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«Mia figlia è nata down e i medici non se n’erano accorti»: parla il ministro di Macron

SOPHIE CLUZEL DAUGHTER
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Giovanni Marcotullio - Paola Belletti - pubblicato il 23/10/18
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Forse anche per risollevarsi dallo scivolone diplomatico causato dall’infelice discorso all’Onu, il governo francese ha mandato Sophie Cluzel, Segretario di Stato con delega alle Persone handicappate, a rilasciare in esclusiva per Elle una lunga intervista imperniata sull’evento della nascita di una figlia trisomica. E su quanto nella sua vita è poi conseguito.

Non va tutto bene, per Emmanuel Macron: il suo potere, che pochi mesi fa sembrava adamantino, scricchiola e vacilla sotto mine politiche (le proditorie dimissioni di Gérard Collomb, ministro dell’Interno, tre settimane fa) e la terribile gaffe che la settimana scorsa gli è costato il fortunato trend topic #PostcardForMacron, col quale donne istruite e prolifiche da tutto il mondo stanno sbeffeggiando la sua insipiente dichiarazione sul presunto nesso tra ignoranza e numero di figli.


MACRON, PRESIDENTE, FRANCIA
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Forse proprio per arginare l’effetto di quest’ultimo scivolone il presidente francese avrà concordato con il ministro Sophie Cluzel – che nell’organico di Macron riveste il ruolo di Segretario di Stato con delega alle persone handicappate – un’intervista su Elle (numero uscito in edicola il 19 ottobre e in chiaro sul sito il 22) per mostrare il governo blindato e contemporaneamente inclusivo nei riguardi delle donne prolifiche (e non parliamo del valore aggiunto rappresentato a livello comunicativo dal fatto che Julia, la quarta figlia del ministro Cluzel, sia una trisomica ventiduenne!).


DOWN
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Tralasciamo le valutazioni politiche, che fuori Francia interessano molto meno che nell’Esagono, e attestiamoci sulle interessanti dichiarazioni della donna di governo, introdotta con una (non troppo) elegante sviolinata al Capo dello Stato:

Per Julia e anche al di là di lei, Sophie Cluzel ha fatto della trisomia e dell’handicap il grande impegno della vita. Non ha cessato di fondare associazioni perché i genitori si aiutino a vicenda e militino per il pubblico riconoscimento di queste persone “diverse”. Emmanuel Macron ha reclutato questa militante dal sorriso carismatico. A 57 anni, Sophie Cluzel è Segretario di Stato con delega alle Persone handicappate. Non un ministro come gli altri: il suo dna, quello che anima la sua azione personale e politica da ventidue anni, è Julia. Per la prima volta si racconta.

La prima domanda posta dalla giornalista è una confessione: quando era incinta aveva il terrore che suo figlio fosse handicappato. Chiede alla donna di governo se questo la disturbi.

Posso comprendere la sua domanda, anche se questa paura non mi ha sfiorata neppure una volta. Vengo da una famiglia numerosa, avevo avuto tre figli prima di Julia, con molta facilità e a brevissimi intervalli. Avevo fatto tutte le ecografie, come facevano tutti. Nessuno ha visto niente, nessuno ha scoperto niente. Mai avrei pensato che ci sarebbero stati intoppi. Quando alla nascita ho scoperto che avevo una figlia affetta da trisomia non avevo alcuna idea concreta di ciò che questo significasse, se non che si trattava di una persona che “non poteva essere istruita”: è così che ventidue anni fa – a torto – presentavano la trisomia.

Non solo il ministro di Macron ha quattro figli, di cui l’ultima handicappata, ma addirittura viene «da una famiglia numerosa»: l’intento espiatorio rispetto alla gaffe che ha avuto per effetto #PostcardForMacron è fin troppo evidente, e facilmente si ha un’idea della sofferenza politica del governo se il capo del partito (oltre che dello Stato) ha disposto un diversivo così poco originale ed elegante. Tuttavia, come abbiamo già detto, da questo banale espediente vengono fuori dichiarazioni importanti che potranno avere un interessante peso politico. Riportiamo di seguito qualche altro passaggio dell’intervista.

ELLE: Voglia perdonarmi un’altra domanda sgradevole: che cosa avrebbe fatto, se la trisomia fosse stata individuata prima della nascita?

Sophie Cluzel: Non lo so proprio. Non posso risponderle, perché mia figlia fa parte della mia vita. Ero arrabbiata con i tecnici dell’ecografia e della radiologia: arriva una donna della fine del XX secolo che subisce ogni sorta di esame medico per seguire l’evoluzione di suo figlio – si verifica la lunghezza della tibia, lo spessore della nuca, i segnali cardiaci, viscerali, intestinali… e si tralascia qualcosa di così importante. Sono tornata da loro, più tardi, con le mie lastre e con le ecografie, per capire che cosa era andato storto nei monitoraggi. Non la fecero tanto lunga: sembra che non fosse visibile. La cosa mi ha fatto bene.

ELLE: E come ve ne siete accorti?

S. C.: Mio marito era uscito per annunciare alla famiglia che si trattava di una bambina. Non ci vedevo nulla di strano: aveva l’ittero, come i bambini hanno spesso. Sono rimasta col pediatra e non capivo perché ci mettesse tanto ad esaminarla. Stava delle ore a scrutarle le mani. Uno dei segni della trisomia – allora io lo ignoravo, e Julia non ce l’aveva – è la piega palmare unica (una sola linea nel palmo della mano). Gli ho detto: «Legge la linea della vita?» – scherzavo, mentre l’angoscia cresceva. Era il mio quarto parto, capivo bene che la durata dell’esame non era normale. Quelle ore sono state le più lunghe della mia vita. Lo incalzavo: «Che cos’ha la mia bambina?». Era pietrificato nella sua diagnosi, non riusciva a dirmela. A un tratto di colpo l’ha buttata lì: «Ascolti, sospetto una trisomia». Sono stata sollevata, da quanto pensavo che mia figlia stesse per morire. Gli ho detto: «Ah, vabbe’, se è solo questo…». Poi, cinque minuti dopo, la parola giunse al cervello: “trisomia”… che vuol dire?

ELLE: L’imbarazzo del medico non era il primo segno del fatto che la società non accetta l’handicap?

S. C.: Era un buono a nulla. Dopo la botta glie l’ho detto: «Lei è un buono a nulla. Non è capace di parlarmi con franchezza?». Che fosse così in imbarazzo per dirmi una cosa era terribilmente angosciante per me e assolutamente non coraggioso da parte sua. Me lo sono mangiato. La mia sana collera non è stata inutile: dopo avrebbe seguito una formazione speciale. Quel giorno compresi che c’erano molti progressi da fare sul modo di dire le cose. Uno sta di fronte a un dottorino avviluppato, coi piedi incrociati, che ti fa stare sulla corda per mezz’ora a mendicare una diagnosi perché non riesce a dire una parola… Ho lavorato sul modo di annunciare l’handicap e sull’accompagnamento dei genitori nelle prime ore. Tirare su un figlio handicappato mette alla prova le risorse.

[…]

ELLE: Qual è la cosa più difficile quando si cresce un figlio trisomico?

S. C.: Una sera Julia mi ha detto: «Ne ho abbastanza degli sguardi strani nella metro». Le ho risposto: «Sono strani perché non sono abituati a vedere dei giovani trisomici autonomi come te, con un computer portatile nello zaino». La trisomia è anzitutto una deficienza intellettuale, aggravata da una riconoscibilità a prima vista. Da una parte è più facile che con una deficienza intellettuale lambda: la trisomia si vede immediatamente. Un insegnante si sentirà più a suo agio con una persona trisomica che con qualcuno il cui deficit intellettuale è invisibile. D’altra parte, la gente si ferma alle caratteristiche fisiche e non capisce quale persona vi sia dietro.

ELLE: Julia mi sembra particolarmente spigliata. Quanto deve alla vostra educazione?

S. C.: Mi ricordo la mia prima consultazione a un professore specialista in trisomia. Mi ha detto: «Vogliamo che Julia sia una piccola Cluzel, prima che una trisomica». L’educazione e la stimolazione alleviano enormemente l’handicap iniziale: un bambino si farà accettare tanto più quanto più sarà stato tirato su bene e nell’attenzione agli altri. Ho badato che Julia avesse un’educazione del tutto ordinaria – asilo, scuola, liceo – perché è il passaporto per essere accettati nella vita quotidiana. Due giovani trisomici dalle performances intellettuali identiche ma che non sono cresciuti allo stesso modo non hanno niente a che vedere (e per fortuna). Julia ha un’educazione Cluzel: ha la relazionalità, l’empatia, lo humour Cluzel – quello di suo padre. Ed è accolta nelle cerchie dei suoi fratelli e sorelle, molto vicini per età e che si occupano parecchio di lei. La sua stimolazione quotidiana è la nostra fortuna.

ELLE: Ma soffre della sua differenza?

S. C.: Nel complesso no. Ha dei momenti di malinconia, come tutti. Alle volte mi dice: «Non ce la faccio più, non ci riuscirò mai». Ma sta bene nei suoi panni, ha una buona immagine di sé, pur essendo cosciente delle difficoltà. Questo fa parte del lavoro di accompagnamento: far accettare loro di essere aiutati.

ELLE: Quali sono i limiti della sua autonomia?

S. C.: Lavora. Quando era al liceo professionale, quattro anni fa, ha fatto uno stage all’Eliseo (sotto François Hollande), al servizio dell’argenteria e dei coperti. Ci va ancora, due giorni a settimana, e il resto del tempo lavora in un cafè che ha la particolarità di impiegare diversi camerieri handicappati. Da quando sono ministro ho meno tempo per lei, e lei ne ha guadagnato in autonomia. Ma non ha voglia di andare a vivere da sola, e stiamo pensando a una collocazione con altre persone handicappate. Le maggiori problematiche per lei restano l’alimentazione – non riesce a regolarsi –, la gestione delle finanze e il costante affaticamento legato alla trisomia, che complica le attività professionali e sportive.

Le ultime domande sono più schiettamente politiche: Cluzel racconta come è entrata nell’entourage di Macron e quali siano i piani politici per l’avvenire. Interessante quanto dichiara in tal senso:

Non ci sarà mai una “Legge Cluzel”, ma tante “pastiglie handicap” in ogni campo: ci sono più di dieci milioni di persone handicappate, in Francia, e un francese su cinque è sfiorato dall’handicap. […] Invece di stigmatizzare l’handicap con una politica a parte, come si faceva prima, irrigheremo tutti i ministeri delle specificità dell’handicap – un totale cambiamento metodologico. […] Le persone handicappate non saranno più oggetti di assistenza, ma soggetti di diritto.

Anche un brano parlato ha la sua intonazione. E questo della signora Ministro sembra in Do maggiore. Di sicuro non è il mi bemolle da Notturno che di solito si riconosce già nelle prime battute di chiunque si accinga a parlare di handicap, di minorità intellettiva, di integrazione. Assume subito una posa di dolente comprensione, di commossa e solidale vicinanza, almeno il tempo dell’intervista. Io che sono una mamma di un figlio disabile ho trovato il piglio della Cluzel salubre e necessario come una ventata prepotente di inizio autunno. Sembra le sia rimasta in corpo una certa dose di adrenalina da parto, sebbene l’ultimo, quello di Julia, risalga a 22 anni fa.


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E anche l’inceppamento del protocollo deputato al controllo qualità sui nascituri che l’ha costretta a non interrogarsi sul dover tenere o buttare quella quarta figlia difettosa è un evento così provvidenziale del quale lei sembra voler cogliere un frutto per tutti. E vista la sua posizione, tradurlo nelle sue azioni amministrative.

Le persone handicappate ci sono e – dal momento che ci sono e sono anche tante – conviene che se ne tenga conto sempre e non solo quando il fastidio per la loro esistenza cerchiamo di camuffarlo in trattamenti speciali, in celebrazioni della loro diversità tanto bella, tanto speciale tanto, tanto di esempio.


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Poco tempo fa la nostra Nicole Orlando, con sua madre, è andata ad incontrare medici, ostetriche e un genetista islandesi per capire come mai avessero questa determinazione a farli fuori. E alla fine dell’intervista la madre di Nicole riconosce che è stata una vera grazia non aver potuto decidere. Nicole c’è, e ora che c’è come si può dire che non sarebbe dovuta nascere? Una madre dovrebbe tremare al pensiero che le venga messo in mano un detonatore così potente.


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Le persone disabili ci ricordano sfacciatamente che l’intera avventura umana, tutta l’organizzazione della nostra vita insieme sono e devono restare una approssimazione. Non ci servono paradisi in terra, basterebbero un certo numero di Ministri Cluzel.

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