra triste, a dirlo!) tanta gente si sentiva a suo agio nel sorridere e salutare dei perfetti sconosciuti come noi proprio perché non sembravamo “persone normali”. La maschera faceva sì che le persone si lasciassero andare al loro istinto di socievolezza e di semplicità senza i freni che la diffidenza e le regole sociali impongono. Come i bambini che sorridono spontaneamente agli sconosciuti, così i passanti ci sorridevano altrettanto semplicemente.

Senza volerlo, ma volentieri, abbiamo donato un momento di felicità infantile a tante persone.
E questo mi ha fatta pensare tanto. Perché il contatto con qualcosa di bello, di magico, di inaspettato faceva crollare le reazioni studiate, le difese, le sovrastrutture culturali che il tempo e la società ci costruiscono intorno; davanti a questo piccolo spettacolo, tutti ritrovavano la capacità di meravigliarsi e di gioire di una piccola cosa, quella gioia che avevamo tutti da bambini e che quasi tutti abbiamo dimenticato.



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Ma questo bambino c’è, dentro di noi, con la sua freschezza, la sua voglia di “giocare” (di qualcosa di bello, lieve e gioioso fatto senza altro scopo che la gioia e la bellezza); ed è la parte migliore di noi, quella che non si è fatta corrompere dal calcolo, dal potere, dal prestigio, dall’egoismo, dal do ut des.
Quando per la prima volta lessi Ortodossia di Chesterton, ricordo che rimasi assai perplessa dal suo accostare le fairy-tales ai riti della religione. Mi sembrava molto pericoloso, come paragone, perché sembra dar ragione a chi, ateo od agnostico, deride come credenze favolistiche la fede dei cristiani. In questi giorni, invece, mi è tornato in mente quello che scrive Chesterton, e ho capito il senso profondo delle sue affermazioni. Favole, fiabe, fairy-tales, “magia” nel senso buono, sono tutti dei modi in cui lo spirito umano riesce a dar forma ad una nostalgia di incantamento che abita dentro tutti noi. Non è la fede ad essere “della stessa pasta” delle favole, ma sono le favole a dar voce ad un istinto che è la sete di assoluto e di bellezza che vive nel cuore dell’uomo, e che è il primo, primordiale modo in cui l’Assoluto cerca di entrare in relazione con noi. Il nostro mondo pieno di sofferenza e di male non riesce più a “conversare con Dio nella brezza della sera”, come, nelle parole poetiche della Bibbia, accadeva all’umanità innocente (e come ancora oggi sembra di vedere in certi momenti di beatitudine pura dei bambini piccoli). Il modo in cui l’Infinito bussa alla nostra porta è proprio creando in noi una tendenza istintiva verso l’incantamento, una gioia immediata che proviamo quando troviamo qualcosa che appaga la nostra natura – natura assetata di infinito, che solo l’infinito può appagare. Come le piante rifioriscono quando ricevono acqua e luce, così anche le antenne del nostro spirito sono pronte a captare ed a dirigersi verso qualcosa che ricorda loro la profonda vocazione dell’animo umano: vocazione alla bellezza, alla pienezza, alla felicità.

L’illuminarsi dello sguardo delle persone che sorridevano spontaneamente davanti a tre maschere di carnevale era proprio questo: la reazione istintiva che porta l’ape al fiore, e il fiore alla luce.
E forse anche la Chiesa dovrebbe ricordarselo: va bene l’ascesi, ma se si è pregustato, almeno per un po’, l’incanto del Tabor. Va bene essere attenti, sempre di più, ai poveri ed ai sofferenti in cui abita il Crocifisso, ma senza trascurare quel seme di bellezza e di splendore che dà senso anche al servizio (altrimenti, se ci occupiamo solo del corpo dei nostri fratelli trascurando ciò che dà cibo allo spirito, implicitamente neghiamo la loro dignità umana trasformandoli in “animali” che hanno bisogno solo di cure materiali). Ritrovare una liturgia che sappia incantare, affascinare, far intuire una bellezza che non è di questo mondo ma a cui questo mondo è chiamato; ritrovare un garbo nelle relazioni, nei gesti, nelle parole, che dica che l’uomo e la donna sono chiamati ad una bellezza interiore luminosa; ritrovare la capacità di stupirci e meravigliarci di fronte a ciò che ci trascende: questi, secondo me, sono compiti da perseguire ogni giorno, a tutti i livelli, con umiltà e semplicità ma anche con lo sguardo gioioso di chi sa rimanere silenzioso e felice di fronte al firmamento.

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