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Annalisa Minetti: non dovevi mettere al mondo un altro figlio, sei cieca

ANNALISA MINETTI
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Paola Belletti - pubblicato il 10/01/19
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Il problema non è -solo- il cyberbullismo. Il problema è sapere chi siamo e perché valga la nostra vita. Non è questa grande ignoranza contemporanea la più grande e diffusa menomazione?Proprio ora che nelle case sta arrivando Alexa alla quale si può chiedere tutto; giusto adesso che hanno inventato l’esoscheletro che aiuta gli anziani con difficoltà di deambulazione a procedere sicuri; in questi nostri anni che ci vedono impegnati a perfezionare occhi artificiali in grado di restituire parzialmente la vista,…che cosa ci tocca leggere?

Che Annalisa Minetti, intenta a festeggiare un 27 preso all’ultimo esame universitario con in braccio la sua secondogenita, avrebbe dovuto evitare di fare certe cose.

Prima fra tutte concepire la figlia medesima, poi forse anche iscriversi all’Università. E molto altro ancora; lo scoprirete voi stessi scorrendo gli innumerevoli commenti che seguono gli entusiastici hashtag a destra della foto. E per quale motivo poi? Per il fatto che, pur facendo ed essendo molte cose, per alcuni è e deve essere solo “cieca”.

E invece lei, sfrontata, non se ne sta nel suo cantuccio a compiangersi ma corre, vince gare paralimpiche, canta; e si è sposata, ben due volte, osservano altri utenti. Utenti attivi di Instagram, meno della propria ragione e del senso di rispetto e riverenza che si dovrebbero esercitare davanti alla vita di un’altra persona. (Per qualcuno lo fa per non suicidarsi, per distrarsi dall’orrore del suo proprio stato. Notevole potere di introspezione in inconsci altrui).

Ah, la cara vecchia “buona educazione”, come farebbe comodo ora!

Esiste una prossemica, uno spazio da rispettare come un sacro recinto anche online, dai su, facciamo i bravi. Lo sappiamo bene che nella vita di un’altra persona non si entra così, con gli scarponi  chiodati e senza chiedere permesso. E non vale la pseudo-obiezione che sia stata lei per prima a mettersi in piazza: esporre un piccolo fatto, condividere uno stato d’animo prevedibile (entusiasmo, soddisfazione per il risultato raggiunto, affetto per la figlia e la famiglia) non è parlare di recondite esperienze interiori, non significa “darsi in pasto”.

Ad Annalisa Minetti, oggi 42enne, madre di un bambino di 10 anni e ora di una bimba che ha da poco compiuto i 10 mesi, sono alla fine in pochi a muovere odiosissime critiche, imputandole come una colpa la vita stessa dei suoi due figli condannati a duplice pena: una madre cieca e un possibile destino simile per ereditarietà della retinite pigmentosa. Mi domando: a che servono Corsi di laurea, specializzazioni, tirocini e master quando c’è la possibilità di fare diagnosi, prognosi e anamnesi familiare tutto online?

In tantissimi sono quelli che si affrettano a farle scudo e a rispedire gli insulti -maggiorati – ai mittenti (due in tutto, mi pare, traendo le somme) che la trovano insopportabile, che la commiserano malamente, che le attribuiscono patetici tentativi di inseguire una normalità che non avrà mai, poverina (testuali parole) e le rinfacciano con un livore camuffato malissimo il fatto di avere soldi e risorse.



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Fai la disabile come si deve e ti riempiremo di coccole

Fosse una vera disabile, una cieca come si deve, di sicuro non starebbe lì a fare figli e tutte le altre diavolerie che si è messa in testa di fare e ostentare. Ecco cosa non va giù a @laurabuffetti e @benenatigiusi: che Annalisa non rappresenti il tipo di persona disabile che siamo disposti a digerire e che possiamo addirittura, ma a debita distanza, compatire e celebrare.


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Per questo guai a lei e al suo tentativo di essere non solo normale bensì addirittura super. Anche questa ipotesi è frutto di “lettura della mente”: come fanno a sapere che sia proprio questo il movente recondito delle sue azioni? Non potrebbe invece trattarsi di una loro proiezione o, per dirla meglio, di una visione di una pagliuzza deformata alla presenza di una trave nell’occhio di chi guarda?

Se ci pensiamo, la cecità e i difetti di vista sono usati spesso e con vigore nella Scrittura e da Gesù stesso. Ciò che colpisce il senso della vista ci tocca profondamente ed è altamente simbolico della nostra vita spirituale. Io credo dipenda dal fatto che siamo creature dipendenti e fatte di relazione, anthropoi, fatti per volgersi altrui, in alto (se è vera l’etimologia). Che dobbiamo, per vivere bene, essere decentrati, dimentichi di noi e attaccati a ciò che ci si para davanti e bisognosi di luce, della Sua luce alla fine dei conti.

Benissimo fanno le persone accorse a difendere Annalisa, il suo status di madre e il suo coraggio. Ma c’è un rischio anche in questo: idealizzare la persona con disabilità. La menomazione non rende di per sé migliori, ma è di fatto un’occasione ghiottissima per diventarlo.

Certo, possiamo notare che l’ardore con il quale si scagliano contro le due improvvide e malevole comari rischia di macchiarsi della stessa infamia. Volano gli stracci, lungo la colonna dei commenti. Si minacciano querele, si azzardano diagnosi di handicap, di ritardo mentale, di “poraccitudine” irrecuperabile.

Ecco che nell’epoca del motto più travisato di sempre “Chi sono io per giudicare”, tutti giudicano tutti. Tranne forse sé stessi?

Quello che manca come le gambe ad un tavolo in tutto questo spreco di “secondo me” “a mio modo di vedere” “fossi in lei” è il valore di riferimento. In base a cosa valutiamo? C’è o no una riserva aurea che garantisce la moneta delle nostre vite? Cosa è davvero normalità? Quale la dignità di un figlio, di ogni figlio? E il figlio non è così ridotto a bene di consumo, fosse anche affettivo, degli adulti? Non è piuttosto bene in sé stesso, semplicemente sebbene drammaticamente e amorosamente affidato a noi genitori?

E la disabilità, questa perenne straniera; la malattia, la sempre reietta, insieme alla sorella sofferenza: non sono piuttosto tutte loro il suolo che sempre rimane sotto il calpestio delle generazioni umane?

Ma sembra che non abbiamo imparato quasi nulla o che sia intervenuto ad un certo punto uno shock, un trauma. Non riconosciamo più Cristo e allora la sofferenza, la bruttezza, il diventare deboli ci fanno di nuovo quasi schifo. E paura, perché sappiamo che il tamburo della pistola gira e può fermarsi con il proiettile in canna alla nostra tempia. Pare una feroce roulette russa il destino di una civiltà in perenne attacco di panico, senza paternità né minuscola né maiuscola.

Possiamo chiamarlo cyberbullismo, possiamo ragionare, e dobbiamo, sulle dinamiche di odio e comportamenti da branco che l’habitat dei social favoriscono ma dobbiamo tornare a guardare l’uomo e la sua natura.

E allora usciremo, di nuovo, dalla logica del capro espiatorio, dello storpio da insultare, del Giona da buttare in mare per salvare una nave destinata al naufragio.

Oppure resteremo qui, a navigare tra gli scogli puntuti dei vari Signor Distruggere o ad arruolarci in crociate di un paio d’ore in difesa di questa o quello.



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