Il suo nome finalmente tra i Beati, il decreto promulgato dal Papa il 7 novembre scorso: la cerimonia di beatificazione invece avverrà con tutta probabilità a settembre 2019, nella sua diocesi, Forlì. Abbiamo incontrato una delle sorelle, Emanuela, che vive a Sirmione, il paese dove Benedetta si trasferì con la famiglia e dove si consumò il suo eroico martirio. Un modello di santità attuale, laico, necessario. Un chiodo piantato nel serpente della cultura dello scarto.
L’inizio normale di una vita straordinaria
Voleva diventare un medico, e lo sarebbe diventata, c’è da presumerlo, a pieni voti. Non solo quelli sarebbero stati pieni ma anche la sua dedizione e la sua intelligenza vivace, penetrante e il suo amore per i pazienti, per le persone che sono fratelli, mai avuto dubbi. Invece Dio ha voluto altro, per questa ragazza. E a lei, alla fine, è andata benissimo così.
Benedetta Bianchi Porro, forlivese di nascita, sirmionese di adozione e ora cittadina di un paio di mondi (questo che continua ad aiutare e nel quale continua a raccogliere devozione e soprattutto l’Altro, dove i concittadini sono i santi e il familiare più intimo è Dio stesso) ha vissuto una vita inizialmente normale, provata è vero dalle durezze della guerra e di una salute fragile. Sarà la seconda di sei figli, sempre molto legata ai suoi fratelli: Leonida, Gabriele, Emanuela, Corrado, Carmen.
E poiché una di loro, Emanuela, vive vicino a dove abito anch’io, mi sono permessa di chiederle una chiacchierata. Parliamo di Benedetta e pare che parliamo con Benedetta.
Conosce subito la malattia Benedetta Bianca Maria (questo il nome completo di Battesimo); la vita sembra volerla abituare fin da quando non ha memoria alla privazione e all’umiliazione. Che sarebbe crudeltà, se non riconosciamo la storia che Qualcuno vuole scrivere per lei e con lei.
Si tratta, alla fine, di una grande storia d’amore, amore vero ed esigentissimo, ma altrettanto generoso. Un amore così grande che ogni privazione altro non è che zavorra gettata dal cesto della mongolfiera mentre quella sale, sale, continua a salire. Certo la salita del cristiano è dura, pesante, gravata della croce; in questo penoso salire però l’anima vola! Lo scoprirete leggendo molti dei pensieri di Benedetta quando ormai ha aderito con piena volontà al disegno di Dio su di lei.(per conoscere integralmente la sua opera, Scritti Completi, a cura del biografo ufficiale, Don Andrea Vena; edizioni San Paolo).
Aggiornamento del 7 agosto 2020
Benedetta Bianchi Porro e Sergio Zavoli
La “mia” scuola elementare, quella del comune di Sirmione, è intitolata proprio a Benedetta Bianchi Porro. Ho dei ricordi molto vividi del giorno dell’inaugurazione, noi bambini cantavamo, mi ricordo persino il ritornello di una delle canzoni ma nemmeno Youtube riesce a soccorrere la memoria questa volta; mi devo affidare a quella pre web e a quella condivisa sì, in senso classico. La mia amica Greta di sicuro ricorderà ancora persino le strofe.
Ma quel che non sapevo allora e che ho scoperto adesso è che avrebbe dovuto partecipare alla nostra entusiasta e composta cerimonia di paese anche un personaggio di grande spessore, noto al grande pubblico, apprezzato nel mondo: Sergio Zavoli.
E sarebbe dovuto essere lì come uno dei tanti amici di Benedetta, uno dei tanti irraggiungibili dalla speranza cristiana toccato invece da questa piccola ostia sempre più nascosta e, per ciò stesso, sempre più potente. In perfetto stile eucaristico.
La sorella Emanuela ha raccontato questo fatto e ciò che lo ha preceduto: Sergio Zavoli aveva già confermato, garantendo la sua presenza. Ma un brutto incidente di ritorno da un viaggio in Russia gliela rese impossibile: si ruppe una gamba e dovette stare a riposo, con l’arto ingessato.
Ecco cosa scrisse in una lettera del settembre del 1972 quando era Presidente della RAI:
Lesse il libro sulla Beata. E così la conobbe e in lei intravvide, come ricomposto dalla sua imitazione, il paradosso di Cristo e della sua salvezza.
Ed ecco cosa generò in lui quell’incontro attraverso un libro su Benedetta, Il volto della speranza, intorno al solo problema che incomba su ogni uomo, basso o alto, stupido o acuto, presidente o stagista di qualsivoglia azienda. il pensiero di Sergio Zavoli su Benedetta Bianchi Porro: la morte e la sofferenza, vieppiù quella degli innocenti.
Una volta, in un’enfasi giovanile, confessai di non avere della morte ‘una sola idea che mi consoli’: non credevo, e del resto ancora non credo che uscirò dalla morte con un’altra vita. Tutto, dunque, tutto il visibile, si consumerà di venerdì. Ma è anche parte di me entrare nel mistero e visitarlo e starci senza malizia, in libertà: quello dello sofferenza, ad esempio, che ha un volto storico così incessante.
“Ciascuno porterà la sua croce e ne sopporterà il peso”, mi dicevano, da ragazzo, negli innocenti oratori Salesiani. Poi la vita, mettendo la mia strada in quella degli altri, mi ha detto che la croce passa di mano in mano e perciò stesso riscatta un dolore invisibile. Ecco allora non ritrami più, non essere più respinto dalle lettere di Benedetta: essa mi chiarisce la vaga idea che ho del miracolo; la sua storia di dolore non è il cantico compiaciuto del proprio destino, non è una solitaria e soave follia della croce: è scontare su di sé anche il peso degli altri, è prendere il silenzio e la solitudine del dolore, cioè il ‘segreto’ della salvezza, e dargli voce. Non per dire, ma per dare di sé. Forse è questa la fede che risveglia di domenica, forse il miracolo è questo.
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Nella sua breve vita questa giovane rinuncia via via con maggiore docilità a quello che le viene strappato. A farlo, odiosa mercenaria, è una malattia infida e feroce, che sarà lei stessa a diagnosticarsi: la neurofibromatosi diffusa. La sua forma è stata particolarmente nefasta, ne esistono molte manifestazioni e spesso con discrete prospettive di vita. Si tratta di una malattia probabilmente congenita che genera una serie di tumori benigni che colpiscono la cute e i nervi, (Benedetta non accusò mai però le sintomatiche chiazze di iperpigmentazione). A lei ha tolto mano a mano tutti i cinque sensi. Il primo a salutarla e a prendersi gioco di lei, l’udito.
Osservava Benedetta, mi ha riferito la sorella, che la sordità rende ridicoli, la cecità forse suscita più immediata compassione. E così all’università persino un professore la insulta e la umilia con una brutalità che lascia esterrefatti.
Cosa se ne farebbero di un medico sordo? urlerà lanciandole il libretto universitario. Ci sarà con lei spesso un’amica di Sirmione, Anna, ad alzare la mano agli appelli in aula per le lezioni a frequenza obbligatoria. Dettagli piccoli, questi, ma segno di quella amicizia che ha sempre sostenuto il cammino di questa beata, vero modello di santità laicale.
Sarà piena di amici, soprattutto da malata, da invalida totale diventerà un gigante, un maestro sublime, restando dolce, femminile. Frequenterà GS ai suoi albori; lo stesso Rocco Buttiglione, che si troverà a sua volta a scrivere di lei, racconterà di avere fatto interi “raggi” sulle frasi di Benedetta. (il raggio è una forma di catechesi utilizzata da Don Giussani nei primi anni di Gioventù Studentesca; il termina deriva dalla forma con la quale si disponevano i presenti per il momento di catechesi).
Vi dicevo che ho chiesto a la Manuela , così la chiamerà la sorella maggiore nei diari di bambina, per carpire da lei alcuni aspetti che forse ad uno sguardo troppo “agiografico” possono sfuggire. La Manuela è quella delle sorelle che ha iniziato a praticare danza fin da piccola e che poi ha ballato alla Scala e lavorato in Rai (si vede ancora dal bel portamento, dalla misura che usa nei gesti, dalla grazia che ha, accompagnata da un certo piglio volitivo. Dev’essere la natura romagnola che fa capolino); ed è instancabile nel portare Benedetta a tutti, in tutte le occasioni che si creano o che lei stessa promuove.
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Quando mi ha fatto accomodare al tavolo della cucina lo ha invaso di fogli; si trattava di una serie di appunti diversificati, quelli che usa quando va in giro; sono pensati e redatti a seconda del pubblico che incontra: bambini, ragazzi, adulti, ecclesiastici. E ogni volta che la sento parlare di Benedetta riscontro lo stesso slancio, la stessa energia e fierezza insieme ad un sincero distacco. Dipende dal fatto che è disposta a consegnare sua sorella al mondo. Benedetta non è “sua”, è per tutti.
Ed è arrivata lontano, questa giovane, da quando è morta; si vede che con la visuale di cui gode ora riesce a saltare intoppi, trovare scorciatoie e raggiungere cuori che ancora Google maps non ha tracciato.
Quasi tutta la sua vita è stata nascosta, come quella del Suo Signore
E’ nata nel 1936 a Dovadola (FO) ed è morta nel 1964 a Sirmione. Nasce in agosto e muore a gennaio. Ma la rosa che le fa festa è quella che sboccia bianca nel giardino della sua casa sul lago, in pieno inverno. A gennaio fa un bel freddo anche qua, sul nostro dolce Benaco.
Insomma lo si capisce che non so da che parte girarmi per quante cose vorrei dirvi e offrirvi di Benedetta; ed è perché ne conosco la storia, ne riconosco il viso così bello dai ritratti, dalle copertine dei libri, dai santini fin da quando sono bambina anche io; e per il fatto che le voglio bene e l’ho sempre sentita amica, vicina, normale e speciale. Desiderosa di divertirsi, di perdersi quasi nelle gioie semplici e istintive di una vita che scorra senza scossoni ma segretamente chiamata a qualcosa di alto e insieme terribile.
Una ragazza che ha cercato invano di coprirsi dietro il velo sottile di una ordinarietà che invece ha dovuto abbandonare per incamminarsi lungo una via dura, impervia, arida spesso. Ma solo così ha potuto far emergere uno spirito gigantesco. Benedetta è un gigante e una bambina in braccio al Signore.
Vi ricorderà S.Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo.
Pensavo di essere stata arguta ad accorgermene, mentre è lei stessa che parla con devozione e ammirazione di questa Santa e della sua spiritualità, attinta dai suoi scritti, letti e meditati ripetutamente; durante l’agonia chiederà alla mamma di leggerle ancora Storia di un’anima. Sul suo sarcofago sono incise le parole della Santa francese che anche Benedetta ha fatto proprie: Non muoio, entro nella vita.
Le assomiglia, davvero. Era bella, femminile, (aveva una specie di mania per gli orecchini, che allora non erano nemmeno tanto di moda, mi dice la sorella) e dalla salute cagionevole; anche lei avrebbe voluto consacrarsi. Era un’entusiasta, innamorata della sua famiglia, degli amici, dello studio, della letteratura, della bellezza, della natura. Era anche malinconica; serve lavoro per essere nella gioia, per essere grati. Non basta il carattere, soprattutto dopo, soprattutto quando la salita inizia a tirare parecchio e a spezzarle il fiato. Assomiglia alla piccola carmelitana dottore della Chiesa perché anche lei è stata nascosta al mondo e ora, dal cielo, non cessa di mandare giù grazie. Chissà se pescano i fiori dallo stesso cesto!
Il miracolo che l’ha resa beata
La guarigione miracolosa per la quale è stata ascritta nell’elenco dei Beati riguarda un ragazzo di Genova, ora uomo.
Il 7 novembre papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle cause dei santi a promulgare diversi decreti, tra cui quello riguardante il riconoscimento del primo miracolo attribuito all’intercessione della venerabile Benedetta Bianchi Porro (8 agosto 1936 – 23 gennaio 1964), che quindi sarà presto proclamata beata. Il miracolo riguarda la guarigione dell’allora ventenne Stefano Anerdi, andato in coma il 21 agosto 1986 dopo un gravissimo incidente con la moto e dichiarato cerebralmente morto dai medici, che avevano pure dato il via libera all’espianto degli organi. Intanto, però, la madre aveva iniziato a recitare una novena con familiari e amici per chiedere l’intercessione di Benedetta, della quale aveva letto una biografia. Il 3 settembre Stefano si risvegliò. Oggi è padre di due figli. Una commissione di sette medici, incaricata nel 2013 di studiare i referti, ha definito l’improvvisa guarigione scientificamente inspiegabile. (Cristianesimo cattolico, Ermes Dovico)
Una pioggia di grazie
Ascoltando le parole della Manuela ho scoperto che sono tante le grazie che i devoti attribuiscono a Benedetta; basta andare sul suo sarcofago, a Dovadola, dove le sue spoglie sono custodite dal 1969. E’ pieno di biglietti, preghiere, ringraziamenti, io mi immagino anche dei fiocchi. Perché so che quando i fiocchi sono rosa, la bambina è probabile si chiami Benedetta! Sì, tante donne che desiderano un figlio si rivolgono a lei con fiducia, tante tornano a dire grazie.
In effetti anche un figlio che sembra non possa proprio arrivare è un gran bel miracolo! E altrettante sono le grazie interiori, le conversioni, le persone che lasciano sciogliere dalle sue mani nodi aggrovigliati da una vita intera lontana da Dio.
Anche quando era in vita toccava i cuori, e di mano ne aveva alla fine una sola, anzi una parte sola della mano destra, che è rimasta come feritoia sul mondo e come accesso segreto al suo castello interiore. E da quel palmo lasciava uscire parole di consolazione, raggi luminosi, consigli, rimproveri: alla mamma che le diceva “come sei buona” risponde “se sono buona imitami se invece non lo sono non dirmelo se no mi fai peccare”.
Ditemi voi se non è un gigante! Ma non fa paura, Benedetta; non mette soggezione. La mette Dio, sentiamo il timore di Dio, avvicinandoci a lei ma non abbiamo soggezione di lei ; Benedetta tende a sparire per far passare il Re. E ce lo presenta nella Sua veste di Amante.
Chi andava da lei con il comprensibile intento di portarle conforto ne usciva invece rinfrancato, carico, pieno di speranza.
Ma come faceva? Come caspita poteva farlo in quelle condizioni?
Parliamone, delle condizioni di Benedetta, e scrutiamole con la lente oscurata del nostro mondo, divenuto l’Internazionale del terrore di guardare in faccia miserie, infermità, malattia.
Il decorso della malattia: tutti i sensi la abbandonano, uno alla volta
Cominciamo con questa triste teoria, questa ingiusta processione di capacità sensoriali che mano a mano la lasceranno per sempre. Intanto appena nata Benedetta ha accusato un’emorragia e la mamma, la Elsa, le amministra il battesimo “di necessità” per paura che muoia prima del tempo; e poi il 13 agosto dello stesso anno le verrà amministrato nella Chiesa dell’Annunziata, “sotto condizione”. Ovvero quando permane il ragionevole dubbio che il Sacramento non sia stato amministrato. Sembra una sorta di tenero, ironico riguardo che Dio le usa; il Battesimo è e resta uno solo, imprime il carattere definitivamente. Ma un rinforzo non guasta, sembra dirle. Come le avesse sussurrato sei mia, sei proprio mia. Ti innesto nel Mio Corpo, devi esserne certa.
Nel novembre del suo primo anno è colpita pure da poliomielite. Diventerà la zoppina, o la zoppona; ho letto entrambe le versioni. Non c’erano progetti contro il bullismo, allora, ma imperversava già tutta la crudele fantasia dei bambini che, da sempre, sanno essere cattivi gli uni con gli altri. Lei dirà ai fratelli che la difendono di lasciar perdere poiché stavano solo dicendo la verità.
Qua e in un altro caso di evidente ingiustizia subita la sua reazione apre come uno squarcio sulla vastità del suo animo: è un gigante, ve l’ho detto. Solo chi è profondamente libero si lascia offendere senza soccombere, anzi perdonando; sembra Gesù.
Nel ’49 inizia a perdere l’udito
Ecco, la sordità ha iniziato a farsi sentire, che amara ironia. E’ una ragazzina, sta frequentando il liceo a Forlì; fino al ’51 abiterà in quella cittadina con la famiglia per poi trasferirsi a Sirmione.
La Paene insularum, Sirmio, insularumque ocelle conquista tutto il suo entusiastico apprezzamento: il lago, gli ulivi, le nuotate, la vita, le festicciole, gli amici. Eppure proprio in questa gioia così cristallina iniziano ad incresparsi onde di malinconia, di nostalgia forse.
Guardando questo spettacolo il mio animo è preso da ricordi, e da un terribile bisogno di indefinito, di lontano, di silenzio. Un bisogno di essere fuori dal mondo, lontana da tutti, e un bisogno di qualcuno cui confidare i dolori della mia vita; di uno, insomma, che mi consoli. Basta, per confortarmi, alzare il pensiero a Dio. (dai suoi scritti)
Nel ’53 finisce il liceo classico; sarà il Bagatta, quello che come me tanti sirmionesi, desenzanesi e simili hanno frequentato con alterne fortune. Lei affronta l’esame di maturità e lo supera brillantemente senza aver frequentato l’ultimo anno. (Siamo negli anni Cinquanta, il liceo era ancora una cosa piuttosto impegnativa!) Così può iscriversi a Medicina (dopo aver inizialmente assecondato il desiderio del papà che la voleva a Fisica), a Milano. Sono anni belli ma via via più faticosi; la malattia avanza; vuole diventare medico per mettersi a servizio degli altri invece la sola diagnosi che farà sarà la sua. Sarà lei stessa a diventare una medicina.
Affrontai il nuovo studio con ardore. Avevo sempre sognato di diventare medico. Voglio vivere, lottare, sacrificarmi per tutti gli uomini.
Presto Benedetta è anche costretta ad usare un bastone per camminare e non solo a causa della gamba più corta; ha una nuova insolita difficoltà motoria.
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All’esame fondamentale del biennio spera che il professore le possa far avere le domande per iscritto invece lui davanti a tutta l’aula gremita di studenti le prende il libretto e lo lancia con violenza accompagnando il volo con le parole “Non si è mai visto un medico sordo!”. Ci sono anche le risate degli studenti, di nuovo; come alle elementari la crudeltà di infierire su chi è colpito da menomazione e di fargliene una colpa. Sapete cosa ha risposto e come, Benedetta?
Scusi, professore, non volevo offenderla.
E alla mamma dirà che è stato gentile a non rovinarle il libretto. Il Cardinale Angelo Comastri dirà intorno a questo episodio:
Ci vuole eroismo per parlare così, ci vuole un atteggiamento interiore di assoluta vittoria su se stessi. Benedetta, nel 1955, già viveva quello che scriverà all’amica Franci, molti anni dopo: «Vorrei… essere buona e remissiva, dolce e serena, e riuscire completamente a dimenticarmi per ascoltare solo il miracolo della Sua Luce» (a Franci, 22 aprile 1963). (Angelo Comastri, Bendetta Bianchi Porro, Dio mi ama)
E’ il turno della vista
Nel ’56 arriva un’altra serie di sintomi che comporranno il tragico mosaico della sua malattia. Ulcera corneale e papilla di stasi; insomma è destinata a diventare cieca.
Sarà lei, come dicevo, nel ’57 ad arrivare alla diagnosi e non i molti luminari consultati: neurofibromatosi diffusa o morbo di Recklinghausen.
Me lo raccontò un’altra volta sempre la sorella: consultando un grande manuale di patologia umana disse “Ecco, questa è la mia malattia”. I tumori che la malattia le causa devono dove possibile essere rimossi ma Benedetta sarà pioniera anche di errori chirurgici subiti ma senza mai recriminare; anche queste vicende e il suo modo di viverle sono un monito per il nostro presente. Dirà alla madre di non rattristare il medico che di sicuro non aveva fatto apposta.
27 giugno: Benedetta è operata, per la prima volta, alla testa per asportazione di un neurinoma del nervo acustico. Le radono il capo. Forse Benedetta, in quel momento, rivide uno scorcio della sua infanzia: il contadino, chiamato Natale, che in un piovoso giorno di settembre tagliava la lana ad una pecora mentre la nebbia saliva fino a ricoprire il piccolo paese di Bertinoro: “Mentre mi tagliavano i capelli, mi sentivo come un agnello cui tagliano la lana e pregavo il Signore che mi facesse forte e piccola. Il Signore, mamma, vuole da noi grandi cose. Ho sofferto tanto e ho domandato al Signore di essere una pecorella nelle sue mani“.
Come complicazione dell’intervento la metà sinistra del volto rimase paralizzata e fu necessario un secondo intervento. Benedetta è costretta ad interrompere momentaneamente gli studi. (Benedetta.it)
La privazione dei capelli per una donna significa tanto; ma anche questa ferita lei sa ricomporla davanti al Signore; è un agnellino tosato, vuole essere una docile pecorella ma non nega la sofferenza. Non lo fa mai Benedetta. Non la nega eppure non la fa mai pesare ai suoi. Emanuela mi racconta che loro non si rendevano nemmeno conto di quanto fosse orribile la condizione della sorella. Nei suoi appunti qui davanti a noi mentre parliamo ha scritto:
Non senti mai da lei, né espresso né tacito, una dichiarazione come di chi sente di subire un’ingiustizia.
Le sarà man mano tolto tutto, persino il gusto, l’olfatto. Eppure lei inseguiva il sole sul letto: “Mamma lo sto toccando?”. E a saperlo ne gioiva: costretta a ri-conoscere il mondo e stupirsi della bellezza della natura senza più la mediazione dei sensi. Le è chiesta la fede persino per le cose più banali e lei ne aveva e se ne stupiva: Chesterton sarà fiero di lei.
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“Mamma cosa sto mangiando?”, anche questo chiederà. Per poi magari dire grazie, buono. Il corredo non è finito: avrà una piaga sacrale da decubito a tormentarla, dovrà subire l’estrazione di numerosi denti a causa di ascessi multipli. E il ’63 è l’anno della definitiva cecità. Benedetta si ribella, si dispera, si arrabbia fino a che non la invaderà la pace.
Benedetta dice grazie e non le pare mai abbastanza
Ci sono tracce, nelle sue lettere, nei suoi diari di momenti di intimità profonda col Signore: sente quasi di non meritare tanto, che dovrà rispondere di tutta questa grazia. E c’è da crederle: Dio quando dona dona Sè stesso. Che cosa mai possiamo rimproverarGli, anche fossimo provati come Giobbe?
C’è un episodio che mi ha raccontato sempre la sorella: lei con la mamma sta guardando qualcosa in tv, impazza la pseudo-rivalità Mina vs Milva. Un anticipo delle tante bagarre che impazzano anche ora. Benedetta dalla sua stanza inizia a scampanellare e invita, ma perentoriamente, la mamma e la sorella a pregare:
mettetevi in ginocchio e ringraziamo il Signore di tutto quello che mi ha dato….
La mamma si rifiutava:
scusami Benedetta ma io non mi sento così generosa.
E lei:
Inginocchiatevi e ringraziamo il Signore che grandi cose ha fatto di me, e santo è il Suo nome!
Grandi cose, ha fatto in me…
I miracoli che ottiene già da viva, uno più grande dell’altro…
Ha desiderato fino all’estremo di guarire per farsi suora e aiutare gli altri. Alla fine si è arresa alla volontà di Dio che, parole sue, “agisce sempre per il nostro bene“. Lo scriverà dopo essere tornata da Lourdes la prima volta:
Desidero guarire per farmi suora. Ho fatto voto.. (Ibidem)
Al ritorno scrive:
Sono andata a chiedere la guarigione, ma il criterio di Dio supera il nostro ed Egli agisce sempre per il nostro bene. (Ib)
A Lourdes intercede pregando per una pellegrina paralizzata e disperata: Maria D.B. Le prende le mani e la esorta:
La Madonnina e’ lì, la Madonna ti guarda. Maria! Diglielo alla Madonnina che ti aiuti! (Ib)
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Maria si alza, cammina. Benedetta gioisce per lei; sentirà anche desolazione per se stessa ma dice che Maria era sola, ne aveva proprio bisogno. Lei invece aveva la sua mamma. Un gigante. Ma manca ancora il pieno abbandono e l’adesione amorosa alla volontà di Dio. Fatti ce ne sono ancora tanti da riferire ma non si può in un solo articolo che, se diventa troppo lungo sortisce l’effetto opposto a quello per il quale ho iniziato a scrivere. Arriva, durante il secondo viaggio a Lourdes, l’anno successivo, l’ultimo intero della sua vita:
…ed io mi sono accorta più che mai della ricchezza del mio stato e non desidero altro che conservarlo. E’ stato questo per me il miracolo di Lourdes, quest’anno. (Ib)
Benedetta: la sua vita è un inno alla vita stessa e all’Amore
Manca pochissimo all’incontro atteso più dell’acqua nel deserto, Benedetta scalpita.
In questi ultimissimi giorni sono peggiorata di salute; spero, perciò, che la “chiamata” non si faccia attendere troppo… ti dirò che ho già sentito la voce dello Sposo. Sono lenta nelle preghiere, ma offro tutto, così come sono: Lui, che e’ generato in me, voglia guidarmi fino in fondo”.
Ti dirò anche che in questi giorni mi sento spesso piena di Spirito Santo.
Non aveva che un flebile balbettio per comunicare eppure poco prima di morire intonerà una canzone. E muore, dopo avere dato tutto, dicendo “grazie”. E’ il 23 gennaio del 1964, la rosa bianca è fiorita in giardino, Benedetta ha fatto in tempo a saperlo dalla sua mamma.
Non trovate che questa sua esistenza sia uno schiaffo assestato in pieno volto ai potenti di oggi, al pensiero anti umano che si annida in tanti uomini contemporanei, anche in noi? La sua vita mostra la sproporzione irriducibile dell’anima rispetto al corpo; e il corpo sofferente, che a tratti sembra stritolare l’anima stessa, si trasfigura come un’ostia bianca e diventa potente sacramento, diventa un’atomica pronta a deflagrare. Non è un sacco vuoto, ma viene trapassato dalla bellezza, dal fuoco di un’anima che ha lottato fino ad abbandonarsi all’abbraccio dell’Amante che ora la riempie di luce, di gioia, di pace. Benedetta è l’evidenza di tutto questo: della debolezza che E’ forza. Fanciulla e gigante. Allora, in attesa della cerimonia ufficiale di beatificazione che avverrà probabilmente a settembre (il 14, giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, aggiornato a maggio 2019) dell’anno prossimo, nella sua diocesi di origine, Forlì, possiamo rivolgerci a lei e chiederle ogni cosa, anzi Tutto.