Presentato pochi giorni fa presso il Cnel il 52° rapporto dell’istituto di ricerca più accreditato e ascoltato del Paese. Più povertà materiale e mancanza di una cornice spirituale: sparita ogni “mitologia” di riferimento.
Il rapporto annuale sulla situazione sociale ed economica del paese. Quest’anno va la cattiveria
Più povertà materiale, più desolazione ideale, più isolamento e solitudine. Lo stato d’animo diffuso e condiviso? Nemmeno più il rancore, che andava tanto nel 2017, ma proprio la cattiveria. Questa la parola chiave scelta nella restituzione dell’indagine sociale ed economica che riguarda il nostro paese e la sua popolazione.
Questa la presentazione dello studio:
Giunto alla 52ª edizione, il Rapporto Censis interpreta i più significativi fenomeni socio-economici del Paese nella fase di attesa di cambiamento e di deludente ripresa che stiamo attraversando. Le Considerazioni generali introducono il Rapporto descrivendo la transizione da un’economia dei sistemi a un ecosistema degli attori individuali, verso un appiattimento della società. Nella seconda parte, la società italiana al 2018, vengono affrontati i temi di maggiore interesse emersi nel corso dell’anno: le radici sociali di un sovranismo psichico, prima ancora che politico, le tensioni alla convergenza e le spinte centrifughe che caratterizzano i rapporti con l’Europa, gli snodi da cui ripartire per dare slancio alla crescita. Nella terza e quarta parte si presentano le analisi per settori: la formazione, il lavoro e la rappresentanza, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti e i processi economici, i media e la comunicazione, la sicurezza e la cittadinanza. (Censis)
Plus ca change plus c’est la meme chose
Sembra di sentire parlare rappresentanti di caste rigide impermeabili l’una all’altra, immutabili come il fato che ormai si abbatte senza freno sui tristi. Miseria in tutte le dimensioni: quella ideale non è forse la più penosa?
Cosa ci impedisce di pensare che qualcosa possa ancora cambiare? Il fatto che tutto cambi e, come dice il saggio, tutto c’est la meme chose. (Jean-Baptiste Alphonse Karr). Detta secondo i modi dell’era social media noi italiani ci siamo convinti che siccome tutti possono diventare famosi, basta il web, basta un canale youtube ben gestito, senza meriti particolari, allora a che ci servono miti, ideali, beniamini, eroi? Santi non ne parliamo nemmeno.
Un italiano su due (il 49,5%) è convinto che chiunque può diventare famoso, basta internet, e dunque i modelli a cui ispirarsi non servono più. (Ib.)
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Sembriamo molto sicuri: non c’è speranza
E poiché è difficile convincere qualcuno a darsi da fare se costui è fermamente convinto che la cosa non potrà sortirgli nessun benefico effetto ne possiamo facilmente e tristemente ricavare che questa sia la miseria più grave.
Il processo strutturale chiave dell’attuale situazione è l’assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive. L’Italia è ormai il Paese dell’Unione europea con la più bassa quota di cittadini che affermano di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore di quella dei genitori: il 23%, contro una media Ue del 30%, il 43% in Danimarca, il 41% in Svezia, il 33% in Germania. Il 96% delle persone con un basso titolo di studio e l’89% di quelle a basso reddito sono convinte che resteranno nella loro condizione attuale, ritenendo irrealistico poter diventare benestanti nel corso della propria vita. E il 56,3% degli italiani dichiara che non è vero che le cose nel nostro Paese hanno iniziato a cambiare veramente. Il 63,6% è convinto che nessuno ne difende interessi e identità, devono pensarci da soli (e la quota sale al 72% tra chi possiede un basso titolo di studio e al 71,3% tra chi può contare solo su redditi bassi). (Censis)
Siamo nel capitolo dedicato al “sovranismo psichico“, concetto arduo che non sono sicura di avere compreso appieno. Ve lo propongo:
La delusione per lo sfiorire della ripresa e per l’atteso cambiamento miracoloso ha incattivito gli italiani. Ecco perché si sono mostrati pronti ad alzare l’asticella. Si sono resi disponibili a compiere un salto rischioso e dall’esito incerto, un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino, se la scommessa era poi quella di spiccare il volo. E non importa se si rendeva necessario forzare gli schemi politico-istituzionali e spezzare la continuità nella gestione delle finanze pubbliche. È stata quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l’altrove vincesse sull’attuale. È una reazione pre-politica con profonde radici sociali, che alimentano una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria ‒ dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare. (Censis)
A parte l’ardore e anche l’arditezza di certe scelte linguistiche del presidente del Censis, pare di cogliere una critica generalizzata, forse nemmeno del tutto distaccata, alle scelte di voto degli italiani, come se si (ci) fossimo mossi solo in obbedienza alla pancia, vuota e nervosa. Sperando di ottenere un cambiamento catastrofico e salutare.
Un dato inconfutabile e a dire il vero vergognoso: salari quasi identici a 17 anni fa!
Tra il 2000 e il 2017 nel nostro Paese il salario medio annuo è aumentato solo dell’1,4% in termini reali. La differenza è pari a poco più di 400 euro annui, 32 euro in più se considerati su 13 mensilità. Nello stesso periodo in Germania l’incremento è stato del 13,6%, quasi 5.000 euro annui in più, e in Francia di oltre 6.000 euro, cioè 20,4 punti percentuali in più. Se nel 2000 il salario medio italiano rappresentava l’83% di quello tedesco, nel 2017 è sceso al 74% e la forbice si è allargata di 9 punti. (Ib)
E i giovani che provano ad entrare nel mercato del lavoro, sono i più penalizzati.
Senza arrivare a covare rancore allevandolo fino alla forma adulta e dopo incontenibile della cattiveria, questo dato è e resta una vergogna. Perché dietro i salari ci sono persone, spesso famiglie, a volte single che non riescono nemmeno più a voler diventare famiglia. Viste le pagine dalle quali scriviamo, possiamo ricordare che “defraudare la giusta mercede a chi lavora” è uno dei quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio. Il quale, si sa, è paziente ma non sordo.
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Sempre più single, per scelta. Altrui?
Una società che si lascia: la rottura delle relazioni affettive stabili. Ci si sposa sempre di meno e ci si lascia sempre di più. Dal 2006 al 2016 i matrimoni sono diminuiti del 17,4%, passando da 245.992 a 203.258. A diminuire sono soprattutto gli sposalizi religiosi (-33,6%), mentre quelli civili sono aumentati del 14,1%, fino a rappresentare il 46,9% del totale. Le separazioni sono aumentate dalle 80.407 del 2006 alle 91.706 del 2015 (+14%), mentre i divorzi, anche per impulso della legge sul «divorzio breve», raddoppiano letteralmente, passando dai 49.534 del 2006 ai 99.071 del 2016 (+100%). E cresce la «singletudine»: le persone sole non vedove sono aumentate de 50,3% dal 2007 al 2017 e oggi sono poco più di 5 milioni.
E grazie allora anche a quelle leggi approvate con tale fretta che sembrava il famoso zelo che divora che hanno dato impulso ad un sasso che rotolava già benissimo da solo. In tempi di crisi generalizzata, chiediamo ora a bocce speriamo ferme, c’era davvero bisogno del divorzio breve?
Perché se è vero, come lo è, che la voce di questo autorevolissimo istituto è una delle più ascoltate dagli interlocutori istituzionali e dai principali attori della scena economica del paese perché su queste cose è ridotto a Cassandra?
La città brucia, le Censis-Cassandra gridano, nessuno le ascolta.
Da dove ripartire?
Solo tre parole: lavoro, lavoro, lavoro.
«Abbiamo visto sfiorire la ripresa e l’atteso cambiamento miracoloso non è stata una palingenesi», dice Massimiliano Valerii direttore generale del Censis, spiegando come l’Italia sia anche «orfana di una narrazione forte entro la quale costruire la nostra identità e radicare il nostro benessere». Oggi purtroppo prevalgono «una coscienza infelice, una speranza senza compimento». E Valerii si chiede: da dove e da cosa ripartire, per poi rispondersi, senza alcun dubbio: «lavoro, lavoro, lavoro». (Corriere)
Come dargli torto? Ma a noi tocca l’onorevolissimo compito di ricordare anche che la speranza esiste ed ha un pure un nome e che le possibilità non solo ci sono ma sono pressoché infinite, poiché non siamo paria vincolati ad un destino di infelicità ma figli di Re cui spetta una succulenta eredità, a cominciare da ora.
Preghiamo per l’Italia (come si fa ogni giorno nel Santuario della Santa Casa di Loreto), va’, che è sempre la cosa più intelligente e strategica da fare…
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