di Roberto Righetto
Gli italiani conoscono poco la Bibbia: l’hanno nelle nostre case ma non la frequentano. Se poi guardiamo al rapporto fra Bibbia e letteratura, l’Italia è uno dei Paesi in cui gli scrittori contemporanei meno hanno subito il fascino delle Sacre Scritture. Sono stati necessari alcuni grandi critici letterari provenienti dal mondo anglosassone e non dichiaratamente credenti, come George Steiner e Harold Bloom, a ricordarci l’enorme influsso che la Bibbia ha avuto sull’espressione narrativa, dall’America alla Russia.
Ed è stato lo studioso canadese Northrop Frye, in un’opera che ha segnato uno spartiacque sulla questione, a sottolineare come la Bibbia sia stata il Grande Codice della cultura occidentale, un concetto che a poco a poco è penetrato nel mondo della cultura, superando antiche divisioni. Ora la sua opera fondamentale, intitolata appunto Il grande codice. Bibbia e letteratura, viene riproposta dall’editrice Vita e Pensiero in una nuova eccellente traduzione, realizzata da Giovanni Rizzoni (2018, pagine 328, euro 25) dopo quella non molto felice uscita da Einaudi nel 1986. Come spiega lo stesso Frye (1912–1991) a lungo docente all’università di Toronto dov’è divenuto amico del massmediologo MacLuhan, il suo saggio non è un’opera di critica biblica e nemmeno di teologia; e non si può strettamente definire uno studio specifico sui reciproci influssi fra la Bibbia e la letteratura e neppure sulla Bibbia come opera letteraria.
Si tratta piuttosto di «una presentazione della struttura unificata di narrazione e di imagery della Bibbia». O, per dirla con la parole del prefatore Piero Boitani, una considerazione della Bibbia come grande codice dell’arte, cioè come opera-mondo, antica e comune all’Occidente intero, che contiene tutte le forme e i modi della letteratura. Sia quel che sia, l’opera di Frye, che fu anche ministro della United Church of Canada, è riuscita a spezzare la separazione tradizionale fra studi religiosi e studi critico-letterari, separazione per la quale gli studiosi cristiani erano perlopiù restii ad affrontare la questione del valore letterario e poetico della Bibbia, preferendo puntare sul linguaggio descrittivo e concettuale, così come in genere i letterati erano pervasi da pregiudizi antireligiosi e si guardavano bene dal dimostrare un interesse specifico verso la Bibbia.
Per la verità, in Europa qualcosa stava mutando dopo gli anni Sessanta. Così si poteva leggere in un editoriale della rivista «Concilium» nel 1976, in un numero completamente dedicato al confronto fra teologia e letteratura: «Bisogna leggere la letteratura, mettersi in sintonia, cambiare registro. Bisogna arrivare a chiedersi quale è il contributo che unicamente la letteratura può esprimere, cercare ciò che nessuna teologia concettuale saprebbe formulare e che invece la letteratura esprime, a modo suo, con potenza».
Autori ne erano il teologo cattolico, nonché critico letterario, francese Jean-Pierre Jossua e il teologo protestante tedesco Johann Baptist Metz. La teologia postconciliare ha potuto così trovare nella letteratura un linguaggio rivitalizzatore. Basti citare i nomi di Moeller e di Gesché, ma anche di von Balthasar, Guardini, De Lubac, in uno sforzo che per un certo periodo è sembrato monodirezionale: erano i teologi e i biblisti che guardavano alla letteratura e non viceversa. Poi a poco a poco qualcosa è mutato. Frye si colloca su questo versante, riconoscendo un debito verso quei pensatori contemporanei come Gadamer, Ricoeur e Ong che sono consapevoli della rilevanza della critica biblica per la letteratura profana. Frye era tra l’altro amico di Walter Ong, allievo di MacLuhan, massmediologo egli stesso oltre che critico letterario. Mito e metafora sono due chiavi di lettura, e Frye le fa emergere esplicitamente nel suo studio. Riuscendo a far capire al lettore come ciascuno di noi viva dentro un universo mitologico che fa parte dell’eredità culturale che ci viene trasmessa e come la Bibbia in questo senso sia «un elemento molto rilevante nel nostro immaginario tradizionale, al di là di quanto noi possiamo pensare o credere in essa».
La Bibbia, da lui concepita come unità narrativa e metaforica «ha qualcosa in più», ed è quanto egli vuole svelare in un tentativo vero e proprio di “anatomia”, in un itinerario che va da Dante a Melville, da Shakespeare a Baudelaire, da John Donne a Simone Weil. Il tutto partendo dai suoi studi su Milton e Blake, cui si deve la definizione originaria dell’Antico e Nuovo Testamento come Grande Codice dell’arte. Il suo volume vuole essere dunque una sorta di manuale, di introduzione alla Bibbia.
Sapendo che, «quando l’oggetto di insegnamento è la letteratura, l’elemento ludico assume caratteristiche particolari». Così, sulla scia di Lévi-Strauss e di Eliot, gli viene facile esaminare la Bibbia come un’opera di bricolage, riunendo frammenti per giungere a uno sguardo unitario. Realizzando così quanto diceva nei suoi sermoni Donne, che «come dietro una lanterna, nel vasto labirinto della Scrittura, considerava la Bibbia una struttura infinitamente più grande della cattedrale in cui stava predicando».