USA: Trump dichiara «emergenza nazionale» e firma legge «anti-shutdown»
Aveva minacciato di farlo e così ha fatto. Il presidente statunitense Donald Trump ha dichiarato venerdì 15 febbraio infatti l’emergenza nazionale al confine con il Messico. La mossa offre al presidente la possibilità di spendere fino a 8 miliardi di dollari per realizzare la barriera anti-migranti, una delle promesse che aveva fatto durante la campagna per la Casa Bianca. «Affronteremo la crisi della sicurezza nazionale al nostro confine meridionale», così ha detto Trump, che ha anche ripetuto che i muri funzionano, anzi «al 100%».
In una dichiarazione, il leader della maggioranza al Senato, il repubblicano Mitch McConnell, ha detto che l’iniziativa del presidente è la «conseguenza prevedibile e comprensibile» dell’ostruzionismo dei democratici. Molto dura invece è la reazione del governatore della California, il democratico Gavin Newsom. «Questa “emergenza” è una vergogna nazionale e la colpa è esclusivamente del Presidente», ha detto Newsom, il quale ha aggiunto: «Il nostro messaggio alla Casa Bianca è semplice e chiaro: la California ti vedrà in tribunale».
Anche la presidente della Camera dei Rappresentanti, la democratica Nancy Pelosi, e il leader della minoranza al Senato, il democratico Chuck Schumer, hanno già annunciato di fare battaglia «nel Congresso, nei tribunali e nell’opinione pubblica, utilizzando tutti i mezzi disponibili». «Il Presidente non è al di sopra della legge. Il Congresso non può permettere che il Presidente faccia a pezzi la Costituzione», si legge in una dichiarazione congiunta.
Nel pomeriggio di venerdì 15 febbraio, il presidente ha firmato comunque il compromesso «bipartisan» sulla sicurezza frontaliera raggiunto lunedì 11 febbraio, evitando in questo modo un nuovo e doloroso «shutdown», cioè blocco parziale delle attività federali. Lo ha annunciato l’addetta stampa della Casa Bianca, Sarah Huckabee Sanders, così riporta il sito The Hill.
Spagna: il primo ministro Sánchez annuncia nuove elezioni
Il primo ministro spagnolo, il socialista Pedro Sánchez, ha gettato la spugna e convocato elezioni anticipate, che si terranno la prima domenica dopo Pasqua, cioè il 28 aprile. Questo significa, come osserva El Mundo, che il Paese sarà in piena campagna elettorale durante la Settimana Santa.
A spingere il segretario del PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo), alla guida di un governo di minoranza dal 2 giugno 2018, ad andare a elezioni anticipate è stato il mancato appoggio da parte di due partiti separatisti catalani, PDeCAT (Partito Democratico Europeo Catalano) ed ERC (Sinistra Repubblicana di Catalogna), alla legge finanziaria 2019. Come condizione per il loro sostegno alla manovra, le due formazioni pro-indipendenza avevano infatti chiesto a Sánchez di riconoscere il diritto della Catalogna all’autodeterminazione.
Mentre si tratta delle terze elezioni in appena quattro anni – la Spagna è andata alle urne il 20 dicembre del 2015 e il 26 giugno del 2016 – la fine del governo Sánchez rispecchia secondo il quotidiano online il Post la crescente instabilità del Paese, frutto della frammentazione del paesaggio politico spagnolo. Dominato fino ad alcuni anni fa da due formazioni, il Partito Popolare (PP, centrodestra) e il PSOE (centrosinistra), l’avvento di nuovi partiti, come Ciudadanos (2005) e Podemos (2014), ha scardinato il «sistema quasi bipartitico».
Kashmir: 49 paramilitari indiani uccisi in un attentato
In un attentato suicida con un’autobomba contro un convoglio della Central Reserve Police Force, la cui dinamica ricorda quella usata mercoledì 13 febbraio in un attacco contro un autobus con a bordo soldati della Guardia della Rivoluzione nella provincia iraniana del Sistan e Belucistan, sono stati uccisi giovedì 14 febbraio nello Stato di Jammu e Kashmir (secondo l’ultimo bilancio) 49 paramilitari indiani, così riporta il sito The Kashmir Walla. Si tratta del più grave attentato contro le forze di sicurezza indiane nella parte del Kashmir amministrata da Nuova Delhi ma rivendicata dal Pakistan. Lo Stato di Jammu e Kashmir è il più settentrionale dell’India e anche l’unico a maggioranza musulmana.
L’attentato è stato rivendicato dal gruppo Jaish-e-Mohammad (JeM, significa «Esercito di Maometto»), un gruppo jihadista fondato dall’ex leader di Harkat-ul-Mujahideen, Maulana Masood Azhar, il quale opera dal Pakistan e ha condotto il suo primo attentato suicida in Kashmir nel 2000, così ricorda la Deutsche Welle. L’obiettivo del gruppo è di liberare il Kashmir dall’amministrazione indiana e di passare la regione sotto controllo pakistano.
Mentre il Pakistan ha negato ogni coinvolgimento nell’attentato, il ministro indiano senza portafoglio Arun Jaitley ha annunciato che Nuova Delhi farà «tutti i possibili passi diplomatici» per isolare Islamabad a livello internazionale. Già in varie occasioni l’India ha cercato di inserire il leader di JeM nella lista internazionale dei terroristi, ma questi tentativi sono stati bloccati nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dalla Cina, che ad ogni costo vuole evitare che il Pakistan venga identificato come uno Stato sponsor del terrorismo. Il Pakistan occupa un ruolo chiave nell’ambizioso progetto della cosiddetta «Nuova via della seta».
Nigeria: spostate le elezioni presidenziali
Solo cinque ore prima dell’apertura dei seggi, la Commissione Elettorale della Nigeria ha annunciato di spostare per motivi logistici a sabato 23 febbraio le elezioni presidenziali, che dovevano svolgersi sabato 16 febbraio nel più popoloso Paese africano. Un numero record di 84.004.084 persone si è registrato per esprimere il proprio voto. Si tratta, come spiega la Deutsche Welle, di un aumento del 18% rispetto alle presidenziali precedenti del 2015.
Mentre i candidati alla presidenza sono ben 73, secondo l’emittente tedesca tutto indica una «gara serrata» tra l’attuale presidente Muhammadu Buhari, 76 anni, del partito Congresso di Tutti i Progressisti (APC in sigla inglese), e il candidato del Partito Democratico Popolare (PDP), Atiku Abubakar, 72 anni. Rispetto al 2015, quando è diventato il primo leader dell’opposizione ad essere eletto alla più alta carica dello Stato, questa volta la vittoria di Buhari sembra meno certa. Molte promesse fatte dal politico 76enne sono infatti rimaste nel cassetto, osserva la Deutsche Welle.
Le sfide che attendono il vincitore sono senz’altro numerose e anche ardue. Colpisce ad esempio la disuguaglianza. Come spiega la BBC, nello Stato settentrionale di Katsina, il reddito medio annuo pro capite è inferiore a 400 dollari, cioè poco più di un dollaro al giorno. Invece nello Stato federato di Lagos, che porta il nome della più grande città del Paese e di tutta l’Africa, e che ospita il più grande porto del continente africano, il reddito raggiunge quasi 8.000 dollari. Un altro grosso problema è la disoccupazione, che in alcuni Stati supera il 30% e persino il 40%, e poi la violenza (basti pensare agli estremisti di Boko Haram). La sfida più grande è forse quella demografica. Secondo le stime dell’ONU, nel 2047 la popolazione della Nigeria supererà con 387 milioni di abitanti infatti quella degli USA, ricorda sempre la BBC.
Africa: 257 mln di persone soffrono la fame
Dopo molti anni di declino, aumenta nuovamente la fame in Africa. Lo rivela un nuovo rapporto delle Nazioni Unite diffuso mercoledì 13 febbraio sotto il titolo «Africa Regional Overview of Food Security and Nutrition». Dal testo emerge che il continente rischia di non raggiungere gli Obiettivi di Malabo 2025 e neppure l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, si legge in un comunicato stampa della FAO, cioè l’Organizzazione ONU per l’Alimentazione e l’Agricoltura.
Secondo il nuovo rapporto, la denutrizione cronica colpisce 257 milioni di africani, di cui 237 milioni nell’Africa sub-sahariana e altri 20 milioni nell’Africa settentrionale. Questo implica che rispetto al 2015 il numero di persone che soffrono la fame nel continente è aumentato di 34,5 milioni, dei quali 32,6 milioni nell’Africa a sud del Sahara, specialmente in Africa occidentale, e 1,9 milioni nell’Africa del Nord.
«Il peggioramento del trend in Africa è dovuto alla difficile situazione economica globale, al peggioramento delle condizioni ambientali e, in molti paesi, ai conflitti e alla variabilità climatica e agli eventi estremi, a volte insieme», si legge nella prefazione al rapporto. «L’insicurezza alimentare è peggiorata nei Paesi colpiti da conflitti, spesso esacerbati dalla siccità o dalle inondazioni. In Africa meridionale e orientale, sono molti i Paesi che hanno sofferto lunghi periodi di siccità», ricorda il testo.