In area germanofona si fa già da un po’: ora la diocesi altoatesina di Bolzano-Bressanone sta preparando alcuni uomini e alcune donne a guidare il rito cristiano delle esequie (privo di liturgia eucaristica, naturalmente). Nessuno pretende di minimizzare la portata (e i contraccolpi) della riforma, ma la questione non può ridursi all’accusa di “protestantizzazione”. E a proposito di voci germanofone, ci sono alcuni sempre pronti a riempirsi la bocca con le “profezie di Ratzinger”… salvo poi non riconoscerle mentre si avverano.
Se ne sta parlando da qualche giorno, e in realtà la diocesi di Bolzano-Bressanone opera già da alcuni mesi per formare i laici che prossimamente cominceranno ad accompagnare i fedeli defunti al cimitero officiando per loro le esequie cristiane. Ovviamente senza celebrazione eucaristica, e già questa precisazione ridimensiona iuxta modum il verbo “celebrare”, dando al contempo il senso e la misura della scelta della chiesa altoatesina.
Il fatto
La quale, va ricordato, ricalca una prassi pastorale già da tempo in uso in Germania e in Austria. Diego Andreatta, su Avvenire, c’informa che:
Sono le 17 persone che presso lo Studio Teologico Accademico Teologico di Bressanone stanno frequentando l’apposito corso di formazione in 16 giornate che si completerà nel prossimo autunno. Cinque di loro sono diaconi permanenti (con relativa formazione alle spalle), altri 12 sono laici, in perfetta parità di genere: sei uomini e sei donne.
Il Direttore dell’Ufficio pastorale diocesano, Reinhard Demetz, ha commentato così:
Abbiamo atteso qualche anno e abbiamo voluto progettare con attenzione questa iniziativa formativa, perché si presenta nuova per noi e non doveva essere affrettata e superficiale. L’abbiamo condivisa anche con la Conferenza dei decani della diocesi, dalla quale era venuta la sollecitazione più forte a poter contare sulla collaborazione dei laici per guidare occasioni liturgiche così pastoralmente importanti e partecipate.
Sempre da Andreatta apprendiamo diverse altre cose, come il fatto che Hans Duffek, uno dei suddetti dodici laici in formazione, ha già guidato nello scorso ottobre una di queste liturgie esequiali nel duomo diocesano. Dalle parole di Demetz si capisce che tra le preoccupazioni della curia c’è pure quella, appunto pastorale, di preparare le famiglie «che per prime non avranno un prete al funerale del loro caro»; il che equivale a preparare tutta intera la comunità cristiana, dal momento che i funerali non si prenotano se non con qualche dozzina d’ore d’anticipo.
Le opinioni
Le prime reazioni della blogosfera cattolica strillano ovviamente alla “protestantizzazione della liturgia cattolica”, tanto più facilmente in quanto nella fattispecie risulta evidente l’influsso del mondo ecclesiale germanofono – luterano per definizione, nella mente di certi commentatori. La “protestantizzazione” coinciderebbe tout court con l’appaltare ai laici prerogative sacerdotali – a prescindere dalla verifica dei fatti, cioè se davvero quel che viene affidato ai laici sia una prerogativa sacerdotale – e a poco serve ricordare in certi contesti che la parola “liturgia” significa precisamente “azione popolare”.
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In realtà, un rischio che mi pare non si debba sottovalutare quando si parla di “devoluzione ai laici” è proprio quello della clericalizzazione dei laici: è uguale e contrario all’altro allarme, ma è tale perché si basa sui medesimi qui pro quo, cioè sul mancato riconoscimento del fatto che il laico sta svolgendo funzioni laicali, e non sacerdotali, anche se in altri contesti storici quelle medesime funzioni le hanno svolte (o ancora le svolgono) dei sacerdoti. Tuttavia, per quel poco che so del contesto ecclesiastico germanofono – in cui rientra anche l’esperienza altoatesina italiana – il rischio davvero imminente non è dato dalla clericalizzazione, come neppure dalla protestantizzazione: viene invece dalla rarefazione della presenza cristiana in sé e per sé, come si vede anche dalla seconda parte dell’articolo di Andreatta, dedicata alla cura pastorale delle cremazioni. Stefan Huber, il responsabile diocesano dell’ufficio liturgico, ha difatti dichiarato (a proposito di un seminario diocesano dedicato al tema):
La nostra Chiesa, se richiesto e possibile, deve farsi trovare presente in queste occasioni con la sua presenza e il suo sostegno.
“Se richiesto e se possibile”, dice Huber. Due condizioni che svelano la grande marginalità sociale e culturale di un’organizzazione – proprio la Chiesa Cattolica – che può benissimo non essere “invitata” a prendere parte a un rito esequiale e che potrebbe pure – sebbene invitata – non avere disponibilità di “personale” da inviare a presenziare.
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Debolezza strutturale e irrilevanza culturale. Queste le coordinate che hanno suggerito la revisione delle mansioni pastorali, e la temperatura del contesto è ben data dalla questione della cremazione: più snella nel corto e meno costosa nel lungo periodo, la Chiesa cattolica è giunta ad ammetterla solo a condizione che
- non si mini con la sua pratica la fede nella risurrezione;
- le ceneri non vengano mai disperse, né conservate in casa.
Il diritto canonico
Per comprendere meglio quale sia “lo spazio di manovra” per simili riforme, il punto di partenza imprescindibile è l’espressione dello status quo giuridico contenuta nel Codice di Diritto Canonico. Nella fattispecie, il can. 530 disciplina “le funzioni affidate al parroco in modo speciale”:
Le funzioni affidate al parroco in modo speciale sono le seguenti:
- amministrare il battesimo;
- amministrare il sacramento della confermazione a coloro che sono in pericolo di morte, a norma del can. 883, n. 3;
- amministrare il Viatico e l’unzione degli infermi, fermo restando il disposto del can. 1003, §§ 2 e 3, e impartire la benedizione apostolica;
- assistere al matrimonio e benedire le nozze;
- celebrare i funerali;
- benedire il fonte battesimale nel tempo pasquale, guidare le processioni fuori della chiesa e impartire le benedizioni solenni fuori della chiesa;
- celebrare l’Eucaristia più solenne nelle domeniche e nelle feste di precetto.
Il Commento curato dalla Redazione dei Quaderni di Diritto ecclesiale chiosa il canone con questa nota storica:
Le funzioni di carattere liturgico-sacramentale qui elencate sono affidate in modo speciale al parroco. Nella legislazione precedente, la riserva di alcune funzioni liturgiche era legata al sistema beneficiale, in base al quale le offerte provenienti da tali funzioni spettavano al parroco, anche se era un altro sacerdote a compierle (cf. c. 463). La norma attuale richiama la sua particolare responsabilità verso alcuni atti liturgici e sacramentali, che manifestano l’importanza del suo ufficio e il carattere di piena cura pastorale che esso riveste. Ciò non significa che, con il consenso del parroco, tali atti non possano essere posti anche da altri ministri, in primo luogo dal vicario parrocchiale (==> can. 545). La delega del parroco è richiesta ad validitatem solo per l’assistenza alle nozze (==> can. 1108 §1).
Sorvolando ora sul sistema beneficiale precedente – che almeno nella chiesa altoatesina è completamente superato dall’Istituto di Sostentamento del Clero alimentato dalla devoluzione dell’8‰ dell’Irpef – è importante capire il senso della normativa attuale: la prerogativa esprime infatti «il carattere di piena cura pastorale» che a lui – solo possibile responsabile dell’unità parrocchiale – compete per il diritto stesso. Gli stessi commentatori, tuttavia, già avvertivano che quegli atti possono benissimo essere posti da altri ministri (e non si precisa la qualità dei ministri in ordine al carattere o allo stato di vita, tantomeno riguardo al sesso!).
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Torniamo a scorrere con attenzione l’elenco e scopriremo, quasi a conferma, che “solo” cinque prerogative su sette ineriscono strettamente a dei sacramenti: la quinta e la sesta, invece, no – giacché il rito delle esequie, in sé e per sé, non è un sacramento più di quanto lo sia una benedizione. Il suo rito, invece, è pienamente un rito liturgico, cosa che non si può dire delle processioni per le strade (qualificabili al massimo di “paraliturgia”).
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Insomma, quel che se ne evince è che di tali mansioni la prerogativa spetta al parroco – fatta salva la sua facoltà di delegare ad altri ministri – in forza del suo ministero ausiliare nei confronti del Vescovo, il quale è capo del popolo cristiano nella chiesa particolare di cui si parla. Precisiamo: non in forza dell’ordine sacro, bensì della rappresentatività qualificata all’interno della comunità cristiana.
Una pillola di storia
Giova qui ricordare come neppure tutti i sacramenti, di per sé, necessitino l’Ordine Sacro: si pensi non solo al battesimo, che tuttora può essere amministrato perfino da un ateo quantunque pur sempre in via eccezionale, bensì anche al matrimonio, che fino al decreto Tametsi (ossia fino al 1563!) era considerato valido e sacrosanto con l’espressione del consenso dei nubendi e con la loro unione carnale. Ignazio di Antiochia è il primo autore ecclesiastico a noi noto che faccia esplicita menzione del matrimonio, e al confratello Policarpo raccomanda:
Conviene che gli uomini e le donne che si sposano contraggano la loro unione con l’approvazione del Vescovo, perché il loro matrimonio sia secondo il Signore e non secondo la concupiscenza. Tutto si faccia ad onore di Dio.
Ignazio, A Policarpo, V, 2
“Con l’approvazione del Vescovo”, dice: neppure “alla sua presenza”. Onde si capisce che l’apporto ecclesiastico al sacramento nuziale sarebbe – in sé – di “tutela morale”, e non per la validità (dal 1563, invece, si è stabilita la forma canonica tuttora necessaria ad validitatem). Era, allora, il 107 dopo Cristo.
Un dramma invisibile: quello dei preti
Ecco, ora però bisognerebbe parlare di una cosa che tante volte gli analisti di cose di Chiesa trascurano: esiste un drammatico problema, nell’amministrazione delle nostre Chiese, ed è la rincorsa al mantenimento delle strutture (immobiliari, giuridiche, politiche, economiche…) accumulate in secoli e secoli di preminenza culturale – ciò che chiamiamo “christianitas”. Tutti lo sanno, ma i Vescovi cercano di non essere “gli anelli deboli della catena” episcopale, il che equivarrebbe in un certo senso a diventare – secondo un’ottica puramente mondana – i curatori fallimentari delle parrocchie e delle diocesi. Epperò i beni ecclesiastici che vanamente si tenta oggi di amministrare (leggi: “tenere aperti”) furono eretti in anni e in secoli in cui – vuoi per una certa abbondanza di clero, vuoi per una rarità degli spostamenti della gente comune – c’era una chiesa in ogni quartiere nelle città normali, e in alcune una per ogni crocicchio (a Roma non mancano piazzette su cui si affaccia più di una chiesa!).
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Dapprima le abbiamo trasformate in rettorie e dominî abbaziali – purtroppo in questi sistemi hanno giocato un certo ruolo anche i sistemi di sostentamento del clero, basati sulle rendite – ma ben presto abbiamo cominciato a chiuderle, in un primo momento, e poi ad alienarle. Dove questo processo ancora oggi non si è completamente articolato abbiamo il persistere del tentativo di “tenere occupate le caselle”: le vecchine della contrada, che vanno coi figli al supermercato per fare la spesa, protestano col Vescovo se il parroco non va a dire la messa anche nella cappellina che sta in fondo alla loro stradicciola.
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Le forze del clero (in particolare quelle giovani) vengono soverchiate da immani pesi amministrativi: conosco preti trentenni titolari di cinque o sei parrocchie (anche da venti o trenta persone ciascuna) che la domenica non riescono a celebrare meno di sei o sette messe scappando come matti da una parte all’altra senza quasi potersi fermare a salutare. In spregio a ogni ordinamento canonico, preciso: il limite massimo di celebrazioni domenicali che il Vescovo può permettere è attualmente fissato a tre! E naturalmente gli Ordinari sono ben avvertiti di ciò… «però che fai? Chiudi le parrocchie?». Pare brutto, certo… E strapazzare dei preti impedendo loro di vivere come momento di comunità le celebrazioni è un’alternativa migliore?
La profezia di Osea e di Ratzinger
La rarefazione delle vocazioni sacerdotali non è un segno della secolarizzazione – questo lo pensino i pusillanimi che, se anche credono in Dio, pensano sotto sotto che la voce del mondo possa essere più forte di quella di Chi «ha vinto il mondo» (cf. Gv 16, 33) – bensì anzitutto un momento di deserto che il Signore somministra alla sua Chiesa, come sta scritto:
La loro madre si è prostituita,
la loro genitrice si è coperta di vergogna.
Essa ha detto: «Seguirò i miei amanti,
che mi danno il mio pane e la mia acqua,
la mia lana, il mio lino,
il mio olio e le mie bevande».
Perciò ecco, ti sbarrerò la strada di spine
e ne cingerò il recinto di barriere
e non ritroverà i suoi sentieri.
Inseguirà i suoi amanti,
ma non li raggiungerà,
li cercherà senza trovarli.
Allora dirà: «Ritornerò al mio marito di prima
perché ero più felice di ora».
Non capì che io le davo
grano, vino nuovo e olio
e le prodigavo l’argento e l’oro
che hanno usato per Baal.
Perciò anch’io tornerò a riprendere
il mio grano, a suo tempo,
il mio vino nuovo nella sua stagione;
ritirerò la lana e il lino
che dovevan coprire le sue nudità.
Scoprirò allora le sue vergogne
agli occhi dei suoi amanti
e nessuno la toglierà dalle mie mani.
Farò cessare tutte le sue gioie,
le feste, i noviluni, i sabati, tutte le sue solennità.
Os 2, 7-13
Le comunità cristiane debbono sentirsi interrogate, non minacciate: cosa sanno di loro stesse? Quanto sanno stare vicine ai loro pastori? Come li sostengono? Come sanno testimoniare a ciascuno dei propri membri – e anche ad extra – la loro prossimità? Sanno farlo come per un diffuso carisma o restano paralizzate fino a quando non arriva qualcuno investito e delegato? Che senso ha, nella Chiesa, attendersi un’investitura e una delega per la carità? Accompagnare i morti al camposanto è – nella storia della pietà cristiana – un ufficio popolare, in cui la famiglia di famiglie che è la parrocchia si stringe alla famiglia del dipartito e l’accompagna al dormitorio (questo significa la parola “cimitero”: mica è una necropoli!): piange con quelli che sono nel dolore, gioisce con quelli che sono nella gioia, con ciascuno condivide «le gioie e le angosce, i timori e le speranze».
Quando l’esperimento alto-atesino sarà replicato e diventerà più frequente, alle comunità starà il compito di rendere fluido il momento come quando guidando si scalano le marce: si diminuisce per un attimo la velocità, ma i giri del motore aumentano e si recupera potenza. Chi lo dice questo? Nel 1969 lo disse il giovane Ratzinger, che mai fu annebbiato dalla sbornia sessantottina e già vedeva arrivare la “grande depressione” postconciliare. Ma senza perdere la fede e la speranza che operano nella carità:
Siamo a un enorme punto di svolta nell’evoluzione del genere umano. Un momento rispetto al quale il passaggio dal Medioevo ai tempi moderni sembra quasi insignificante. […] Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto.
Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali.
Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti.
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Era il giorno di Natale del 1969, il giovane Joseph Ratzinger vaticinava al microfono di Hessian Rundfunk Radio. Quello che Ratzinger delineava era
un processo lungo, ma – garantiva il futuro Benedetto XVI – quando tutto il travaglio sarà passato, emergerà un grande potere da una Chiesa più spirituale e semplificata.
Ecco, se queste parole ci sembrano ispirate – se ci sembrano vibrare dell’alito che sedusse Osea – conviene che le teniamo presenti quando ci si presentano gli eventi fattuali che la ridimensionano, la nostra Chiesa, tanto che ci pare di vederla scomparire.
Perciò, ecco, la attirerò a me,
la condurrò nel deserto
e parlerò al suo cuore.
Le renderò le sue vigne
e trasformerò la valle di Acòr
in porta di speranza.
Là canterà
come nei giorni della sua giovinezza,
come quando uscì dal paese d’Egitto.
E avverrà in quel giorno
– oracolo del Signore –
mi chiamerai: Marito mio,
e non mi chiamerai più: Mio padrone.
Le toglierò dalla bocca
i nomi dei Baal,
che non saranno più ricordati.
In quel tempo farò per loro un’alleanza
con le bestie della terra
e gli uccelli del cielo
e con i rettili del suolo;
arco e spada e guerra
eliminerò dal paese;
e li farò riposare tranquilli.
Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell’amore,
ti fidanzerò con me nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore.
E avverrà in quel giorno
– oracolo del Signore –
io risponderò al cielo
ed esso risponderà alla terra;
la terra risponderà con il grano,
il vino nuovo e l’olio
e questi risponderanno a Izreèl.
Io li seminerò di nuovo per me nel paese
e amerò Non-amata;
e a Non-mio-popolo dirò: Popolo mio,
ed egli mi dirà: Mio Dio.
Os 2, 16-25