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Per pregare bisogna prima aver incontrato Dio?

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Silvia Lucchetti - pubblicato il 31/01/19
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O per incontrare il Signore bisogna cominciare a rivolgersi a Lui? Padre Maurizio Botta ci aiuta a trovare una risposta individuando una terza viaTante volte capita, anche a chi ha una grande fede, forse soprattutto nei momenti di noia, difficoltà, rabbia, sofferenza, di provare un senso di aridità nei confronti della preghiera e del Signore stesso: “Perché devo pregare se in questo momento non sento Dio vicino?”. D’altra parte, chi sente di non avere una fede profonda e magari vive una situazione di necessità, potrebbe chiedersi: “Perché dovrei pregare?”. Per questo, quando mi sono imbattuta nel terzo capito del libro di padre Maurizio Botta Sceglierà lui da grande. La fede nuoce gravemente alla salute? (Edizioni Studio Domenicano) dedicato alla preghiera, ho pensato potesse essere utile condividerlo con voi. Il testo raccoglie alcune catechesi tenute dal sacerdote all’interno del ciclo di incontri “Cinque passi al mistero” di cui vi avevamo già parlato qui.

Perché ad un ateo dovrebbe interessare la preghiera?

La catechesi sulla preghiera si apre con una riflessione di tipo filosofico (non spaventatevi la f è minuscola!) in cui l’autore, mettendosi nei panni di un ateo, si chiede perché quest’ultimo dovrebbe essere interessato ad un incontro sul tema della preghiera. Riprendendo un passaggio di Davide Gandini in un libro sul pellegrinaggio a Santiago di Compostela, l’autore cita la seguente frase:

Un’inclinazione comune a tutto il genere umano, comprensibilissima, forse inevitabile, è quella di pensare che la ricerca venga prima della preghiera, e la preghiera sia possibile solo se l’esito della ricerca sia stato positivo.

Detto in parole povere: prima cerco Dio, e solo se lo trovo posso poi pregarlo. È quindi ovvio che l’ateo concluda che l’incontro sulla preghiera a cui è stato invitato non lo riguarda.



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Cos’hanno in comune l’ateo e il mistico?

A questo punto padre Botta si chiede se hanno qualcosa in comune l’ateo e il mistico, sono opposti che però si incontrano da qualche parte o in qualche modo? La sua riposta è affermativa, individuando in entrambi due caratteristiche intrinseche (il filosofo direbbe ontologiche) alla stessa essenza umana, che li accomuna: il desiderio e la domanda. L’uomo è desiderio, desiderio innanzitutto di essere accolto, riconosciuto, di ricevere uno sguardo di conferma di essere degno, di valere, di essere importante per qualcuno. L’uomo è allo stesso tempo domanda, domanda ambulante (in movimento), meglio ancora che “canna pensante” secondo la definizione di Pascal: ogni suo gesto esprime l’interrogativo supremo, la spasmodica ricerca di dare un senso alla vita. La conferma di questa doppia radice alla base della nostra condizione umana, padre Maurizio la trova nelle parole di un autore svedese, Par Fabian Lagerkvist, che nel 1951 vinse il premio Nobel per la letteratura con il romanzo BarAbbà.

Uno sconosciuto è mio amico, uno che io non conosco. Uno sconosciuto lontano lontano, per lui il mio cuore è pieno di nostalgia perché egli non è presso di me, perché egli forse non esiste affatto? Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? Che colmi tutta la terra della tua assenza?

In queste parole di un ateo, che suonano come lo struggente desiderio di un incontro, ritroviamo il desiderio e la domanda. Desiderio e domanda che rinveniamo anche in questa frase di un credente come Sant’Agostino:

Dammi, o Signore, di conoscere e capire se si debba prima invocarti o celebrarti, prima conoscerti o poi invocarti, ma chi potrebbe invocarti senza prima conoscerti?

Per pregare bisogna avere prima incontrato Dio, o solo pregandoLo si arriva a conoscerLo?

Di fronte a questa domanda che sembra avere una risposta scontata il grande santo intuisce la seconda prospettiva sul tema della preghiera, ribaltando il conoscere per invocare nell’invocare per arrivare a conoscere questo Dio misterioso:

Ma è possibile che sia così, o forse per conoscerti bisogna prima invocarti?

Incamminandosi su questa strada nasce ovviamente l’interrogativo: ma invocare chi? Oggi si corre il rischio di individuare il chi in un confuso sincretismo religioso che falsifica e distorce il messaggio di Gesù, richiamandosi al Vangelo ma piegandolo a proprio uso e consumo. Padre Botta si appella non alla fede, ma alla umana ragione per smascherare questa consapevole o inconsapevole manipolazione del messaggio cristiano.



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Incontrare uno che prega e desiderare di pregare così

E subito dopo si chiede se esiste una terza possibilità per affrontare il tema della preghiera. Mentre la prima parte dal bisogna prima conoscere per pregare, e la seconda capovolge l’ordine dei fattori affermando che è necessario iniziare a invocare per conoscere Dio, la terza che emerge dal Vangelo stesso si fonda più immediatamente sull’incontro con qualcuno che prega, sul vedere uno che prega e desiderare di pregare allo stesso modo.

Prima dell’invocazione c’è lo sguardo. Prego perché vedo qualcuno pregare, l’esperienza di vedere la bellezza, la verità, la bontà nel gesto di un uomo che prega.

“Signore insegnaci a pregare”

È ciò che avviene ai discepoli di Gesù nel vederlo pregare tanto da spingerli a chiedergli: “Signore, insegnaci a pregare”. E l’insegnamento più grande sulla preghiera Cristo ce lo ha dato con il Padre Nostro, l’invocazione per eccellenza, in cui il cristiano si rivolge ad un Dio persona che chiama Padre, e con la quale in qualità di figlio ringrazia, domanda per sé ed intercede per gli altri. Tra le varie domande anonime dei partecipanti alla catechesi dedicata da padre Botta a questo tema, ne abbiamo scelta una: “Come non aver paura della preghiera?”, che permette al sacerdote una risposta illuminante, rimandando alla lettura del testo per chi volesse ampliare ed approfondire l’argomento.

Io avrei paura di una vita senza preghiera. La ragione ci pone davanti un bivio: o siamo aperti all’infinito; o siamo destinati al nulla. (…) Se siamo aperti all’infinito, allora la mia esistenza tende a qualcosa di non temporale e di non materiale, cioè di eterno e spirituale (…) Oppure l’altra ipotesi: siamo pura materia, siamo qui per caso e con la fine della vita non resta nulla, nessun io personale, non resta niente di niente. Di pregare non si può avere paura. Se è vera la seconda ipotesi stai facendo solo una cosa inutile, e stai perdendo del tempo. Se, invece, è vera la prima ipotesi, nella preghiera esprimi la tensione verso l’infinito e l’eterno. La preghiera cristiana , poi, è rivolta a un Padre, che Gesù, nel momento peggiore della sua vita, chiama Abbà. Quindi come fai ad avere paura? Rileggiamo le parole di Lagherkvist. Sono cose di cui aver paura? Questa preghiera è fatta da un ateo, quindi non cristiano, ma è una meraviglia: «Uno sconosciuto è mio amico, uno che io non conosco. Uno sconosciuto lontano lontano, per lui il mio cuore è pieno di nostalgia perché egli non è presso di me, perché egli forse non esiste affatto? Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? Che colmi tutta la terra della tua assenza?». Come si fa ad avere paura di una cosa così, che oggettivamente è bella?



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