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Novena di Natale: le “Antifone O” e due splendide “varianti apocrife”

CHURCH DECORATED FOR CHRISTMAS
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 17/12/18
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Da questa sera e fino all’antivigilia, in tutto il mondo la preghiera dei Vespri proporrà ai fedeli come antifone al Magnificat una serie di sette “grandi antifone” caratterizzate da una ben precisa forma metrica e sintattica – cominciano tutte con un forte vocativo. Di grandissima ricchezza teologica, hanno pure avuto una vita filologica assai avventurosa: vogliamo qui soffermarci su un accenno riguardante due delle sei “antifone apocrife” che pure per qualche secolo da qualche parte furono adoperate.

Ieri sera è cominciata la novena di Natale, e poiché la data di Padri Nostri (la rubrica che mensilmente curo su Radio Maria) cadeva proprio ieri, mi è sembrato quasi d’obbligo soffermarmi sulle antichissime Antifone O, che s’incastonano nella novena di Natale come sette meravigliose gemme. Ora qui vorrei proporre un focus su una delle gemme perdute

Sì, perché le sette Antifone O adottate dalla liturgia Romana e da quella Ambrosiana costituiscono un’unità indiscutibilmente evidente, eppure non furono le sole a essere scritte per la Novena di Natale.

Anzitutto a qualcuno potrebbe balzare la mosca al naso: come mai le antifone per la Novena più famosa dell’anno liturgico sono sette e non nove? Che fine fanno i giorni che restano senza antifona, e quali sono? E quando è nata questa novena? Era prima o dopo delle già ricordate antifone?



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Tutte domande ben più che lecite, benché in generale sia difficile rispondere… e su qualche specifico dettaglio l’enigma resterà impenetrabile in perpetuo (a meno che non spunti da una biblioteca qualche antico codice finora ignoto a dipanare l’oscurità del mistero). Non bisogna però disperare. Calma e gesso, dunque.

Storia e filologia

La prima attestazione delle Antifone O ricorre in un manoscritto della Biblioteca di San Gallo (Sang 390) risalente alla seconda metà dell’XI secolo: vi si trovano così come le abbiamo. Prima di questa data, però, abbiamo tre importanti tracce. La prima si trova in un passaggio del III libro del De consolatione Philosophiæ di Severino Boezio: l’autore era romano ma compose il libro durante la prigionia pavese (e nella città dove poi sarebbe morto di lì a poco). Il passaggio in questione evoca un antico canto romano sulla divina sapienza, e vi riecheggia la prima delle sette Antifone maggiori: «C’è infatti – scrive Severino Boezio – un sommo […] bene che regge tutte le cose con forza e le dispone soavemente».



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Ne avrebbe citata una anche la grande mente della Riforma Carolingia, Alcuino di York, che dopo aver trascorso una vita ad animare l’ambizioso progetto culturale di Carlo Magno e ad innervare l’Europa dei suoi discepoli, morendo a Tours avrebbe invocato Cristo con le parole dell’Antifona centrale delle sette, quella della Chiave di Davide:

Tu, che apri e nessuno può chiudere,
chiudi e nessuno può aprire,
vieni e libera l’uomo
che nell’ombra di morte
sta come in un carcere.

Parole tanto più toccanti in quanto pronunciate in extremis, mentre – per restare nella metafora – il catenaccio dell’esistenza terrena di Alcuino già si disserrava.

Una notizia filologica, invece, si deve ad Amalario di Metz, che di Alcuino era stato un alunno: in una delle sue opere liturgiche – che gli erano costate viaggi e ricerche da Roma alle estremità dell’Impero – Amalario afferma che un testimone del secolo anteriore al suo (dunque dell VIII) avrebbe affermato che le origini delle Antifone O affonderebbero fino al II secolo!


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Il che suona difficile a credersi, come in fondo alle nostre orecchie storico-critiche suonano difficili tutte le attestazioni alte prive di sostegni oggettivi, cioè filologicamente distinti dalla testimonianza che le riporta. Per questo motivo si conclude generalmente che le Antifone O sarebbero state redatte a Roma in ambiente monastico intorno al tempo di Gregorio Magno (quindi alla fine del VI secolo o agli albori del VII): è però solo un’approssimazione di comodo fatta tenendosi grossomodo equidistanti dalla prima e dall’ultima delle attestazioni più antiche… e concomitanti con un momento di grande attività culturale in seno al nascente monachesimo. Insomma, è una risposta passabile se si deve offrire a un passante frettoloso qualcosa con cui placare i morsi della domanda, ma non molto di più.

Bisogna pure tener conto del fatto che – sia o non sia stata romana l’origine delle Antifone O – è certamente mitteleuropea la loro fortuna: già nel IX secolo, dunque prima del manoscritto di San Gallo che ce le consegna, ne troviamo delle parafrasi in old english nel poema Christ I (o The Advent Lyrics), una collezione di dodici poemi religiosi, anonimi ma generalmente attribuiti a Cynewulf o alla sua scuola. Difficile comprendere questo proliferare di ricami letterari mitteleuropei su testi supposti essere di origine romana… se non si tiene conto del già ricordato progetto carolingio, di accreditarsi come patrono del papato romano di fronte alle crescenti estraneità e ostilità bizantine a mezzo di sostegno militare e di una militare opera di elaborazione culturale. Quel clima costò alle Chiese la coatta inserzione del Filioque nel Simbolo niceno-costantinopolitano (Carlo Magno la mutuò da alcuni concilî visigotici)… ma anche la diffusione europea dei sacramentarî romani e della grande innologia composta sotto le Alpi.

Alcune proposte interpretative

Insomma, fatto sta che presto o tardi (non molto tardi, di sicuro) queste antifone divennero oggetto di grande attenzione, in quel mondo romano-barbarico che raccoglieva la leadership culturale di un’Italia fiaccata da secolare debolezza socio-politica. Dicevo prima che la composizione attuale (quella già attestata dal manoscritto di San Gallo) è sicuramente organica e coerente, ma sono stati molti i tentativi di spiegarne la struttura. Cattura certamente l’attenzione la considerazione di come, leggendo in ordine le iniziali delle parole che seguono le rispettive interiezioni “O”, dall’ultima alla prima, si componga la frase “Ero cras, che vuol dire “Domani ci sarò”. Ad esempio in Il mondo della Bibbia 120 Pasquale Troía scriveva:

La simbolica della verticalità inversa dell’acrostico evidenzia la proiezione temporale dei tempi messianici: infatti l’ultimo titolo, “Emmanuel”, è il punto di arrivo in quanto futuro (“ero”) e futuro teologico (quello che Dio soltanto può garantire) che si rifà e richiama la Sapienza della prima antifona (quella stessa mediante la quale JHWH crea il mondo: cf. almeno Sap 9,9), di cui Adonay è la rivelazione del nome e l’Emmanuel è l’interramento dell’Adonay (JHWH): è l’esserci del “sarò” (“ero”) promesso dall’“io sono colui che sono” (JWHW) di Es 3,14 ss. Questo futuro messianico diventa presente in Gesù (Gv 1,1ss. 14). I titoli messianici di Gesù-Messia-che-viene ricostruiscono l’economia della storia della salvezza: dalla Sapienza creatrice di JWHW (la prima antifona) alla shekînàh dell’incarnazione dello stesso JWHW nel suo figlio Gesù (JWHW salva) della settima antifona.

Pasquale Troía, Le sette grandi antifone “O” dell’Avvento, in Il mondo della Bibbia 120, 40-42

Per questa stessa ragione allo studioso sembra semplicistico leggere l’acrostico come un mero “domani ci sarò”, laddove il susseguirsi delle profezie concatenate parla piuttosto di un costante inveramento di Colui che sempre – da sempre e per sempre – è. Su La Civiltà Cattolica il gesuita Maurice Gilbert scrive, dopo aver minuziosamente esposto il portato biblico-teologico di ciascuna delle sette antifone, che «la lettura delle antifone maggiori dell’Avvento […] mette in luce la ricchezza del loro contenuto, lo sviluppo della loro teologia, dalla prima all’ultima, e la loro ripartizione in due gruppi, le prime quattro e le tre ultime» (M. Gilbert, Le antifone maggiori dell’Avvento, in La Civiltà Cattolica 3802, 332). Gilbert aveva infatti inteso

che le tre ultime antifone si appoggiano, più esplicitamente delle quattro precedenti, sul Nuovo Testamento, sui Vangeli di Luca e di Matteo, e, la penultima, sulla teologia paolina.

Per questo motivo

l’attesa in preghiera del Natale si presenta come una rilettura cristiana dei passi più chiaramente messianici dell’Antico Testamento e come il rinnovamento della fede sulle orme del Nuovo.

Se volessi proporre una sintesi a quanti non avessero modo di visionare questi due ottimi contributi, inviterei semplicemente a considerare che la prima antifona è di carattere sapienziale e si riferisce alla creazione e al governo del mondo; seguono tre antifone che scaglionano i grandi temi dei libri storici dell’Antico Testamento (dalla liberazione dall’Egitto alla consacrazione della monarchia davidica) e le ultime tre affrontano – in chiave cristiana – le pagine più alte del profetismo giudaico: la stella di Giacobbe, l’apertura universale della Salvezza, un Dio che stia con-noi. Insomma sono gli ingredienti dell’Antico Testamento giudaico, ma con l’inversione dei Profeti e dei Sapienziali fra loro – perché? – al fine di “orientare” il Canone biblico ad accogliere il mistero di Cristo. L’operazione fatta contestualmente alla composizione del Canone cristiano, nel corso dei cento anni a cavallo tra il I e il II secolo.


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Tout se tient, dunque, e possiamo ancora una volta tornare a sorprenderci – noi moderni col pregiudizio illuministico comunque succhiato nel latte di mamma – della cristallina corrispondenza di forme e concetti nella teologia e nella poesia medievali.

Alcuni testi – e in particolare due – “apocrifi”

A questo punto vorrei intervenire a “guastare la festa”, ricordando proprio che questa perfetta compiutezza – saldamente attestata fin dalla prima vera fonte di cui disponiamo – è stata intaccata qua e là da alcune varianti, che hanno aggiunto e/o tolto antifone al magico settenario che abbiamo appena considerato. Ce ne sono state diverse, ma per non prolungare indefinitamente il discorso filologico mi attengo unicamente alle due più popolari nella ricezione e più pregnanti filologicamente. Tutte queste “antifone O alternative” – tranne una (dunque cinque su sei) sono accomunate dal non contenere titoli cristologici: si capisce dunque che il criterio discriminante è stato proprio l’intenzione della Tradizione di privilegiare lo schietto portato cristologico. Ma per spiegarci l’una e l’altra cosa – cioè l’elezione del settenario e la qualità delle altre antifone – lasciamo che ci introduca una valutazione conclusiva di uno storico studio di Thomas J. Knoblach:

Abbiamo visto che le Antifone O sono composte in modo che la Vigilia di Natale cada all’ottavo giorno. Il primo giorno della nuova creazione. Le antifone sono probabilmente sette di numero per questa ragione. C’è un parallelo definito con la celebrazione della Settimana Santa. Entrambi questi periodi di sette giorni hanno proprie peculiarità liturgiche; entrambi mostrano una climax ascendente fino al momento kairologico della Solennità. Ed entrambi condividono la tensione del richiamare il passato mentre si vive il presente e si attende il futuro […].

Sia il Natale sia la Pasqua sono in qualche modo principio della creazione nuova. Le settimane che li precedono sono tempi di particolare consapevolezza e di speciale concentrazione sul tema del passaggio (e della transitorietà).

C’è un altro collegamento tra Natale e Pasqua, nelle antifone O, che potrebbe aiutare a spiegare meglio la selezione dei passi veterotestamentari che vi compaiono. Ognuna delle antifone è in qualche modo riferita al mistero pasquale.

Thomas J. Knoblach, The ‘O’ Antiphones in Ephemerides liturgicæ 6, 1992, 177-204, 200

Questa annotazione risulta decisiva nel comprendere una delle più popolari fra le sei Antifone O alternative al settenario ormai canonico. Quella dedicata a san Tommaso (che a partire dal XIII secolo avrebbe rimpiazzato quella – pure “apocrifa” – dedicata all’arcangelo Gabriele).

O Thomas Dydime,
qui Christum meruisti cernere,
te precibus rogamus altisonis,
succurre nobis miseris
ne damnemur cum impiis
in adventu Iudicis
.

Traduzione:

O Tommaso Didimo,
che meritasti di guardare il Cristo,
ti supplichiamo con alte grida di preghiera:
vieni in soccorso a noi miseri,
perché nell’avvento del Giudice
non siamo dannati con gli empi.

L’antifona cadeva il 21 dicembre, data in cui diversi santorali attestano la festa dell’Apostolo incredulo: evidente è il sottotesto pasquale, nonché il tema apocalittico.

Ma la più celebre delle sei è senza dubbio quella dedicata alla Vergine delle vergini, che doveva cadere il 24 dicembre, dunque alla vigilia:

– O Virgo virginum,
quomodo fiet istud?
Quia nec primam similem
visa es habere sequentem!
– Filiæ Jerusalem, quid me admiramini?
divinum est mysterium hoc quod cernitis
.

Traduzione:

– O Vergine delle vergini,
come può accadere questo?
Non c’è mai stata una come te,
prima, né ce ne sarà una dopo!
– Figlie di Gerusalemme, perché state a guardare me?
Ciò che state scrutando è un mistero divino.

Pur mantenendo intatta la struttura metrica delle altre antifone, questa si segnala per alcune ricercatezze che valgono per il critico letterario quali spie di una stesura posteriore a quella delle altre: è infatti questa l’unica antifona del gruppo a comporsi per un contrasto responsoriale, perché la domanda “come può accadere questo?” è originariamente pronunciata dalla Maria dei Vangeli, ma nella trasposizione eucologica diventa una domanda dei fedeli, dei figli della Chiesa, cioè “di Gerusalemme”. Così la risposta innologica di Maria, nell’Antifona, prende spunto da una citazione del Cantico, ma subito si correda di un riferimento altro, che è al contempo evangelico/pasquale e innologico: la domanda degli angeli ai “viri galilæi” che caratterizza la pericope evangelica e l’antifona della solennità dell’Ascensione. È evidente un livello di raffinatezza esegetica ancora superiore a quello – già eccelso – del settenario recepito dalla Tradizione fino ai nostri giorni.

Ma se tutto culmina nell’Emmanuele… può darsi che Maria venga ancora più in là? Non sarà troppo? La critica ha i suoi strumenti, naturalmente già nel 1963 Francis C. Lightbourn scriveva nel 147esimo volume di The Living Church: trattarsi di un’anticlimax.

The English Hymnal […] segue l’uso di Salisbury che aggiunge un’ottava antifona – O Virgo virginum – che chiaramente giunge dopo O Emmanuel come un’anticlimax.

Insomma quella figura retorica che, per stemperare la prevedibile banalità di una scala tutta ascendente introduce un diversivo sul finire, senza che risulti offuscata la percezione di quale sia il culmine della progressione. Non solo, ma scegliendo la parola “Virgo” l’autore ha deliberatamente scelto di variare la prima parola dell’acrostico risultante da “ero” in “vero: non “domani ci sarò”, dunque, bensì “veramente domani”. Ed è evidente l’opzione per una diversa enfasi nella celebrazione del mistero.

L’inatteso precedente di Origene di Alessandria

Ora, ci sono due cose perlomeno suggestive nella ricostruzione che di queste “antifone apocrife” abbiamo: la prima è che l’ultimo uso “vivo” di questi testi, pur musicati nel corso dei secoli da eccelsi artisti, non l’abbiamo nel culto cattolico bensì in quello anglicano (che per diversi aspetti “congela” certi usi anglici all’epoca dello scisma di Enrico VIII). La seconda è che nella strepitosa Omelia XXIII sui Numeri l’antico magister Ecclesiarum, Origene di Alessandria, aveva suggerito anche lui l’incrocio di due progressioni in merito alla Pasqua e al Natale: l’Uomo d’Acciaio (così lo chiamavano) aveva infatti preso l’aridissimo elenco delle tappe di Israele nel deserto verso Canaan e l’aveva sovrapposto all’aridissimo elenco dei nomi componenti la genealogia di Cristo secondo Matteo. Quarantadue da una parte e quarantadue dall’altra: sono tre multipli di quattordici, e “quattordici” si scrive con le lettere ebraiche che compongono il nome Davide. Questo non poteva essere un caso per Matteo, ma tanto meno poteva esserlo per Origene, che a forza di etimologie ha tirato fuori un incredibile itinerario spirituale dalla conversione alla vita perfetta in Cristo. Il passaggio con cui termina la genealogia, però, coincidente con quello da cui parte la road map di Israele, merita di essere riportato per intero. La dice lunga sulle grandi costanti dell’avventura cristiana nel tempo – al netto di riforme, scismi, eresie e semplici sciatterie.

[…] Un osservatore attento troverà nelle Scritture che nell’esodo dei figli di Israele dall’Egitto ci sono state quarantadue tappe; e ancora, che l’avvento del nostro Signore e Salvatore nel mondo è stato condotto mediante quarantadue generazioni. Così infatti l’evangelista Matteo ne fa memoria, dicendo:

Da Abramo fino al re Davide ci sono quattordici generazioni; da Davide fino alla deportazione a Babilonia quattordici generazioni; dalla deportazione a Babilonia fino a Cristo quattordici generazioni [Mt 1,17].

Codeste quarantadue tappe genealogiche percorse da Cristo che discendeva nell’Egitto di questo mondo sono pari pari le quarantadue tappe che fanno quanti dall’Egitto risalgono.

E giustamente Mosè si prese la briga di aggiungere:

I figli di Israele salirono con la loro forza [Num 33,1].

E qual è la loro forza, se non lo stesso Cristo, che è “forza di Dio” [cf. 1Cor. 1,24]? Quindi chi ascende lo fa con colui che è sceso da noi fin quaggiù, per giungere lì donde quello non per una qualche necessità, bensì per degnazione, discese. E così risulta vero il passo:

Colui che discese è lo stesso che pure ascese [cf. Eph. 4,8-10].

E quindi in quarantadue tappe i figli di Israele giungono al momento in cui possono cominciare a entrare in possesso della loro eredità. L’avvio di questa presa di possesso si nota quando Ruben, Gad e mezza tribù di Manasse ricevono la terra di Galaad [cf. Ios. 17,6]. Ecco come mai è risaputo che Cristo è sceso a noi attraverso quarantadue avi, secondo la carne, come se fossero quarantadue tappe, perché è per quarantadue tappe che avviene l’ascensione dei figli di Israele fino al principio dell’eredità promessa.

E se hai capito la grandezza del mistero racchiuso in questo numero della discesa e dell’ascesa, allora vieni e cominciamo a salire le tappe della discesa di Cristo. Facciamo una prima tappa lì dove egli fece l’ultima, vale a dire il fatto che è nato dalla Vergine. Che ella sia per noi – che cerchiamo di uscire dall’Egitto – la prima tappa: quella in cui, dopo aver abbandonato il culto degli idoli e la venerazione dei demonî, che non sono dèi, professiamo che Cristo è nato dalla Vergine e dallo Spirito Santo, e che «il Verbo fatto carne è venuto in questo mondo» [Io. 1,14]. Dopodiché cerchiamo di progredire e di scalare uno dopo l’altro i gradini della fede e delle virtù. Se soggiorneremo per questo itinerario il tempo necessario per raggiungere la perfezione, potremo dire di aver preso dimora nei singoli gradini delle virtù fino a giungere sulla cresta dei comandamenti e delle ascesi, dove si compirà l’eredità promessa. […]

Origene, Omelia 23 sul libro dei Numeri, 3,1-2

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