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Ho scelto di scovare e gustare la mia porzione di felicità

RAGAZZA, SORRISO, CIELO
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Il peso specifico delle parole - pubblicato il 07/11/18
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Vale la pena mollare la presa sulla nostra mania di controllo e confidare in Chi ha promesso: “Perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”

Uno dei momenti più belli della mia giornata è quando dedico a me stessa almeno un’ora per camminare (tranquillo, anche quando torni a casa te è un bellissimo momento, ma per quest’articolo è necessario che mi concentri su quest’altro). Quando cammini non so se ti si svuota o ti si riempie la testa, a me succedono tutte e due le cose. Su una cosa sono certa: mentre cammini, metti a fuoco. Metti a fuoco la tua vita e la consapevolezza di viverla e non sono quasi mai la stessa cosa. Spesso la nostra vita è da un lato e la consapevolezza di viverla non solo si trova dal lato opposto, ma a volte non sappiamo nemmeno dove precisamente risieda.


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 Mi è sfrecciato accanto un uomo sulla sedia a rotelle dall’aspetto molto sportivo, lasciandomi indietro di qualche metro abbondante. Ecco la differenza, avere le gambe non significa avere la gioia di uscire e concedersi una passeggiata, e nemmeno avere automaticamente quel portamento aitante. L’errore più comune è quello di pensare che per essere consapevoli basti fare tutto con raziocinio, è l’errore preferito dagli adulti; ci piace così tanto che spesso chi della vita ha una vera e profonda consapevolezza ci sembra un folle, o forse ci suscita solo molta invidia, se siamo davvero sinceri. La capacità di fare ragionamenti è così importante per noi che non ci vergogniamo nel dire che forse quel bambino che non è “tanto normale” non ha diritto a vivere, o che forse la nonna malata non ha senso di essere ascoltata, o che quella che non conosce la storia o non è aggiornata sui fatti di politica non sa vivere. Come fanno ad essere felici, suvvia, pensiamo.

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pixabay

Consegniamo tutta la nostra felicità (questa sconosciuta, la felicità, ultima nella classifica delle nostre priorità) al nostro intelletto. La consegniamo alla nostra capacità di guadagnare, non solo i soldi, ma la stima, l’affetto, l’amore, il riconoscimento. La nostra capacità di prendere decisioni giuste, mirate, oculate e spesso così banali e standardizzate. La nostra capacità di decidere quando amare, chi e come, spesso con così poca passione e così poco slancio da far diventare l’affetto per il nostro cane più importante della relazione con i nostri genitori, solo per fare un esempio. La nostra capacità di sembrare persone tanto brave, quelle di cui si sente “è tanto una brava persona” (da far accapponare la pelle se si pensa che viene ripetuta sempre al TG parlando di uomini che uccidono ad un certo punto le mogli o figli che uccidono i padri, “ma sembrava tanto una brava persona”, ripetono sempre i vicini), sempre centrati, perfetti e grandi conoscitori del nostro essere, da non ascoltare quasi mai la voce che ci dice “buttati in questo progetto, in questa relazione, persegui quell’idea e sii felice”.



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La nostra capacità di essere grandi sostenitori del politically correct, così tanto da non sbilanciarci mai né da una parte, né dall’altra. La nostra capacità di essere equilibrati, di non dare mai troppo a nessuno, peccato che anche noi poi finiamo per rientrare in quel “nessuno” e in sostanza non ci rimane nulla. In questo modo ci sembra di prendere in mano la nostra vita giorno per giorno. In realtà viviamo come se avessimo tutto sotto controllo, tutto in ordine, ma senza godere veramente di quel tutto. “Sì, va beh, insegui questi studi che ti piacciono, ma poi che cosa darai da mangiare ai tuoi figli?”, “sì, ora pensi di essere innamorata e che duri per sempre, ne riparliamo quando non riuscirai a pagare le bollette o quando passerai più tempo con i figli che con lui”, “sì, ora dici che vuoi un bambino, ma fidati che ti cambia la vita e forse non riuscirai più a rientrare in quei jeans”, “fidati, tieniti i soldi da parte e cerca di guadagnare sempre di più, conta solo quello alla fine del mese”.

Che alla società non interessasse realmente della nostra felicità lo sapevo già, ma quello che osserviamo oggi è un fenomeno ancora diverso e molto subdolo: ognuno di noi matura un forte disinteresse per la propria felicità. Non quella degli altri, non quella della persona che vive dall’altra parte del mondo, ma la nostra personalissima porzione di felicità. Abbiamo ripetuto talmente tante volte queste frasi che non ci crediamo più. Non crediamo di esser stati creati per la felicità. Non crediamo di meritarcela e addirittura non crediamo di averne bisogno. Ci vuole coraggio ad essere felici, a scegliere la felicità, è vero. Ma ce ne vuole ancora di più per ammettere di essere infelici. “Sono in crisi”, “è un periodo nero”, “guarda intorno quanto schifo”, “il futuro è incerto”. Tutte frasi che nascondono una profonda verità, crudele forse, ma vera, sincera e necessaria: io non sono felice.

FRUSTRATION

Vmaslova – Shutterstock

Oh! Finalmente una presa di coscienza che riguardi noi stessi e che ci responsabilizzi un po’. Con tutte queste frasi tendiamo sempre ad uscire da noi, a giustificarci, ad ingannarci. Io non sono felice è la frase chiave per iniziare a scoprire la felicità. Io non sono felice significa ammettere che forse dobbiamo guardarci dentro e smetterla di pensare che siamo solo pieni di ragionamenti e nozioni imparate a memoria o ripetute per sentirci meglio. Io non sono felice significa iniziare ad avere consapevolezza della nostra vita. Forse facciamo lavori che non ci piacciono, forse non abbiamo accanto la persona perfetta, forse vorremmo avere un tipo di fisico che non avremo mai, forse non ci sentiamo voluti bene, forse ci sentiamo trascurati. Forse abbiamo dietro di noi un passato minaccioso. Ma esistiamo, viviamo, o perlomeno ancora siamo qui e abbiamo la nostra porzione da scovare e gustare. 

“L’intuizione è un mezzo di conoscenza della verità ben superiore alla ragione”, lo dice Henri Bergson. A memoria avevo scritto “superiore alla ragione”, invece a cercare la definizione completa ho scoperto che addirittura ci ha voluto mettere davanti un bel “ben”. E le parole non sono mai un caso. Come a dire, è proprio vero che la ragione non è la forma massima di conoscenza che ci è stata data. Utile sì, ma non unica e addirittura secondaria. Non può essere che siamo degli automi portati avanti dal ragionamento e basta. Abbiamo una ben più grande possibilità: quella di ascoltare le nostre intuizioni.


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Tecnicamente non lo so spiegare, non sono in grado, ma è quel momento in cui ci sentiamo dire “ci sta, vai, prova”. Facciamo memoria di quei momenti, perché non è sempre vero che tutto è spiegabile e tutto ha una ragione e una conseguenza logica. A volte sentiamo una spintina nella nostra vita che ci porta chissàdove. Ah, quanto spaventa questa parola, “chissàdove”. Se non ci ricordiamo mai di aver ricevuto questa spinta sforziamoci di pensarci più a fondo, e, se aiuta, andiamo a camminare un po’, può farci tornare la memoria. Forse quando hai scelto l’università contro tutto e tutti, forse anche contro la tua stessa facoltà di ragionare che ti diceva “guarda il mercato del lavoro, non fare scelte azzardate”. Forse quando hai avuto la forza di andare avanti in un progetto, con un esame, con una persona, anche quando gli altri volevano vederti fallire. Forse quando hai detto a quella persona “ti amo”, e magari l’hai detto sapendo che non è una persona perfetta (magari proprio come te…).

Forse quando hai deciso di intraprendere quel progetto “tanto per” e si è trasformato in qualcosa di grande, magari non per gli effetti concreti che ha generato, ma perché ti rende felice. Forse quando hai pagato il tuo primo affitto di casa da solo, ci hai sistemato quella pianta, quella fotografia e di colpo ti sei sentito a casa, con la tua persona o da solo, felice. Forse quando hai risposto a quell’amico che ogni tanto non ti è troppo simpatico, ma hai saputo dargli una parola di conforto, e il bello è che potenzialmente potrebbe essere una parola generatrice di altre intuizioni nella sua vita. Allora l’altro giorno, tra un discorso ed un altro, tra il casino quotidiano della metropolitana e il desiderio di volersi godere a pieno quel dialogo con il proprio fratello e di farne tesoro, è uscita fuori questa parola, forse inventata, forse no, forse l’abbiamo presa da qualcuno o forse no, “darsi in affitto”. Un concetto tutto positivo.

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Photo by Nathan Dumlao on Unsplash

Un concetto semplice, ma complesso e a volte sconosciuto. Significa concedersi la felicità della nostra vita. Non la felicità che vorremmo nella nostra vita, ma quella che è dentro la nostra vita. Qualsiasi cosa ci accada, qualsiasi cosa ci si presenti di fronte, qualsiasi persona conosciamo, a qualsiasi evento assistiamo, diamoci la possibilità di essere felici. Lasciamo aperta quella porticina dell’intuito che ci implora di provarci, di non buttarci giù e di concederci. Di darci. Precisamente di darci in affitto. L’affitto ci pone in una posizione comoda, direi. Certo, non ha nulla di permanente, di sicuro. Ma ti permette di godere di una casa, di abbellirla con quello che puoi, di viverci dentro emozioni, situazioni, sentimenti e di lasciarla un giorno, se e quando vorrai.



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Un godimento temporaneo ma solido. Se ci pensiamo un attimo è proprio come la nostra vita, temporanea, perché finisce, ma solida, perché se crediamo, ci porta alla Vita Eterna, la felicità eterna, se non crediamo sarà solida perché ha avuto un impatto di felicità sulla nostra esistenza e forse anche su quella di qualcun altro. Significa vivere la vita con la consapevolezza che la tua felicità la devi perseguire nel tuo profondo, non la puoi comprare per sempre o prenderci un mutuo. Esercitandoti giorno per giorno, ma che dico, attimo per attimo, scopri che ti concedi alla tua realtà ma non ne rimani schiacciato e oppresso, sei libero di essere felice, sei in affitto. Diamo in affitto la nostra felicità a noi stessi e la nostra vita diventerà lo specchio delle nostre aspettative. Dobbiamo però renderci conto che da quel momento in poi non potremo più trovare scuse al di fuori, ma solo dentro di noi. E allora le aspettative che ho sulla mia vita sono quelle che io stesso proverò a colmare, non la casa, il fidanzato, la sorella o la migliore amica.

Gli obiettivi che mi pongo sono io che devo provare a raggiungerli, non la società, la crisi finanziaria, i soldi che non ci sono o il governo che non va. Se scelgo di amare una persona, sono io che dovrò provare a leggere i desideri del suo cuore e non aspettarmi sempre di essere capito al primo sguardo. Darsi in affitto è l’esercizio quotidiano alla felicità. In fondo quando diceva “questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”, non intendeva dire che dobbiamo lamentarci di quello che abbiamo e troveremo la gioia. Se siamo destinati alla felicità proviamo a vivere come se fosse un nostro diritto e forse la troveremo davvero.


“Beato chi non ha nulla da rimproverarsi 
e chi non ha perduto la sua speranza. […]
Chi accumula a forza di privazioni accumula per altri,
con i suoi beni faran festa gli estranei.
Chi è cattivo con se stesso con chi si mostrerà buono?
Non sa godere delle sue ricchezze.

Nessuno è peggiore di chi tormenta se stesso;
questa è la ricompensa della sua malizia.

Se fa il bene, lo fa per distrazione;
ma alla fine mostrerà la sua malizia.

È malvagio l’uomo dall’occhio invidioso;
volge altrove lo sguardo e disprezza la vita altrui.

L’occhio dell’avaro non si accontenta di una parte,
l’insana cupidigia inaridisce l’anima sua.

Un occhio cattivo è invidioso anche del pane
e sulla sua tavola esso manca.

Figlio, per quanto ti è possibile, trattati bene. […]
Non privarti di un giorno felice;
non ti sfugga alcuna parte di un buon desiderio.”

Sir 14, 2. 4-11. 14.  

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