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Sanremo: sono solo canzonette, ok. Ma hai sentito di cosa parlano?

SANREMO, RAFFAELE, BAGLIONI
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Annalisa Teggi - pubblicato il 07/02/19
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Arisa sta benone (ma forse no), Renga aspetta a casa, Silvestri grida un’adolescenza disperata … e per fortuna Cristicchi tiene insieme questo puzzle umano col miracolo della cura.Infrangendo il bon ton della sedicente intellettuale, non comincerò giustificandomi perché anche quest’anno sto guardando Sanremo. Ieri mattina ero in una quarta liceo a parlare di traduzione e letteratura e ho consigliato agli studenti di stare il più possibile in mezzo alla gente ad ascoltare, in qualsiasi contesto. Questo è l’allenamento migliore per imparare a tradurre, dicevo loro: ancora più importante di impararsi dizionari di parole straniere a memoria. E tradurre è qualcosa di quotidiano come capire chi mi sta di fronte, chiunque.


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In inglese “comprendere” si dice “understand”, che letteralmente vuol dire: stare sotto. Gesto rivoluzionario. Per capire devo mettermi in basso, devo mandare in cantina l’ego e la cavalleria dei pregiudizi. Ascoltare, ascoltare tanto … in una quotidianità in cui vogliamo sempre avere l’ultima parola e ci accavalliamo per sovrastare la voce altrui.

Ascoltare tanto, ascoltare tutto; per poter poi giudicare tutto. Ci inorgoglisce poter dire di aver ascoltato una conferenza sulle forme di energia rinnovabile; ma io ho imparato tantissimo anche dalle conversazioni origliate al mercato tra pensionati e badanti straniere. È dura capire la gente e farsi capire.


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10 milioni di nostri connazionali hanno ascoltato e visto le prime due serate del Festival di Sanremo e tra loro anche io, anche se non da fedelissima. Mi sono andata a coricare assai presto. Non ho seguito tutto, ho anche chiacchierato con mio marito, ma con un orecchio (peraltro neanche troppo portato per la musica) ho ascoltato le canzonette. Neppure tutte. L’anno scorso, ad esempio, mi persi il brano de Le Vibrazioni e fu quello che poi apprezzai di più.

Storie uniche, ritornelli facili

Molti sono motivetti che ci ritroveremo a fischiettare in macchina da qui a qualche settimana, accendendo la radio ci faranno compagnia mentre rassettiamo casa o siamo in palestra o al supermercato. La canzone pop è pensata per essere popolare, quindi necessariamente deve toccare – superficialmente o profondamente – corde che ci riguardano tutti. Dietro ogni ritornello ci deve essere un’idea basica che riguarda l’esperienza universale dell’uomo medio; ci deve essere un amo che cattura l’ascoltatore.


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Ed è proprio questo che mi colpisce sempre. Al netto di canzoni brutte, al netto dei fenomeni mediatici, i cantanti nazional popolari sono la cartina al tornasole della nostra piazza umana. Può essere urticante ammetterlo, io ci sto in mezzo. Che ritratto ne viene fuori? Sappiamo cosa ci esalta e cosa ci ferisce, ma lo tiriamo fuori o con mero sentimentalismo o senza raccapezzarci.

Prendiamo i Negrita, che buttano lì il verso:

Ché la vita è una poesia di storie uniche.

Potente. Funziona, acchiappa. Chissà quanto se la giocheranno i nostri ragazzi sui diari, in chat o nelle note vocali. E non sembra avere altra funzione: è una meteora bellissima, messa sul piatto per stupire, quasi senza prenderla sul serio. La canzone spara immagini veloci, un’autostrada di parole senza aree di sosta per meditare sul serio.


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È agrodolce, o tragicomico, constatare che sussultiamo per qualcosa che ci stupisce, ma senza capirne davvero il motivo. Ebbene, la vita è davvero una poesia di storie uniche: Chi l’ha pensata ha fatto della nostra unicità un’armonia con le unicità altrui;ma sono certa che i Negrita sarebbero i primi a storcere il naso se proponessi loro questo affondo sul loro testo …  Eppure l’unico senso possibile è proprio che non siamo parole al vento, ma parte di un poema composto da Dio. Nelle poesie ci sono le rime a testimoniare questo legame insolito, ma presente, tra le parole.

Anche nelle canzoni ci stanno bene le rime, in pochi le sanno usare per il valore potente che hanno. Ieri per strada un gruppo di ragazze canticchiava già la canzone di Shade e Federica Carta:

Ci finisco sempre senza farlo apposta
Aspetto ancora una risposta

Tecnicamente è una rima, ma non lo è. Si tratta di una bella assonanza che aiuta tenere in testa in ritornello. Tutto qui e c’è chi non chiede di più.

Fragili, volare, piccole cose

Più interessanti sono, forse, le rime a distanza e involontarie. Il mio orecchio non ha potuto fare a meno di notare che ci sono delle parole ricorrenti nei testi presentati quest’anno sul palco dell’Ariston e non mi riferisco all’onnipresente “amore”. Ad esempio, la fragilità ritorna sulla bocca di molti cantanti; forse il verso che mi ha colpito di più è quello di Paola Turci,

Che siamo fiamme in mezzo al vento
Fragili ma sempre in verticale

Ne conosco di persone così, spezzate dalle circostanze eppure in piedi. E anche qui oserei un azzardo su quest’immagine, pure senza autorizzazione della cantautrice. Quando guardiamo la Croce come nostra carta di identità umana che altro vediamo se non una fragilità orizzontale che è stata abbracciata da una salvezza verticale? Il cristianesimo, sempre a dire il vero, non appare come un’etichetta in più sulla realtà, ma la risposta a qualcosa che è connaturato al DNA umano. Nulla è più nazional popolare della risposta incarnata che ogni uomo attende.


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Le altre parole ricorrenti che ho incontrato nell’ascolto sono il verbo volare (… beh è un verbo sanremese, effettivamente) e l’insistenza sulle piccole cose. Che sono variabili della fragilità in verticale, della nostra attesa di dare un senso alto e alato al quotidiano, che si rivela meno brutto e noioso del previsto.

L’affascinante Renga dopo aver esplorato in un lungo e in largo il regno dell’amore, quest’anno è salito sul palco per raccontare quella meraviglia che è aspettare a casa il ritorno di chi ami. Una piccola cosa che può diventare lo straordinario di ogni giorno:

C’è un universo che mi riempie le mani
Il mondo si perde
Tu invece rimani
C’è un mare dentro negli esseri umani
Aspetto che torni stasera
Per stare con te

Appartene a qualcosa, a qualcuno, a una storia. Essere qui, potersi aggrappare a un rifugio dentro il putiferio universale degli eventi. Sono molto noiosa se ricordo che qualcuno parlò della casa costruita sulla roccia? Rimanere è un bel verbo, di questi tempi.

Arisa vs Cristicchi

Non so chi vincerà il festival, non credo neppure sia importante. In molti hanno speso elogi per Simone Cristicchi e la melodia della canzone di Arisa ha tutte le premesse per diventare un tormentone. Sono due canzoni opposte, che raccontano un’alternativa con cui fare i conti quasi ogni giorno.


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E’ paradossale che un testo triste come quello di Arisa si intitoli Mi sento bene; non è affatto assurdo che un testo intenso come quello di Cristicchi sia una spinta nel regno della gioia.

A dispetto della melodia, la canzone di Arisa è triste (lo ripeto): puoi stare bene solo se non pensi alle cose che contano e ti feriscono. Per tutto il tempo lei non vuole pensarci, eppure finisce a parlare di quello che vorrebbe scacciare. E’ una botta forte dire:

Cosa ne sarà
Dei pomeriggi al fiume da bambina
Degli occhi di mia madre
Quando questo tempo finirà?
Se non ci penso più mi sento bene

Davvero l’unica possibilità di stare di fronte alla morte e alla fragilità è un’allegria di naufragi – direbbe Ungaretti? Andare alla deriva spensieratamente? Canticchiare per dimenticare. E lo canticchieremo questo brano, eccome. Ma non ci sarà nulla da ridere.

Più schietto, diretto e nient’affatto zuccheroso sul male di vivere è Daniele Silvestri, sul palco urla il dramma di un adolescente che si conclude così:

Ho sedici anni e vivo in un carcere
Se c’è un reato commesso là
Fuori
È stato quello di nascere

Il punto più basso della nostra fragilità è mettere in discussione la nostra stessa presenza.



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E rispetto a questo grido, che in fondo è onesto e sfacciato, la voce di Simone Cristicchi è l’approdo naturale di quest’incursione imperfetta nel mondo delle canzonette sanremesi:

La vita è l’unico miracolo a cui non puoi non credere

Non è come il verso esaltante e passeggero dei Negrita, c’è dietro una storia; è il vertice di una montagna scalata passo per passo. Le rime qui non sono solo un suono simpatico, fanno senso cioè lo costruiscono: la “vita intera” si lega a una “miniera”, segno di un viaggio umano che è sprofondato nel buio e ne è venuto fuori – come Dante.

È stata definita una preghiera questa canzone, e lo è. Da ascoltare per intero senza vivisezionarla troppo come potrei fare io. Abbi cura di me è l’altra metà della medaglia dell’allegrezza di Arisa, del dolore di Silvestri: è un uomo che si riconosce fragile eppure immerso nella meraviglia dell’esserci e, anziché distrarsi e anziché lamentarsi e basta, fa una cosa saggia e rivoluzionaria: chiede aiuto, chiede di non essere l’unica voce narrante della propria salvezza.

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