Un passato da solista, una passione per il gospel e la lirica, l’esperienza di The Voice con Piero Pelù. Ma ora il talento di Silvia De Santis si unisce a quello di Farian e Fax in una band pop rock sorprendente che ha aperto il concerto di James Blunt al Pistoia Blues
Conosco la voce di Silvia De Santis da molti anni, mi emoziono ogni volta ad ascoltarla. L’ho incontrata perché volevo che raccontasse cosa significa vivere di musica, un mestiere che non è solo appalusi e palcoscenici. Il progetto di cui ora fa parte è una band musicale chiamata Five To Ten … un nome che nasconde un significato stimolante; il loro disco si chiama Stupid Now e mi ha fatto scoprire che “stupore” e “stupidità” hanno la stessa origine. In un mondo che venera la seriosità ingessata, abbiamo bisogno di apprezzare lo stupore tipico di un bimbo al parco giochi, che salta, balla, gioca e fa anche lo stupido perché prende sul serio una risata.
Buongiorno Silvia, racconti ai lettori di Aleteia For Her chi sono i Five To Ten?
Siamo una band e siamo amici da tantissimo tempo. Io sono Silvia De Santis, la voce; poi c’è Fabio “Farian” Biffi al pianoforte e Fabio “Fax” Fenati alla batteria.
Five To Ten letteralmente significa “5 alle 10”, cioè cinque minuti alle 10: un orario, ecco. Noi ci sentiamo quei 5 minuti che mancano per arrivare al numero 10, che molto spesso assume un valore di perfezione (il bomber nel calcio, il voto massimo a scuola). Questo numero perfetto noi non lo raggiugeremo, noi siamo cinque minuti indietro. Abbiamo la tensione di arrivare.
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L’imperfezione non è per forza negativa, e poi penso a San Paolo che dice “dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta” …
Essere cinque minuti indietro significa essere stimolato verso l’ideale, non smettere di avere voglia di fare. Avere un obiettivo grande, darsi da fare e crescere.
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In un mondo di solisti e prime donne, voi siete un gruppo. E, faccio l’avvocato del diavolo, tu avevi tutte le carte in regola per essere una diva solista…
Sono convinta che le cose più preziose nascano dal lavoro di squadra, e anche dietro un solista c’è spesso un grande lavoro di squadra. Però – per il tipo di carattere che ho e per il senso di collaborazione che ho – mi trovo a mio agio in una band, fermo restando che reclamo per me il ruolo di prima donna della mia band! (ride tantissimo ndr). Il cantante è in prima linea, è normale che sia così; però sono felice quando il pubblico ci dice che noi tre siamo fatti per stare insieme. Sento che c’è un bisogno nostro, reciproco, di stare insieme e di fare musica insieme: ciascuno di noi ha un background molto ricco e dal lavoro comune si impara molto.
Ci ha guadagnato anche la tua persona dal gruppo?
Ho alle spalle una lunga esperienza da solista e mi rendo conto che ero più altezzosa da sola, probabilmente per difesa. Insieme a Fax e Farian sono molto più rilassata, perché il peso di tutto si divide. Anche il genere musicale che facciamo aiuta in questo. I generi musicali li ho provati tutti, è stato un viaggio: ho cominciato da piccolissima con il canto gospel, che ha una dimensione corale; ho proseguito poi con il soul e il jazz che nasce nelle cantine e nei posti più semplici del mondo eppure diventato molto esclusivo; poi mi sono diplomata in canto lirico. Fax e Farian mi hanno donato il frutto della loro formazione, aiutandomi a colmare i buchi di conoscenze che avevo; anche questo è un guadagno del gruppo: completarsi.
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Ad un mondo sempre molto molto serio, voi proponete un album che si intitola Stupid Now. Che valore aggiunto ha l’essere un po’ stupidi?
Non è una lode alla stupidità come ignoranza, il lato bello della stupidità è la voglia di ridere. Questo disco per noi è stata una necessità, lo dico sempre nei concerti, abbiamo cancellato tutti e tre il nostro passato e i tentativi fatti. E’ stato come prendere un libro nuovo e scriverlo da capo, da cosa partire? Volevamo che fosse un inno alla positività sorridente della bellezza.
Penso al richiamo di Gesù sul tornare bambini, che è un richiamo allo stupore … che guarda caso ha la stessa etimologia di stupido.
Esatto ed è quello che meglio racconta anche il rapporto con la nostra famiglia, perché dietro una band c’è una crew ed è tutt’uno con noi.
Massimo Piccoli è il nostro personal assistant, cioè quello che fa proprio tutto. Ogni mamma dovrebbe averlo! Poi c’è Marco Veneri che è il nostro fotografo e Laura De Santis, mia sorella, è diventata la nostra promoter. Infine ci sono Michela e Giulia che si occupano delle piccole cose necessarie, anche di un supporto emotivo per noi: è necessario avere persone che ti tengano la mano e abbiamo il grip sul presente, sul terreno.
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Quali finestre sulle emozioni avete voluto aprire coi vostri 10 brani inediti?
Molti brani sono autobiografici, che non vuol dire essere egocentrici: si racconta un vissuto personale che tocca corde comuni a tutti. Altri brani nascono, invece, per lanciare un messaggio. Right Thing è un invito a essere se stessi in modo intelligente, cioè a non rinunciare a se stessi; nel contesto lavorativo e anche in quello affettivo annullarsi non è la strada giusta. E’ un inno alla positività di chi sei: lascia cadere le maschere e fai vedere il tuo volto. You know racconta un altro percorso di incontro; nella canzone elenco una serie infinita di difetti ma per dire che ci accomunano; i punti deboli tuoi sono i miei, guardare i limiti dell’altro è guardarsi allo specchio … fare i conti con se stessi.
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Poi c’è un’altra canzone che a me è piaciuta tanto, Superhero. Chi sono i supereroi?
La canzone è nata perché amiamo, tutti noi tre, i supereroi della Marvel e abbiamo pensato a questo pezzo come colonna sonora da film. Il supereroe è una figura bellissima, perché ha un potere e lo usa per salvaguardare le persone più deboli. Però nel brano noi vogliamo raccontare il concetto normale di supereroe, è il tuo vicino e non lo sai. Il supereroe siamo tutti, quando veniamo sorpassati in mille modi eppure non smettiamo di lottare per un ideale. Un altro aspetto è il silenzio: il supereroe protegge chi ha bisogno e lo fa silenziosamente.
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Ti viene facile scrivere e pensare in inglese?
Sì, per i generi musicali che ho frequentato, l’inglese è la prima lingua che ho ascoltato: il gospel, il jazz, il soul sono le pareti della casa in cui sono nata. Ridendo, dico sempre ai miei genitori che hanno sbagliato nazione, la cicogna ha fatto confusione con la geografia. La scelta di fare un disco con inediti in inglese è stata fatta di comune accordo col nostro produttore artistico, Pietro Foresti, che ha un passato di lungo lavoro in America: volevamo dare un carattere internazionale al nostro progetto; siamo contentissimi di essere italiani, ma il pensiero è stato quello di essere aperti a portare la nostra musica oltre i confini del nostro paese.
In un’intervista vi hanno chiesto qual è il primo strumento che avete preso in mano e tu rispondi: la voce.
Ma non è uno strumento la voce! … ti dicono. Invece è proprio uno strumento, primordiale e interno; ed è perciò delicatissima perché subisce il minimo stress. Ho molto rispetto della mia voce. Ed è uno strumento che è cresciuto con me, ho cominciato a cantare che ero davvero molto piccola.
È come avere a disposizione una tavolozza di acquerelli, quando sei piccolo usi solo i colori primari e poi la vita di insegna a fare le miscele giuste, più passa il tempo più emergono le sfumature.
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Ne avevamo già parlato io e te di questo, anni fa. Torniamoci su: studiare dà la libertà. Che paradosso, perché adesso è pieno di gente che dice che il proprio talento è improvvisato, spontaneo…
Uno è libero di credere che improvvisato sia sinonimo di libertà, però il chirurgo studia anni per operarti a cuore aperto. Perché tu, che sei cantante, non dovresti farlo e acquisire gli strumenti che ti permettono molta più libertà? Confondere artistico con istintivo non è giusto, anche se l’intinto è qualcosa di fondamentale nell’arte; ma la tecnica è il mezzo per tirare fuori nel miglior modo possibile il mondo che hai dentro.
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Lo scorso 13 luglio al Pistoia Blues avete aperto il concerto di James Blunt, com’è andata? L’emozione è tutto e l’emotività non deve prevalere, come si fa?
Eravamo davvero contenti come dei bambini e l’emotività non mi ha ostacolata. Abbiamo visto un palco di 22 metri e tecnici preparatissimi a nostra disposizione: era il nostro ballo delle debuttanti. Ci siamo arrivati dopo così tanta fatica che ci siamo giocati il mille per cento. Il pubblico toscano è tosto, però li abbiamo conquistati in fretta e non è scontato: non solo non ci conoscevamo, ma il nostro disco è fatto di inediti, quindi non conoscevano neanche i pezzi. Dopo il primo brano, erano con noi. Diciamo che siamo molto convincenti.
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Apriamo la parentesi talent-show. Anni fa hai conosciuto il mondo di X Factor, poi più recentemente hai partecipato a The Voice nel team di Piero Pelù. Il talento e la fama (o il successo) vanno di pari passo? Mi dici la tua esperienza?
The Voice è stata una bellissima esperienza che rifarei. Sono stati Farian e Fax a convincermi ad andare, io avevo inizialmente rifiutato.
Facevo fatica ad avvicinarmi all’idea, perché si è intimiditi e insieme sfiduciati dal talent show: c’è talmente tanta richiesta, che la dinamica per forza è quella del “fuori uno, avanti un altro”. Questo è l’aspetto meno piacevole, però io sono stata molto fortunata perché ho incontrato un buon coach, Piero Pelù. Lui è una persona bella, e semplice e disponibile. Cinque mesi dopo la fine del programma, quando nulla era più dovuto, Piero è stato disponibile a incontrare me e tutta la band per parlare del progetto musicale che stavamo cominciando. Ci ha ospitato con un entusiasmo brillante.
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Torniamo al programma…
Il talent show è fatto per il grande pubblico, sono spettacoli televisivi. La televisione nel nostro mestiere è uno strumento importantissimo ed è un meccanismo preparatissimo: nulla è casuale, dentro questa preparazione studiatissima ci sta il fatto che si preferisca esaltare la cosa strana anziché la cosa bella, la figura che fa scalpore anziché la semplicità. Fa parte del gioco e bisogna metterlo in conto.
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Da spettatrice semplice di talent show, vedo molti giovani in cui s’intravede il seme di un talento e cha vanno alla trasmissione facendo dipendere dall’esito dello spettacolo il senso del loro destino. Posso chiederti una riflessione su cosa è il talento secondo te?
Di persone capaci di avere un talento pazzesco associato alla genialità ne nasce una ogni chissà quanto … Mozart era supertalentuoso ed era anche un genio. Quanti Mozart ci sono? C’è lui. Bisogna avere l’umiltà di mettersi a capire il dono bellissimo con cui nasci. Perché ho questo talento? Cosa ne faccio? Come lo aiuto a crescere?
Pensavo alla parabola dei talenti, che ci suggerisce che il dono ricevuto va a sua volta donato perché fiorisca davvero, non lo si deve sotterrare o venerare e basta.
Questo lavoro è tosto, perché è un dono totale di sé: ci si mette a nudo. A fronte di questa condivisione totale, si può essere fraintesi o non capiti affatto. Ed è la cosa più spiacevole per l’artista; di contro, quando qualcuno ti capisce, il cuore si spalanca: aspetti un volto che comprenda, perché hai dato tutto di te.
E lungo questo viaggio non siamo soli. Io ho un porto e una carovana che mi accompagnano. La mia famiglia è il porto che c’è sempre stata e a cui ritorno alla fine di ogni esperienza, positiva o negativa; e poi c’è il gruppo, la crew, con cui siamo on the road e quella è proprio la carovana che rimane e fa i passi insieme a noi quando gli affetti familiari sono lontani. Di loro posso solo dire che ci sono, senza aggiungere altro. In fondo quando certe persone sono davvero indispensabili, dire che “ci sono” senza troppe altre spiegazioni è tutto.
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