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Brexit: Westminster vuole rinegoziare l’accordo con l’UE
Il parlamento britannico ha detto martedì 29 gennaio «sì» ad un emendamento che chiede al governo della prima ministra Theresa May di modificare il cosiddetto «backstop» sul confine tra Irlanda e Irlanda del Nord, e quindi di ridiscutere con Bruxelles l’accordo sulla Brexit. Con 317 voti a favore e 301 contrari, la Camera dei Comuni ha infatti approvato un emendamento in questo senso avanzato dal deputato conservatore e capogruppo dei Tories nel parlamento di Westminster, Graham Brady, e appoggiato dal governo. «Questo emendamento mi darà il mandato di cui ho bisogno per negoziare con Bruxelles», così ha dichiarato la May, citata dall’Independent.
Scontata la risposta da parte di Bruxelles, che è la stessa che ripete da settimane e mesi, cioè che non c’è spazio per rinegoziazione. «L’accordo di uscita è e resta il migliore ed unico modo per assicurare un’uscita ordinata del Regno Unito dall’Unione Europea», così ha dichiarato Preben Aamann, portavoce del presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, le cui parole sono state riprese dal sito POLITICO.eu. «Il backstop è parte di quell’accordo, e quell’accordo non è aperto a nuovi negoziati. Le conclusioni del Consiglio europeo di dicembre sono molto chiare su questo punto.» Altrettanto netto è stato il capo negoziatore europeo, Michel Barnier. «Siamo uniti nel rispondere a Londra che l’accordo non si tocca», così ha ribadito.
Venezuela: Maduro esclude nuove presidenziali, ma apre ad elezioni legislative
In un’intervista con l’agenzia russa RIA Novosti, il presidente del Venezuela, Nicolás Maduro, ha escluso l’organizzazione di nuove presidenziali. «Non accettiamo l’ultimatum da parte di nessuno nel mondo, né accettiamo il ricatto. In Venezuela ci sono state elezioni presidenziali, c’è stato un risultato e se l’imperialismo vuole nuove elezioni che attenda il 2025», ha detto Maduro, citato da El País. Nella stessa intervista, Maduro ha suggerito però di anticipare le elezioni politiche. «Sarebbe molto buono se ci fossero elezioni anticipate per il Parlamento venezuelano, sarebbe una buona forma di dibattito politico e una soluzione attraverso il voto popolare».
Da parte sua, la Corte Suprema del Venezuela (TSJ o «Tribunal Supremo de Justicia»), controllata dal regime di Maduro, ha proibito al presidente del Parlamento venezuelano e leader dell’opposizione, Juan Guaidó, di lasciare il Paese e ha anche congelato i suoi conti. «Niente di nuovo sotto il sole, l’unica risposta del regime è la persecuzione», così ha reagito Guaidó, che ha convocato i cittadini venezuelani a partecipare mercoledì 30 gennaio ad una giornata di sostegno all’Assemblea Nazionale. L’amministrazione Trump, la quale appoggia Guaidó, ha annunciato lunedì 28 gennaio delle sanzioni contro la compagnia petrolifera di Stato PDVSA (Petróleos de Venezuela, S.A.) e della sua filiale negli USA, Citgo, congelando ad esempio circa 7 miliardi di dollari di asset.
Bahrein: confermato il carcere a vita per il leader sciita Sheikh Ali Salman
La Corte Suprema del Bahrein ha confermato lunedì 28 gennaio in appello la condanna all’ergastolo emessa nei confronti del leader dell’opposizione sciita, Sheikh Ali Salman, e di due dei suoi collaboratori, Hassan Sultan e Ali al-Aswad. Accusato di spionaggio per il Qatar con lo scopo di «rovesciare l’ordine costituzionale» nel piccolo Stato situato nel Golfo Persico (il Bahrein è un arcipelago formato da 33 isole e isolette), l’esponente del partito al-Wefaq era stato condannato al carcere a vita nel novembre scorso, come ricorda il quotidiano svizzero Le Temps. Il movimento al-Wefaq è stato sciolto dalla giustizia del Bahrein nel 2016.
Secondo l’organizzazione per i diritti umani Amnesty International, la sentenza di lunedì costituisce «l’ennesimo colpo alla libertà d’espressione» nel Paese e «la conferma della dimensione farsesca del sistema giudiziario del Bahrein». Le accuse mosse nei confronti degli oppositori vanno lette sullo sfondo del blocco economico e politico imposto nel giugno 2017 contro il Qatar da parte dell’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e il Bahrein, e delle proteste della maggioranza sciita che nel 2011 hanno scosso il Paese governato dalla minoranza sunnita (solo il 20% della popolazione è infatti sunnita).
ACNUR: ogni giorno in media sei persone hanno perso la vita nel Mediterraneo
Nel corso del 2018, ogni giorno in media sei persone hanno perso la vita nelle acque del Mediterraneo. Lo rivela il rapporto pubblicato mercoledì 30 gennaio dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e intitolato «Desperate Journeys» (tradotto «Viaggi disperati»). Secondo le stime dell’organismo ONU con sede a Ginevra, Svizzera, sono 2.275 le persone decedute o disperse durante la traversata del Mediterraneo.
Anche se in termini assoluti il numero delle vittime è sceso rispetto al 2017, quando i morti o dispersi in mare erano 3.139, questo non significa minimamente che il viaggio sia diventato più sicuro. «Lungo le rotte dalla Libia all’Europa, una persona ogni 14 arrivate in Europa ha perso la vita in mare, un’impennata vertiginosa rispetto ai livelli del 2017», così si legge nel comunicato stampa dell’ACNUR. Le vittime lungo le rotte terrestri sono state invece 136, ossia un aumento significativo rispetto all’anno precedente (75 morti).
Dai dati dell’UNHCR emerge inoltre che da gennaio a dicembre 2018 i rifugiati e migranti sbarcati in Europa, sia via mare che via terra, sono stati 139.300, ossia «il numero più basso degli ultimi cinque anni». La prima porta d’ingresso è diventata la Spagna, dove gli arrivi sono stati 65.400 (sia via mare che via terra, cioè attraverso le enclave di Ceuta e Melilla), ossia un aumento del 131% rispetto al 2017 (28.300). Al secondo posto c’è la Grecia con 50.500 arrivi (un aumento del 45% rispetto al 2017), dei quali 32.500 via mare e 18.000 via terra. Un forte calo, dell’80%, ha fatto registrare invece il numero degli arrivi in Italia: nel 2018 sono stati 23.400, rispetto a 119.400 nel 2017.
Rifiuti elettronici: un «tesoretto» che vale 62,5 miliardi di dollari all’anno
«E’ difficile calcolare quanti apparecchi elettrici vengono prodotti annualmente, ma prendendo in considerazione solo i dispositivi connessi a internet, sono ormai molto più numerosi degli esseri umani. Entro il 2020, si prevede che tale cifra sarà compresa tra i 25 e i 50 miliardi». Così inizia la sintesi di un nuovo rapporto sui rifiuti elettronici, «A New Circular Vision for Electronics Time for a Global Reboot», lanciato il 24 gennaio a Davos, in Svizzera, in occasione dell’ultima edizione del Forum Economico Mondiale (WEF).
Secondo il rapporto elaborato dalla Platform for Accelerating the Circular Economy (PACE) e l’E-Waste Coalition delle Nazioni Unite, il valore annuale dei rifiuti elettronici supera a livello globale i 62,5 miliardi di dollari, una cifra superiore al PIL (o Prodotto Interno Lordo) della maggioranza dei Paesi del nostro pianeta, sottolinea un comunicato stampa. Infatti, sono 123 i Paesi della Terra ad avere un PIL inferiore.
Si calcola che nel corso del 2017 44,7 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici ed elettrici sono stati prodotti su scala globale, vale a dire più di sei chilogrammi per ogni abitante della Terra. Per avere un’idea: sarebbe il peso equivalente a quello di tutti gli aerei commerciali mai costruiti o la massa di 4.500 Torri Eiffel, spiega il rapporto. Di tutta questa massa, circa 36 milioni di tonnellate finiscono in discarica, vengono bruciati o trattati in modo non conforme agli standard. Questo implica, così avverte il rapporto, che meno del 20% viene riciclato o trattato adeguatamente, con tutte le conseguenze per l’ambiente e per le persone.