John Allen Chau sapeva di rischiare, e del resto nella sua intensa e breve vita s’era abituato a superare molte situazioni di rischio e di pericolo. Nelle sue ossa ardeva però il fuoco che trasforma gli uomini in profeti, dunque ciò che ora sarà di quella finora dimenticata isola buttata nel Pacifico non potrà più prescindere dal sangue del giovane statunitense.
La blogosfera si sta interessando alla storia di John Allen Chau, anche in Italia. Il giovane statunitense è stato ucciso dagli autoctoni Sentinelesi lo scorso 15 novembre, a quanto è dato di ricostruire dal suo diario e dalle testimonianze dei pescatori indiani i quali – contra legem – lo avevano accompagnato sull’isola che da sempre (si calcola che la popolazione vi viva da 60mila anni) scoraggia ogni contatto col mondo “civile”: oltre ai rischi oggettivi costituiti dall’ostilità degli indigeni il dispositivo legale indiano tutela anche la “riserva naturale” dell’isola (un po’ come in Italia per l’isola di Montecristo) e pone un veto tuzioristico contro la carica batterica e virale che un qualunque uomo proveniente dalla terra ferma potrebbe portare agli isolani – con conseguenze virtualmente esiziali per la tribù.
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Il ventiseienne originario dell’Alabama, però, doveva «annunciare Gesù» in quello che definiva «l’ultimo avamposto di Satana». Basta dare una sbirciata al suo profilo Instagram – vi si documentano fra l’altro cose come il morso, quasi letale, di un serpente a sonagli – per capire che John era uomo passionale e poco avvezzo alle mezze misure: la sua attività missionaria si esplicava perlopiù in misure ordinarie (è stato anche istruttore di calcio coi bambini, sempre a fini catechistici). Forbici, pesci e palloni da calcio, oltre alla Bibbia che gli aveva riparato il cuore da una delle prime frecce scoccate contro di lui, erano infatti il bagaglio essenziale con cui John pensava di annunciare Gesù a quelle persone:
Il mio nome è John, ti amo e Gesù ti ama.
Si prefiggeva di dire loro, pur non negando a sé stesso le evidenti contrarietà a cui sarebbe andato incontro. Leggiamo infatti nel suo diario (pubblicato da The News Minute e dal Daily Mail) che aveva chiara percezione di star esponendo la propria vita all’estremo pericolo:
Sto cercando di stabilire il regno di Gesù sull’isola… non condannate i nativi se io sarò ucciso.
L’hanno preso in parola i suoi genitori, che con un messaggio dal suo profilo Instagram hanno rilasciato questa dichiarazione:
[…] Le parole non bastano a esprimere la tristezza che abbiamo provato alla notizia. John è stato un figlio, un fratello, uno zio amatissimo e il migliore amico di tutti noi. Per altri fu un missionario cristiano, un soccorritore forestale, un allenatore di calcio internazionale e un montanaro. Amava Dio, la vita, aiutare le persone in difficoltà: per il popolo Sentinelese non aveva altro che amore. Noi perdoniamo quanti ci hanno riferito essere responsabili della sua morte. Chiediamo anche che siano rilasciati gli amici che aveva nelle Isole Andaman: si è avventurato per sua libera scelta e i suoi contatti locali non devono essere perseguiti per le di lui azioni. […]
Difficile davvero leggere queste righe e pensare che ci troviamo di fronte a un improvvido esaltato, come se John fosse uno sprovveduto o un disperato – uno che se l’è andata a cercare. Il cattivismo con cui sono state commentate, anche nel recentissimo passato, delle notizie relative a giovani persone che si sono avventurate lontane dalla loro casa per testimoniare fattivamente un’inaudita fraternità a uomini variamente ghettizzati dà molto a riflettere: è in parte l’affermazione inconscia della paura, della grettezza, del provincialismo di una società aperta, multietnica, multiculturale, senza frontiere… solo a chiacchiere. A tutte queste cose, però, c’è un antidoto storicamente infallibile: la missione.
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Il missionario è animato come da un fuoco che gli impedisce ogni quiete, e quel fuoco è “la follia della croce” di cui parlava Paolo – vero prototipo di ogni missionario cristiano. Ora potranno moltiplicarsi i commentatori che spiegheranno come e perché John Allen Chau abbia “sbagliato” – i tempi, i modi, la strategia e chissà che altro… –, e del resto io non lo conosco a sufficienza da perorarne non dico la causa di canonizzazione ma neppure una compiuta apologia (anche se a una prima snasata mi pare che non manchino gli elementi per questa e per quella…): quel che so per certo è che nessuna missione, mai, viene da principio percepita come l’attuazione di un’oculata pianificazione, né come il risultato di una strategia comunicativa vincente. Oggi san Paolo lo ammiriamo nell’iconografia accanto a Pietro, ma ai suoi giorni fu avversato praticamente da tutti, nonché abbandonato anche da quelli che sulle prime avevano condiviso la sua opera:
Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?
2Cor 11, 24-29
Oggi mandiamo vaglia e bonifici a padre Aldo Trento perché la prospera missione di San Rafaél in Paraguay continui la sua plurisecolare opera di evangelizzazione e di umanizzazione, ma l’immortale pellicola di Roland Joffé – Mission – non comincia con la crocifissione di un missionario gesuita che su quegli incontaminati altipiani si era avventurato avendo non più garanzie di quelle che aveva John rivolgendosi ai Sentinelesi?
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In realtà la vicenda di questo giovane ultrameticcio, che solo il Cielo poteva avere per vera patria, ricorda a tutti noi diverse verità ciclicamente obbliate:
- al mondo ha rammentato che esistono persone lontane da ogni contatto con l’umana società;
- alla Chiesa ha ricordato che esiste quell’isola dove il nome di Gesù non è ancora mai risuonato;
- e dunque sempre ai cristiani ha ricordato che il mandato missionario ricevuto dal Redentore risorto è ancora lungi dall’essere adempiuto.
Insomma, che esiste la missione. Trovo suggestivo – visto che la cinematografia è una delle poche arti in cui ancora si esprime una “koiné occidentale” – che intercorrano esattamente trent’anni fra il film d’autore sulle missioni (The Mission) e il film d’autore sull’apostasia (Silence). Certo, “suggestivo” non è un teorema, e del resto non intendo certo che in questo trentennio siamo diventati tutti apostati, né tantomeno che i gesuiti di cui narra il romanzo di Shūsaku Endō siano dannati. Sta di fatto che ciò di cui ci interessiamo dice in qualche modo chi siamo… e che cosa stiamo diventando. Poi arriva un ragazzino imberbe, un giramondo sorridente che ha il coraggio di sprecare la propria vita senza neppure uno straccio di protocollo, di organizzazione che lo sostenga, fidandosi solo dei suoi amici e di una voce interiore che egli identifica con la voce di Dio. E questo ci dà uno scossone irriducibile. Sale alla mente la domanda “ma John è un martire o un fondamentalista cristiano?”… e mano a mano che uno legge le sue cose capisce che cosa ha fatto, trova echi e riscontri nella storia del cristianesimo… e si vergogna. Ha onta di essere tanto dimentico delle proprie radici e del proprio destino da non aver riconosciuto al volo, a prima vista, il passo leggero e gravissimo dell’Apostolo.
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Poca favilla gran fiamma seconda, scrive Dante all’inizio del Paradiso, ed è difficile pensare che quell’isola potrà restarsene nel suo “miriamillenario” isolamento, ora che nella sua sabbia è stato sepolto un chicco del Vangelo.
Riflettendo sulle correnti teologiche che continuamente, specie nell’ultimo secolo, hanno cercato di aprire spiragli di speranza escatologica anche chi incolpevolmente non conosceva il messaggio cristiano, nel 1990 Giovanni Paolo II scriveva:
L’universalità della salvezza non significa che essa è accordata solo a coloro che, in modo esplicito, credono in Cristo e sono entrati nella chiesa. Se è destinata a tutti, la salvezza deve essere messa in concreto a disposizione di tutti. Ma è evidente che, oggi come in passato, molti uomini non hanno la possibilità di conoscere o di accettare la rivelazione del Vangelo, di entrare nella chiesa. Essi vivono in condizioni socio-culturali che non lo permettono, e spesso sono stati educati in altre tradizioni religiose. Per essi la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito santo: essa permette a ciascuno di giungere alla salvezza con la sua libera collaborazione. Per questo il Concilio, dopo aver affermato la centralità del mistero pasquale, afferma: «E ciò non vale solo per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore opera invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti, e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò, dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale»19.
Ma proprio per questo il pontefice polacco, che lungamente ha percorso tutte le latitudini del globo terraqueo, ha poi proseguito:
Che dire allora delle obiezioni, già ricordate, in merito alla missione ad gentes? Nel rispetto di tutte le credenze e di tutte le sensibilità, dobbiamo anzitutto affermare con semplicità la nostra fede in Cristo, unico salvatore dell’uomo, fede che abbiamo ricevuto come dono dall’alto senza nostro merito. Noi diciamo con Paolo: «Io non mi vergogno del Vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede». (Rm 1,16) I martiri cristiani di tutti i tempi anche del nostro hanno dato e continuano a dare la vita per testimoniare agli uomini questa fede, convinti che ogni uomo ha bisogno di Gesù Cristo, il quale ha sconfitto il peccato e la morte e ha riconciliato gli uomini con Dio. Cristo si è proclamato Figlio di Dio, intimamente unito al Padre e, come tale, è stato riconosciuto dai discepoli, confermando le sue parole con i miracoli e la risurrezione da morte. La chiesa offre agli uomini il Vangelo, documento profetico, rispondente alle esigenze e aspirazioni del cuore umano: esso è sempre «buona novella». La chiesa non può fare a meno di proclamare che Gesù è venuto a rivelare il volto di Dio e a meritare con la croce e la risurrezione, la salvezza per tutti gli uomini. All’interrogativo: perché la missione? noi rispondiamo con la fede e con l’esperienza della chiesa che aprirsi all’amore di Cristo è la vera liberazione. In lui, soltanto in lui siamo liberati da ogni alienazione e smarrimento, dalla schiavitù al potere del peccato e della morte. Cristo è veramente «la nostra pace», (Ef 2,14) e «l’amore di Cristo ci spinge», (2 Cor 5,14) dando senso e gioia alla nostra vita. La missione è un problema di fede, è l’indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi. La tentazione oggi è di ridurre il cristianesimo a una sapienza meramente umana, quasi scienza del buon vivere. In un mondo fortemente secolarizzato è avvenuta una «graduale secolarizzazione della salvezza», per cui ci si batte, sì, per l’uomo, ma per un uomo dimezzato, ridotto alla sola dimensione orizzontale. Noi invece, sappiamo che Gesù è venuto a portare la salvezza integrale, che investe tutto l’uomo e tutti gli uomini, aprendoli ai mirabili orizzonti della filiazione divina. Perché la missione? Perché a noi, come a san Paolo, «è stata concessa la grazia di annunziare ai pagani le imperscrutabili ricchezze di Cristo». (Ef 3,8) La novità di vita in lui è la «buona novella» per l’uomo di tutti i tempi: a essa tutti gli uomini sono chiamati e destinati.
Tutti di fatto la cercano, anche se a volte in modo confuso, e hanno il diritto di conoscere il valore di tale dono e di accedervi. La chiesa e, in essa, ogni cristiano non può nascondere né conservare per sé questa novità e ricchezza, ricevuta dalla bontà divina per esser comunicata a tutti gli uomini. Ecco perché la missione, oltre che dal mandato formale del Signore, deriva dall’esigenza profonda della vita di Dio in noi. Coloro che sono incorporati nella chiesa cattolica devono sentirsi dei privilegiati, e per ciò stesso maggiormente impegnati a testimoniare la fede e la vita cristiana come servizio ai fratelli e doverosa risposta a Dio, memori che «la loro eccellente condizione non è da ascrivere ai loro meriti, ma a una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, lungi dal salvarsi, saranno più severamente giudicati»20.
Ivi 11
E nessuno vorrà obiettare, a questo punto, che “John non era cattolico”: se c’è un ecumenismo del sangue, come Papa Francesco ha ripetuto in ormai molte occasioni, esiste pure un ecumenismo della missione, che quando nell’altro è suggellato trova una garanzia indubitabile.
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Solo Dio sa che cosa accadrà ora su quell’isola: già fra gli autoctoni, che John Allen Chau descrisse come non uniformemente ostili alla sua presenza; e poi a quanti riceveranno nelle ossa il sacro fuoco che spinse lì il primo martire di quel pugno di sabbia nell’oceano indiano.
Un cittadino americano, in parte irlandese, in parte nativo americano e in parte africano e in parte cinese e del sud-est asiatico.
Così si vedeva il giovane missionario social venuto dall’Alabama: figlio di molti popoli colonizzati e di qualche popolo emigrante. E nella sua personale preghiera eucaristica – non ricorderemo che gli astanti al martirio di Policarpo sentirono “profumo di pane” mentre le carni del vecchio vescovo bruciavano? – il giovane scriveva:
Dio, ti ringrazio di avermi scelto prima che io fossi anche solo formato nel grembo di mia madre per essere il tuo messaggero, il messaggero delle tue buone notizie alla gente di North Sentinel Island.
E facilmente un giorno leggeremo queste parole – forse non noi ma i nostri figli – incise sulla pietra in un santuario su quell’isola. I missionari ci ridestano per conto di Dio, il quale non ci imputa la colpa di esserci dimenticati di North Sentinel Island fino ad oggi; da ora in avanti, però, potremo scegliere come stare di fronte a quei fratelli e alle nostre responsabilità nei riguardi loro e del Signore. Quindi dovremo farlo.