Nel numero corrente de La Civiltà Cattolica si propone una riflessione sul valore teologico delle due principali cittadinanze di Gesù.
Nazaret e Betlemme sono paesaggi interiori, prima e più che toponimi: anzi, prendendo a prestito l’espressione della lingua francese, sono “paesaggi dell’anima”. Si tratta dei poli della vita e dell’attività di Gesù – arrivando l’ellisse a sud con la fuga in Egitto della sacra famiglia e a nord con l’apparizione pasquale a Saulo in viaggio verso Damasco – ma pure di condizioni diversissime, che l’esistenza umana del Figlio di Dio ha meravigliosamente inteso includere e ricondurre a unità.
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Betlemme è quasi una borgata di Gerusalemme: neanche dieci chilometri a sud dell’epicentro politico-religioso dell’antico Israele, verso il deserto di Giuda (e il Negheb); sulla cresta di un sistema montuoso che si affaccia a ovest su un moderato pendio che termina sul Mediterraneo e a est sulla scoscesa pendenza che rotola nel Mar Morto.
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Nazaret è un piccolo villaggio di Galilea, a metà tra Giaffa (oggi Haifa) e Tiberiade: bel paesaggio collinare, vegetazione sensibilmente più vivace che a Betlemme… nulla di particolare da segnalare. Nazaret è abbastanza lontana da tutto quel che conta, e difatti non è mai menzionata nelle Scritture giudaiche. Cosa intendesse Matteo scrivendo “perché si adempisse il detto dei profeti ‘sarà chiamato Nazareno’” (2, 23) è rovello che non ha mai cessato di tormentare gli esegeti – anche perché gli abitanti di Nazaret non sono mai stati chiamati “Nazareni” (bensì “Nazaretani”), e in tutte le lingue dell’area “Nazareni” è invece la parola comune per indicare i cristiani (Luca ci informa che «ad Antiochia [in Siria, pieno contesto ellenistico,] per la prima volta i discepoli furono chiamati “Cristiani”» – At 11, 26).
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Sia Luca sia Matteo – i due evangelisti dell’infanzia – rendono ragione nella loro opera di questa “eccentricità” di Gesù, che nasce nel cuore della Terra Promessa in quanto è “il leone di Giuda” ma vive tra «quelli che abitavano in regione e ombra di morte» (Mt 4, 16 che cita Is 9, 1): abituati come siamo alla lettura sinottica dei Vangeli quasi non ci facciamo caso, ma in Matteo non si ha notizia di una precedente vita nazaretana di Giuseppe e di Maria (precedente, cioè, alla nascita di Gesù), anzi sembra che la scelta di vivere in quel borgo anonimo fuori dalla Giudea sia dovuta proprio al bruciore della persecuzione contro il Bambino; è Luca – interessato al rilievo universale della vicenda di Gesù – che ci racconta la storia del viaggio, del censimento (non a caso il capitolo 2 del suo Vangelo si apre con il riferimento alla datazione imperiale romana)… ma nulla ci dice dei Magi e dell’Egitto.
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Il miracolo dei vangeli dell’infanzia è che ciascuno di essi sta perfettamente in piedi da sé e rivela, considerato nella propria autonomia, una coerenza da cui promana un messaggio ben distinto da quello dell’altro: eppure la sovrapposizione fra i due racconti è facile e non presenta gravi difficoltà, come avviene quando due persone rendono due testimonianze assai diverse ma entrambe veritiere di un unico e medesimo fatto storico. Nazaret e Betlemme sono al cuore di entrambi i racconti evangelici.
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Nell’ultimo numero de La Civiltà Cattolica si trova un gustoso excursus di padre David Neuhaus, che porta il rigore delle scienze bibliche a fruttare in una sontuosa meditazione spirituale, che anzi neppure si ferma a considerare i soli vangeli dell’infanzia, ma considera proprio i due toponimi in tutto il “quadriforme vangelo” (Ireneo):
Mentre Gerusalemme e Betlemme costituiscono il centro di una geografia sacra nel cui ambito si svolge la storia della salvezza – una terra ricca, nota, gravida di promesse –, Nazaret è come un territorio incolto, sterile, che non evoca alcuna aspettativa. Tuttavia “Nazaret” – una parola che non appare mai nell’Antico Testamento – svolge un ruolo importante, in quanto, come città di origine, prepara il lettore alla fine del racconto, a un’altra parola che non appare mai nell’Antico Testamento: la “croce”.
David Neuhaus, Tra Nazaret e Betlemme in La Civiltà Cattolica 4044, 525-531, 525-526
Gesù di Nazaret o Gesù di Betlemme, dunque? Nessun dubbio che sia nato a Betlemme e che sia vissuto a Nazaret, ma i Vangeli hanno spiegato diversamente – e tuttavia in modi complementari – il rilievo teologico di queste due residenze del Figlio di Dio. Modi diversi non solo di narrare i medesimi fatti, ma anche di esprimere i medesimi concetti: è difatti Matteo l’evangelista degli ebrei per antonomasia, ma è lui a insistere sulla “Galilea delle genti” e sull’ansia di Dio di s-fondare in Gesù le frontiere del popolo eletto; parimenti è Luca l’evangelista ellenistico, ma è lui a preparare il racconto dell’Annunciazione a Nazaret con quello dell’annunciazione nel Tempio di Gerusalemme. E allora
Nazaret viene presentata persino come più grande di Gerusalemme, come un nuovo luogo di rivelazione. Proprio come Maria, giovane donna di un villaggio sconosciuto, supera in splendore il vecchio Zaccaria, sacerdote del luogo centrale (il Tempio di Gerusalemme), così la rivelazione fatta a Maria supera in splendore la rivelazione fatta a Zaccaria. […]
Nazaret e Betlemme, vecchio e nuovo, rottura e continuità, sradicamento e radicamento, attesa e sorpresa: la compresenza di questi opposti, con tutte le tensioni che essi implicano, è necessaria per incontrare Gesù Cristo, Figlio di Dio, e per arrivare a conoscere più profondamente il sorprendente compimento delle promesse di Dio in lui.
Ivi, 530-531