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San Francesco d’Assisi spiega il significato del Padre Nostro

SAINT FRANCIS
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Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 04/10/18
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La scoperta recente in un manoscritto del 1200 attribuito al “poverello”. Ogni frase della preghiera è commentata da “quattro voci”

Un manoscritto della prima metà del 1200. Probabilmente appunti di un testo che era destinato ad essere un’omelia, una predicazione orale e pubblica sul testo del “Pater Noster”. L’autore di questo testo potrebbe essere San Francesco d’Assisi.

La scoperta è recente e la illustra Dominique Poirel nel volume “Commento al Padre Nostro” (Edizioni San Paolo). Il testo si compone di otto sezioni, separate da numeri in cifre romane. Ogni sezione appare commentata da “quattro voci” diverse: la voce dell’uomo colto, la voce del Signore, la voce dei peccatori, la voce dell’autore o predicatore.

Questa è una “formula narrativa” per arrivare in modo più incisivo alla platea degli ascoltatori dell’omelia. Uno stratagemma dell’autore del testo che, ricordiamo, potrebbe essere San Francesco. Ed ora veniamo alla “spiegazione” della preghiera del Padre Nostro.

ST FRANCIS,STATUE

PD

“Padre nostro che sei nei cieli”

Nella formula d’apertura, la voce del “colto” illustra la citazione iniziale della preghiera nelle Sacre Scritture.

Poi interviene il “predicatore”, che da un lato è estasiato dalla misericordia di Dio si lascia chiamare «Padre» dai peccatori; dall’altro deplora l’indurimento dei peccatori che «disprezzano» e «bestemmiano» Dio, senza compiere le buone azioni che Lui chiede.

A quel punto prende la parola il Signore per lasciare esplodere la sua collera e i suoi rimproveri: questi nomi di «Signore» e di «Padre» che gli uomini gli indirizzano sono delle bugie perché, disprezzandolo e disonorandolo, trascurano di compiere le opere di Dio. Sono dunque figli non suoi, ma del diavolo. Dove sono infatti il rispetto che i figli testimoniano al loro padre, il rispetto e il timore che i servi riservano al loro Signore? 

Tuttavia – e qui si apre la possibilità del perdono – i peccatori possono lavarsi e purificarsi, mutando le loro azioni cattive in opere buone.


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“Sia Santificato il tuo nome”

L’uomo “colto” introduce la spiegazione di questo passaggio. Chiedere che il nome di Dio sia santificato consiste nel pregare che gli uomini partecipino della sua santità, secondo la parola della Scrittura: «Siate santi, poiché io sono santo» (Levitico 19,2; 1 Pietro 1,16).

Subito cominciano i rimproveri del Signore. Questo «nome», Cristo, di cui i cristiani chiedono la santificazione, lo hanno ricevuto grazie al battesimo, che li ha resi «cristiani», cioè «di Cristo». Ma questo nome, che era diventato il loro, lo hanno poi «insudiciato», lo hanno addirittura «bestemmiato», compiendo azioni indegne del nome di cristiani. Come possono dunque fare questa richiesta: «Sia santificato il tuo nome»?

Dopo il rimprovero viene l’appello alla conversione. Entra in gioco l’autore-predicatore citando una frase del profeta Malachia quando afferma che il nome del Signore «è grande tra le nazioni», cioè «tra i penitenti». In altri termini, i peccatori possono riparare l’affronto che hanno recato a questo nome pentendosi delle proprie colpe.


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“Venga il tuo regno”

Nelle altre due “richieste” della preghiera, “Venga il tuo regno” e “Sia fatta la tua volontà”, si alternano sempre le spiegazioni dell’ “uomo colto”, i richiami del “Signore”, gli ammonimenti ai “peccatori” e le aperture al perdono enunciate dall’ “autore-predicatore”.

Per entrare a far parte del regno di Dio, spiega l’uomo “colto” bisogna imitare i santi: lottare quaggiù, vincere il mondo e compiere la giustizia. Altrimenti, i cristiani sono come l’invitato della parabola che era alla festa nuziale senza l’abito adeguato e perciò fu gettato fuori nelle tenebre; sono come quell’ipocrita che non toglie la trave dal proprio occhio; sono come il tipo che il Signore esclude dal Regno, perché non ha compiuto le opere di misericordia: vestire gli ignudi, dare da mangiare agli affamati ecc.

Tuttavia a loro è concesso un tempo per fare penitenza: ne approfittino prima che sopraggiunga improvviso il giorno del giudizio, descritto nelle parole del profeta Sofonia, che saranno in seguito quelle del Dies irae: «Questo giorno, giorno d’ira, di calamità, di sventura, giorno di nubi, di tromba e di strepito […]»!.



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«Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»

La terza richiesta prega che la volontà divina si realizzi tra gli uomini, in modo tale che mettano in atto il doppio comandamento della carità, cioè amare Dio più di se stessi e amarsi gli uni gli altri.

Ecco il punto di arrivo. Tuttavia, replica il Signore, «la mia volontà non è in voi», nel senso che non è interiorizzata. La vostra fede infatti non è duratura, non regge la prova della tentazione. Per descrivere l’ingratitudine degli uomini verso di sé, il Signore riprende le parole di Isaia, all’inizio del suo libro: «Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi mi hanno disprezzato. Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo signore, ma Israele non mi conosce, il mio popolo non mi capisce» (Isaia 1,2-3).

Ancora una volta il monito è nei confronti degli uomini peccatori. E anche in questo caso l’autore-predicatore si meraviglia della Misericordia divina che apre le porte al perdono.


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«Dacci oggi il nostro pane quotidiano»

Questa sezione del commento al Padre Nostro si apre con la descrizione di Cristo in croce. Il Signore ammonisce i peccatori: «Perché mi chiedete il pane quotidiano? Eccomi, pendente sulla croce». Questo rimprovero ricorda la devozione di Francesco per la passione di Cristo (…).

Alla fine, con severità i peccatori sono paragonati a cani incapaci di latrare, facendo il verso a un passaggio di Isaia. Per i peccatori è l’occasione di disarmare la collera divina: sì, dicono, siamo dei cani affamati, ma proprio per questa ragione dacci il nostro pane quotidiano, perché «persino i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni» (Matteo 15,27).


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«Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori»

I debiti che si tratta di rimettere, spiega prima il “colto”, sono elencati in ordine di gravità: le buone azioni che i cristiani si sono impegnati a compiere al momento del battesimo e che hanno trascurato di compiere; poi, i loro peccati; infine, i loro misfatti. Dunque, di tutto ciò i peccatori chiedono a Dio di rimettere loro il debito.

A quel punto la parola passa ai peccatori che confessano il loro torto verso Dio e poi implorano il suo perdono.


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«E non ci indurre in tentazione»

La sesta richiesta, “E non ci indurre in tentazione”, è così spiegata dal “colto”: «Non permettere che siamo vinti dal diavolo tentatore e rivestiamo la sua potenza». Essa poi è prolungata da diverse citazioni della Scrittura che fanno risuonare questa richiesta come un appello in aiuto dei peccatori, i quali corrono il pericolo di essere sommersi dalla tentazione come da una tempesta troppo forte.

Il Signore risponde loro con durezza, rimproverandoli di non averlo assistito nelle sue tentazioni, ma già l’accusa si è mitigata: adesso i peccatori sono assimilati a Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre apostoli che avevano accompagnato Cristo nel giardino del Getsemani e si erano addormentati per la stanchezza, invece di sostenerlo nella sua agonia. Il Signore rivolge ai peccatori le stesse raccomandazioni che aveva indirizzato ai tre apostoli, per non entrare in tentazione: «Alzatevi, vegliate e pregate» (Luca 22,46 + Marco 14,38).


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«Ma liberaci dal male»

L’ultima richiesta, «Liberaci dal male», dà luogo a una dotta chiosa sul termine «male»: si tratta di ogni peccato e del diavolo nel giorno del giudizio.

Il testo termina così con una sorta di unisono tra tutte le voci, poiché l’autore e i peccatori fanno proprio il discorso di Cristo. La tensione iniziale tra un Dio corrucciato e dei peccatori impenitenti si è poco a poco placata: di richiesta in richiesta si vedono i peccatori convertirsi e il Signore intenerirsi.


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