Filippine: bombe esplodono durante la messa nella cattedrale di Jolo
Nelle Filippine, un doppio attentato contro la cattedrale di Nostra Signora del Monte Carmelo di Jolo, la capitale della provincia di Sulu, sull’isola di Mindanao, ha provocato domenica 27 gennaio almeno 20 vittime e quasi 100 feriti. Mentre una prima bomba è esplosa all’interno dell’edificio durante la messa, un secondo ordigno è scoppiato all’esterno, colpendo in pieno i membri delle forze dell’ordine appena arrivati sul luogo.
L’attentato, che è stato rivendicato dallo Stato Islamico (IS, ma le autorità filippine sospettano anche altri gruppi jihadisti, come quello di Abu Sayyaf), rischia di compromettere il processo di pace nella regione, da decenni teatro di un cruento conflitto tra gruppi islamici e l’esercito. Solo pochi giorni prima si è tenuto un referendum popolare per l’autonomia, che ha sancito la creazione della nuova Regione Autonoma di Bangsamoro nel Mindanao Musulmano, frutto dei negoziati avviati negli anni ‘90 tra i separatisti del MILF (Movimento di Liberazione Islamico Moro) e il governo centrale di Manila. Gli elettori di Sulu invece hanno respinto la ratificazione della «Bangsamoro Organic Law».
Mentre papa Francesco da Panamá ha espresso la sua «più ferma riprovazione per questo episodio di violenza, che reca nuovi lutti in questa comunità cristiana», l’arcivescovo emerito di Cotabato, cardinale Orlando Quevedo, e l’arcivescovo eletto, Angelito Lampon, hanno descritto l’attentato come «la più scellerata profanazione di un luogo sacro», scrive il sito CBCP News della conferenza dei vescovi cattolici delle Filippine. Nel documento pastorale «Conquering Evil with Good», pubblicato lunedì 28 gennaio alla conclusione dell’assemblea della CBCP, l’episcopato del Paese asiatico parla di «un’ulteriore prova del ciclo di odio che sta distruggendo il tessuto morale del nostro Paese».
«Chiedo che gli autori di questi crimini siano portati rapidamente davanti alla giustizia», ha dichiarato il segretario-generale delle Nazioni Unite, António Guterres. Da parte sua, il segretario-generale dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, Youssef bin al-Ottaimeen, ha espresso «profonda indignazione» per l’attentato.
USA: inizio produzione di testate nucleari «a basso rendimento»
Gli Stati Uniti hanno iniziato la produzione di nuove testate nucleari definite «a basso rendimento» per i missili Trident. Lo rivela il quotidiano The Guardian, che fa riferimento ad un’email dell’Amministrazione Nazionale per la Sicurezza Nucleare (NNSA), la quale dipende dal Dipartimento dell’Energia (o DOE). Secondo le informazioni dell’NNSA, la prima testata è uscita dalla linea di montaggio nell’impianto di produzione Pantex, nei pressi di Amarillo, nello Stato del Texas. Mentre la prima consegna dovrebbe avvenire entro settembre prossimo, la nuova arma W76-2 è una versione modificata delle attuali testate Trident. La produzione è prevista nella Nuclear Posture Review (NPR, cioè la revisione della dottrina o strategia nucleare) chiesta da Donald Trump nei primi giorni della sua presidenza e pubblicata il 2 febbraio 2018 dal Dipartimento della Difesa (Pentagono).
Secondo l’amministrazione Trump, l’introduzione di armi termonucleari «low-yield», cioè a basso rendimento, renderebbe una guerra nucleare meno probabile, perché migliorerebbe la la deterrenza, rendendola più flessibile. Per i sostenitori del controllo degli armamenti nucleari invece è proprio il contrario: lo sviluppo di armi come la testata W-76-2 ci porta più vicini ad un conflitto atomico. «La convinzione che ci possa essere un vantaggio tattico nell’uso delle armi nucleari […] mi sembra estremamente angosciante», ha dichiarato l’ex segretario alla Difesa William J. Perry (1994-1997, sotto Bill Clinton), citato dal quotidiano londinese. Del resto, le lancette del «Doomsday Clock», ossia l’Orologio dell’Apocalisse, che indica la possibilità della fine del mondo per un conflitto nucleare, rimangono fissate a due minuti dalla mezzanotte. Lo ha annunciato giovedì 24 gennaio la rivista Bulletin of the Atomic Scientists.
Venezuela: Maduro capeggia manovre militar
In Venezuela, il presidente Nicolás Maduro ha capeggiato domenica 27 gennaio delle manovre militari nella località di Naguanagua, nello stato centro-settentrionale di Carabobo. Alla conclusione, Maduro ha espresso la sua «piena» fiducia «nell’esercito bolivariano» e ha inoltre annunciato l’organizzazione delle esercitazioni militari «più importanti della storia» del Paese sudamericano, che si terranno dal 10 al 15 febbraio prossimi, rivela l’agenzia Europa Press. L’annuncio da parte dell’uomo forte di Caracas non può sorprendere: le forze armate sono infatti il maggiore sostegno del suo sempre più isolato regime, e questo nonostante lo scarso appoggio popolare, il disastro socio-economico e la pressione internazionale, come suggerisce a sua volta La Nación.
Proprio tra i più alti ranghi delle forze armate si è registrata questo fine settimana la prima defezione. In un’intervista telefonica con il quotidiano El Nuevo Herald, con sede a Miami, Florida, l’addetto militare del Venezuela a Washington, José Luis Silva, si è distanziato sabato 26 gennaio da Maduro, dicendo di non riconoscerlo «come presidente del Venezuela». «Il mio messaggio a tutti i militari, a tutti coloro che portano armi, è che per favore non attacchino il popolo», così ha detto Silva, che accusa il governo di aver «tradito i principi più elementari». Anche Israele ha riconosciuto nel frattempo il presidente «ad interim» Juan Guaidó, i cui sostenitori hanno avviato domenica 27 gennaio una campagna per consegnare ai membri delle forze armate una copia della nuova legge sull’amnistia.
In occasione dell’Angelus, papa Francesco ha toccato domenica 27 gennaio a Panamá il tema del Venezuela, dichiarando di aver «pensato molto al popolo venezuelano, mi sento particolarmente vicino a loro».«In questo momento di difficoltà chiedo al Signore che si possa cercare una soluzione giusta e pacifica per superare la crisi rispettando i diritti umani e cercando il benessere di tutti i cittadini del Paese», ha detto il Papa, che è tornato sulla questione durante il volo di ritorno a Roma. «Mettersi d’accordo, non ci si riesce?», così ha chiesto, mentre ha ribadito la necessità di «una soluzione giusta e pacifica». «Mi fa paura lo spargimento di sangue. E per questo chiedo di essere grandi a coloro che possono aiutare a risolvere il problema», ha aggiunto.
Francia: dal «giubbotti gialli» ai «fazzoletti rossi»
Prima c’erano i «giubbotti gialli». Adesso la Francia ha anche i suoi «fazzoletti rossi». Domenica 27 gennaio migliaia di «foulards rouges» hanno infatti sfilato nella capitale Parigi per «difendere la democrazia e le istituzioni», così riporta Le Monde. Con la loro presenza, i partecipanti (circa 10.500 secondo le stime della prefettura di polizia di Parigi), tra cui molte persone «dalle tempie grigie» e simpatizzanti del movimento «La République en marche» (LRM) del presidente Emmanuel Macron, hanno risposto all’appello rivolto «alla maggioranza silenziosa che è stata rintanata in casa da dieci settimane», lanciato dall’iniziatore della marcia, Laurent Soulié, un ingegnere 51enne di Tolosa, nel sud della Francia.
Mentre il presidente Macron ha avviato il 15 gennaio scorso un «grande dibattito nazionale» o consultazione nazionale, che mira a smorzare il movimento di protesta dei «gilets jaunes» e a rispondere alla richiesta di più equità sociale, il messaggio mandato dai «fazzoletti rossi» è «stop alle violenze verbali o fisiche», che hanno spesso caratterizzato la mobilitazione dei «giubbotti gialli».
Circa 69.000 persone hanno partecipato sabato 26 gennaio in varie città della Francia all’11esimo atto dei «gilet gialli». Uno degli esponenti della protesta, Jérôme Rodrigues, è stato ferito gravemente ad un occhio, o da una granata assordante sparata o invece dallo sparo degli ormai famigerati «flash-ball», un elemento che rischia di inasprire ulteriormente il clima.
Cina: condannato l’avvocato per i diritti umani Wang Quanzhang
In Cina, l’avvocato per i diritti umani Wang Quanzhang, 42 anni, è stato condannato ad una pena di 4 anni e mezzo in carcere. L’accusa mossa nei suoi confronti era quella di tentata «sovversione» dei poteri dello Stato, «un’accusa usata frequentemente dal governo contro attivisti e dissidenti», osserva La Vanguardia. Ad annunciare la sentenza è stata la Corte popolare intermedia di Tianjin (Tientsin).
Wang, che lavorava per lo studio legale Fengrui (chiuso dalle autorità) ed era noto per aver difeso vari attivisti politici e membri del gruppo spirituale Falun Gong (messo al bando nel 1999), era stato arrestato il 9 luglio del 2015 durante un’ondata di arresti di più di 200 attivisti e legali, conosciuta anche come «709 crackdown» (o «giro di vite 709» in riferimento alla data). Mentre sua moglie, Li Wenzu, non ha potuto assistere al processo, l’uomo è stato anche privato dei diritti politici per la durata di cinque anni.
Per Doriane Lau, esperta di Amnesty International, lo svolgimento del processo e la sentenza sono «una grossa ingiustizia». «È oltraggioso che Wang Quanzhang sia punito per la difesa pacifica dei diritti umani in Cina. Deve essere immediatamente e incondizionatamente rilasciato», continua il sito Internet dell’organizzazione. «Nei tre anni precedenti al suo processo farsa, le autorità hanno fatto scomparire Wang Quanzhang in un buco nero, dove probabilmente è stato torturato», sostiene la Lau.