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Birdbox è solo un caso mediatico? È anche un viaggio nella vertigine di essere madre

BIRD BOX
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Annalisa Teggi - pubblicato il 09/01/19
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Al di là dei trailer ad effetto e della gigantesca campagna pubblicitaria, c’è la storia di una donna che diventa madre. Si esplora un argomento di cui si fa fatica a parlare: per alcune l’istinto materno non è affatto un istinto, ma una conquista. Ne hanno fatto un caso mondiale, i social network esplodono di parodie e commenti sul film di Netflix lanciato il 21 dicembre: Birdbox. Sandra Bullock e due bambini bendati su una barca a confronto con un mostro invisibile, ecco gli elementi essenziali di questo horror … che poi non è solo né prevalentemente un horror. Forse io ho una tolleranza abbastanza alta alle scene di paura e non sono attendibile nel giudicare, ma non mi pare una pellicola così esagerata nello spingere sullo splatter.


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Insomma, alla fine ho visto anche io questo film e la mia esperienza personale di madre me lo ha fatto guardare con occhi di empatia, verso la protagonista. Il centro di questa storia è un viaggio insolito nella maternità, quello di donne che diventano madri ma non vedono piovere sul mondo un mare di cuoricini e affetto zuccheroso. Si parla poco di questo tema in generale, men che meno è stato tirato fuori a proposito di Birdbox perché non è esattamente la chiave giusta per un marketing di successo. Ma è questo contenuto che vorrei valorizzare, perché credo di non essere l’unica mamma che di fronte alla nascita dei propri figli ha avvertito innanzitutto lo sconcerto di una estraneità: “Oddio e tu chi sei, davvero?”.


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Dare un nome ai propri figli, cioè dare un nome profondo al rapporto tra noi e loro può essere un viaggio tosto, di profondo confronto con le proprie paure. Per alcune l’istinto materno non è affatto un istinto, ma una conquista. E non è uno scandalo.

La cosa

Le storie moderne non spiegano molto, non sono lunghe e dettagliate come I miserabili. In questo film ci s’imbatte nella protagonista Malorie, interpretata da Sandra Bullcok, quando è già incinta; è sola, senza un marito o un compagno, non accetta la sua condizione eppure ha il pancione. Durante una visita con la ginecologa Malorie non riesce neppure a pronunciare la parola gravidanza, dice “questa cosa”. Altro non ci è dato sapere, se non che, nonostante tutto ciò, non ha abortito. E, visti i tempi, è già interessante …

BIRDBOX, SANDRA BULLOCK, FILM

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Si può diventare madri in molti modi, ben oltre e al di fuori del percorso matrimoniale, che pure resta – per chi lo prova – la proposta più rivoluzionaria del tempo contemporaneo. Si può essere madri single, vedove, si può tenere il figlio nato da una violenza carnale. Può capitare per caso, da un rapporto occasionale, e può non finire in un aborto. Ma anche nel caso più tradizionale di una donna sposata che resta incinta, l’avvento di una creatura dentro il proprio ventre non è sempre l’anticamera della pubblicità più zuccherosa su coccole, latte e abbracci.


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Chi ha nel suo passato una qualsiasi voragine di paura, o ferite profonde, vive l’amore fissandolo nel suo aspetto più autenticamente pauroso; quello che fa sorgere domande forti: e se non riesco a proteggerlo? Come posso essere capace di una impresa così enorme? 

Non è scandaloso dire che talvolta chi avverte con più intensità la forza radicale dell’amore, lo viva con paura e quindi abbia l’istinto iniziale di allontanarsi, di non coinvolgersi, con un evento tanto grande. Non è assenza di istinto materno, è sovrabbondanza di senso di responsabilità che deve imparare ad abbandonarsi, ad avere una fiducia non interamente fondata sulle proprie capacità.

Il mostro

Il grumo di paura irrisolto che Malorie si porta dentro, esplode anche all’esterno perché, proprio nel periodo finale della sua gravidanza, il mondo viene invaso da una presenza maligna che spinge la gente al suicidio di massa. È nell’aria e non ha volto, s’impossessa della volontà delle persone attraverso la vista. L’unica via d’uscita per i sopravvissuti è rimanere bendati.

Quasi per una chiamata in più del destino, Malorie deve vivere questa condizione di terrore estremo non solo insieme a suo figlio, ma curandosi di un’altra bambina rimasta senza madre. Una prova di affetto che si raddoppia e a cui lei risponde in modo sghembo. La grande premura per loro si manifesta in una severità assoluta, non cattiveria: sopravvivere a occhi bendati è un esercizio difficile per i più piccoli, educarli a rispettare le regole per salvarsi la vita trasforma Malorie in un generale più che in una mamma. Ma è un generale che sotto lo scudo di forza nasconde un mare di affetto irrisolto.


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C’è in ogni storia che si rispetti, banale o eccellente, il momento della prova. Un tempo la si chiamava: quete, ricerca. Dante la chiamò selva. Ognuno deve arrivare alla conoscenza più vera di sé affrontando molte specie di buio. In Birdbox il buio è quello puro e semplice, senza troppe metafore. Vivere a occhi bendati, conoscere la realtà con il tatto e l’udito è un tuffo senza paracadute in un mondo in cui l’io non è più completamente padrone.

Quanto spesso la nostra pretesa di «vedere tutto, per filo e per segno» è un delirio di onnipotenza? Chiudere gli occhi, stare bendati può essere la via per imparare la fiducia. La fede, in fondo, è questa vista che ci vede benissimo pur non avendo tutto davanti agli occhi.

Nel quotidiano, senza scenari apocalittici, la maternità è sempre il viaggio della donna il un mondo di mistero più che di certezze plateali; non è un’avventura alla cieca, ma è un’esperienza in cui s’impara passo passo una fiducia tremante, la certezza che il bene dei propri figli non è in mano nostra e che, se si vuole essere davvero onesti, deve fare i conti con l’ipotesi che non possiamo preservarli dal buio, dal male, dalla morte.



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Al di là di tutti i commenti usciti sul web, se guardo – da mamma – la locandina del film ci vedo un mio ritratto quotidiano: abbraccio i miei bambini e voler loro bene è tutt’uno col sapere che non so cosa sarà di loro. Per questo talvolta ho tenuto sotto controllo le mie emozioni, mi sono sforzata di essere algida; avevo paura del dolore che può comportare un amore così grande.

BIRDBOX, SANDRA BULLOCK, FILM

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Come nel film, però, la realtà è un fiume invadente che chiede di essere attraversato, insieme … senza essere davvero pronti … senza avere tutte le soluzioni giuste per ogni imprevisto. Siamo soltanto sicuri che ci aspetta una Casa alla fine del viaggio, dove essere accolti e amati.

Bambino – Bambina

Vietato ogni spoiler, ovviamente. E poi il giudizio su un film non è altro che un paragone personale col proprio vissuto, molto di parte e parziale. Rimanendo su questo sentiero, aggiungo un ultimo tassello del viaggio che ho fatto insieme a Sandra Bullock. Alla fine, è di fronte alla fragilità estrema che scopriamo il nostro volto; non sono gli atti eroici e meritori a svelarci la verità, quelli ci fanno stare sul piedistallo per poco.



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Quando siamo completamente inermi, siamo anche di fronte allo specchio. Chi sono? Io sono il rapporto vivo con chi mi è dato.

È questa la risposta che Malorie guadagna dal suo confronto serrato col buio. Per tutto il film i suoi figli non hanno nome, lei non ha mai avuto il coraggio di darglielo e li chiama Bambino e Bambina. Perché un nome presuppone un rapporto, e accettare un rapporto significa abbandonarsi a un territorio inesplorato. Ecco, nel momento supremo in cui la presenza malvagia pare impadronirsi di quei bambini e lei non ha niente da opporre alla cosa, le scappa un grido che è una conquista gigante: “Tu non mi porterai via i miei bambini!” (all’incirca il senso delle parole è questo).



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Eccola diventata madre, finalmente. Eccoci madri, finalmente, quando siamo nella selva; quando sappiamo poco o niente; quando accettiamo quel rapporto fragile e vertiginoso che è stare accanto alle creature che ci sono affidate. L’io diventa plurale, eppure non si rafforza in termini di spavalderia … anzi pare indebolirsi. Quel che si rafforza è la coscienza che siamo stati strappati al nulla e siamo un bene reciproco gli uni per gli altri.

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