Il mucchio di stracci si muove; di nuovo vediamo quegli occhi infinitamente tristi e soli. Non è un ragazzo, è una donna.Era una persona che mi era già capitato di vedere, o meglio di intravedere. Sempre solo un pezzettino di volto, nascosto da giacconi calati sugli occhi o improbabili coperte. Si scorgeva qualche centimetro di pelle scura, due occhi neri, profondi, persi e innocenti. Qualche volta, con un tuffo al cuore, avevo trovato vicino al suo corpo rannicchiato per terra della cacca e della pipì, ripugnanti e nello stesso tempo struggenti. Non ha nemmeno un posto in cui fare i suoi bisogni.
Ogni volta rimanevo colpita e affranta; aveva qualcosa di infinitamente doloroso vedere questa persona, probabilmente con una grave disabilità mentale e il cuore in Africa, accasciata sui nostri marciapiedi. Una volta, vedendo questa persona in questo stato, avevo mandato un messaggio ad un sacerdote che ha aiutato diversi uomini senza fissa dimora; gli avevo parlato di questa situazione, dicendo che neanche si capiva se fosse un uomo o una donna. Mi aveva detto che sarebbe passato a vedere, poi non ho saputo come sia andata.
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Un’altra volta ho provato a telefonare ad un’associazione che si occupa di clochard e vittime dello sfruttamento sessuale, ma purtroppo il cellulare era staccato. Questa mattina, la mia mamma ed io andavamo insieme a messa. Ci andiamo tutte le mattine, anche se c’è un po’ di strada da fare a piedi. Passando, vediamo dapprima un paio di scarpe da tennis ed un mucchio di stracci. “Sarà di nuovo quel ragazzo”, ci diciamo. “Ma no, saranno solo i vestiti, non può essere così piccolo”. Ma il mucchio di stracci si muove; di nuovo vediamo quegli occhi infinitamente tristi e soli. Rimaniamo ancora una volta turbate. Ci sentiamo come i “cattivi” della parabola del samaritano. Ma cosa possiamo fare? Continuiamo a chiedercelo; riprovo a telefonare all’associazione che conosco, ma di nuovo il cellulare è staccato. Andiamo a messa, pregando per questa persona sconosciuta. Dopo la celebrazione, chiediamo consiglio al sacerdote che ha celebrato. “Chiamate il 118”, ci dice. Io sono un po’ perplessa: indubbiamente questa persona avrà bisogno di cure mediche, ma non solo di quelle. Io vorrei qualcuno che, avendo le risorse e le competenze per farlo, accogliesse questo essere umano e gli desse affetto, comprensione, forse un futuro se quello sguardo assente è solo il frutto di troppa sofferenza.
A messa con noi c’è anche un amico infermiere. Anche lui consiglia di chiamare il 118. Poi decide di venire insieme con noi per dare un’occhiata. Mentre ci avviamo, veniamo sorpassati da un’ambulanza a sirene spiegate. Qualcuno l’ha chiamata: si ferma dove ricordavamo che fosse quella persona. Arriviamo anche noi. Adesso il lenzuolo che l’avvolgeva mentre dormiva la copre da seduta; è come una piccola statua astratta appoggiata contro un negozio. È il proprietario del negozio, che deve alzare la serranda, ad aver chiamato l’ambulanza.
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Il lenzuolo salta su, svela la persona, che si alza in piedi. Un cespuglio di capelli crespi che vanno in tutte le direzioni. Un volto che provoca pietà infinita: giovane, brutto, senza denti, con un po’ di barba. Cerca di sistemare gli abiti che ha indosso – pantaloni informi che non si chiudono, al posto delle mutande delle strisce di nylon. Mi giro dall’altra parte per rispetto del suo pudore. Gli operatori dell’ambulanza telefonano alla centrale: la persona si rifiuta di seguirli, e non possono portarla via. La conoscono.
Non è un ragazzo, è una donna. Una donna con un po’ di barba, con gli occhi infinitamente tristi, senza più i denti e – chissà – forse con tanto dolore nella sua anima, nel suo corpo. Si chiama Miriam, come la mamma di Cristo.
Su due gambe rigide, che sembrano stecchi, infilate in scarpe troppo grandi, Miriam comincia ad allontanarsi. Non si regge bene in piedi; forse la sua unica amica, ogni tanto, è una bottiglia del vino più economico, un cartoccio che una volta avevo visto accanto a lei.
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Mia mamma dice: “Almeno offriamole la colazione!”. Si avvia al bar all’angolo. Intanto, il proprietario del negozio davanti al quale Miriam dormiva si fa avanti. È turbato anche lui; mi dice: “Io ho il negozio di cialde, il caffè glielo offro io”. Lo ringrazio con calore. Arriva con un bicchierino di plastica, lo zucchero e lo stecchino. Raggiungo Miriam, mentre mia mamma è andata al bar ad acquistare una brioche. “Miriam, ecco il caffè!”. Mi guarda. Sorride con gli occhi e con la sua bocca senza denti. Le porgo il bicchierino, lo prende con mani sporchissime e rovinate. Lo zucchero, lo stecchino.
Si avvicina una signora: “Non gli dia niente, non bisogna dargli niente!”. Rimango di sale: “Ma signora, è un caffè!”. “Non bisogna dargli niente!”, ripete la signora. “Perché poi torna!”. Miriam le dice una parolaccia. Io replico: “Ma signora, è una persona, non è una bestia”! È ai piccioni che non bisogna dar da mangiare se no poi tornano… non agli esseri umani. Miriam intanto se ne va, attraversa caracollando la strada e va ad appoggiarsi ad un cestino dell’immondizia. Io sono scoppiata a piangere.
Perché siamo cristiani, siamo umani. Perché il corpo di Miriam, insozzato dai suoi bisogni e dalla sua fragilità, è il corpo di Cristo, cui dovremmo lo stesso rispetto che diamo a quello che c’è nel tabernacolo. Perché non sappiamo suggerire altro che il 118 e gli assistenti sociali (a cui, beninteso, va tutta la mia stima e la mia gratitudine per il loro servizio prezioso): ma qui ci vorrebbero delle Madre Teresa, dei Cottolengo, dei cristiani che sappiano amare persone come Miriam, non solo fornire loro dei servizi. Perché poi, ricoveri una Miriam per qualche giorno, ma del suo futuro non puoi occuparti: la dimetti, torna in strada, più sola e più infelice di prima. E piango perché c’è chi vede nelle Miriam degli animali infestanti, delle pesti da allontanare, se no non si possono aprire i negozi. Business is business. Ma dov’è finito l’uomo?