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Niente più “Esortazioni Apostoliche postsinodali”: qualche ritocco addotto da Papa Francesco al Sinodo

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 19/09/18
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Il 15 settembre Papa Francesco ha firmato una Costituzione Apostolica che torna a perfezionare lo statuto giuridico del sinodo (nato con Paolo VI al termine del Concilio Vaticano II). Una delle novità più grandi è che – pur restando il Sinodo organo ordinariamente consultivo e di diritto ecclesiastico – ai suoi padri sarà chiesto di giungere a un consenso ancora maggiore, tendenzialmente all’unanimità, così che il Papa possa compiere un’azione eminentemente di garanzia.

È stata resa nota ieri la Costituzione Apostolica di Papa Francesco Episcopalis Communio, che ha ritoccato alcuni dettagli (anche importanti) dello statuto del Sinodo dei Vescovi proprio in vista della XV Assemblea Generale Ordinaria, che si terrà in Vaticano dal 3 al 28 ottobre 2018 sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”.



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Il commento che per primo ho sentito serpeggiare, e anzi mi giungeva come dichiarazione di un prelato, sarebbe stato: «È finita l’epoca delle Esortazioni Apostoliche postsinodali!». Un grido di giubilo difficilmente comprensibile fino in fondo, senza contesto completo, ma che pare alludere alla decisione di Papa Francesco per cui il documento finale del Sinodo diventerà in sé stesso – previa approvazione e ratifica del Romano Pontefice – il testo prodotto dal sinodo, né si dovrà più attendere che il Santo Padre lo recepisca e formuli in seguito un proprio documento (la famosa “Esortazione Apostolica Postsinodale”). Il che è sicuramente vero in tal senso, ma questo non toglie che ordinariamente il sinodo sia e resti un organo consultivo, a norma del Can. 343 (esplicitamente richiamato in Episcopalis Communio):

Spetta al sinodo dei Vescovi discutere sulle questioni da trattare ed esprimere propri voti, non però dirimerle ed emanare decreti su di esse, a meno che in casi determinati il Romano Pontefice, cui spetta in questo caso ratificare le decisioni del sinodo, non gli abbia concesso potestà deliberativa.

Forse se capiamo bene la ratio di questo canone ci equipaggiamo degli strumenti necessari a comprendere il senso del ritocco di Papa Francesco allo statuto del Sinodo: la ragione infatti per cui quest’ultimo non può avere potestà deliberativa è che esso – a differenza del Concilio ecumenico – rievoca e in un certo modo rappresenta la Chiesa universale… però non lo è.


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Questo ci porta a ricordare che cos’è il sinodo e perché Paolo VI volle istituirlo (trattasi infatti di istituto di diritto ecclesiastico): l’esperienza del Concilio aveva significato un momento di forte autocoscienza ecclesiale, e molti Padri conciliari avevano espresso il desiderio di poter avere se non un assetto da “concilio permanente”… perlomeno uno strumento per “mantenere il clima”. Più nel dettaglio, “mantenere il clima” deve intendersi con “sviluppare raccordi costanti e fecondi tra le Chiese particolari e la Chiesa universale”. Che poi è il grande problema di un organismo a vocazione universale in un mondo che, per via dei trasporti e delle comunicazioni, stava rapidissimamente rimpicciolendosi, e nel quale la Chiesa rischiava di rimanere presto costipata come in un abito infeltrito.


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Prima ancora che per i contenuti dei suoi documenti, il Concilio Ecumenico Vaticano II significò la presa di coscienza di ciò: il Vaticano I si era svolto in fretta e furia in una Roma assediata dai bollori risorgimentali italiani; il Tridentino era durato 18 anni, a sbalzi, ed era riuscito in buona parte a non farsi mettere all’angolo dalla Riforma luterana, ma molte delle tematiche poste nei secoli successivi non poterono essere rappresentate; molte delle intuizioni del Sinodo di Pistoia (1786) sembravano preconizzare i temi del Vaticano II, ma i tempi non erano maturi e quel sinodo, comunque “solo” diocesano, venne attratto in un’orbita giansenista. A metà del XX secolo i tempi erano invece maturi e, malgrado gli isterismi di quanti auspicavano che il Concilio si risolvesse in una rapida e mera canonizzazione delle condanne antimoderniste, la Chiesa volle soprattutto guardarsi allo specchio e ricordarsi bene di sé.

Nel solco delle precedenti grandi assisi della modernità, certamente: al Tridentino si era elaborata la figura del prete, soprattutto del parroco, per rispondere a un contesto gravemente corrotto e disordinato in cui già essere in cura d’anime presso un prete non analfabeta, non concubino, non malversatore, era cosa da non dare per scontata; al Vaticano I si era scolpita in caratteri cubitali la supremazia pontificia di fronte alle tendenze moderniste dell’epoca; al Vaticano II si era posto un importante contrappeso ecclesiologico sull’episcopato, e ciò ha comportato una rinnovata comprensione dei rapporti tra Vescovo di Roma e Vescovi cattolici.


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Affrontando infatti “il problema dei Vescovi” dopo il Vaticano I e soprattutto dopo il Vaticano II si è pervenuti a formulare la dottrina dei “due soggetti non adeguatamente distinti”, i quali sarebbero il Romano Pontefice e il Collegio episcopale nella sua interezza, sparso nel mondo così come si trova: tali due soggetti sarebbero i soli titolari, per diritto divino, dell’infallibilità che Dio garantisce alla Chiesa. Il Vaticano I aveva detto che uno di questi due soggetti, appunto il Papa, può appellarsi a tale infallibilità «ex sese, non autem ex consensu Ecclesiæ», ma ciò non significa che il Papa debba o possa andare “contro la Chiesa”quod absit! – bensì che la sua «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale» (Can. 331) non discende neppure dal più alto “contratto sociale” che si possa immaginare, ossia il consenso della Chiesa. Gioverà peraltro ricordare che lo stesso Pio IX non si azzardò a parlare dell’Immacolata senza un ponderoso studio preparatogli da Giovanni Perrone, il quale verificò proprio il consensus Ecclesiæ lungo i secoli.

Oltre al fatto che il Papa può parlare da solo e i Vescovi non possono pronunciarsi senza il primo fra loro, va pure detto che è più facile trovare il Papa da solo che i Vescovi riuniti in Concilio Ecumenico, e per questo motivo si è cercato di pensare a una formula per cui potesse riunirsi periodicamente una buona rappresentanza di tutti i vescovi del mondo. Qui s’innesta un altro “problema” della Chiesa cattolica in età moderna: sebbene al livello ecclesiologico “non esista niente” oltre al livello universale e al livello particolare della Chiesa (e Ratzinger litigò lungamente con Rahner su quale fosse il livello prioritario fra i due), tuttavia la prima esperienza di Chiesa che tutti facciamo, la più prossima, è quella della parrocchia e non quella della diocesi; non solo, ci sono pure i “livelli intermedi”, nei quali le diocesi si consultano e si coordinano (le conferenze episcopali: regionali, nazionali, macroregionali)… tutto questo che cos’è?



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Le Chiese ortodosse soffrono per la mancanza di un vero primus, legittimo e universalmente riconosciuto, però colgono perfettamente l’importanza di questi “livelli intermedi”, che nel loro ordinamento sono le eparchie e i patriarcati. A partire dal Vaticano II la Chiesa Cattolica ha scelto di sviluppare l’istituto della conferenza episcopale (che da principio Roma aveva guardato con forte sospetto, quando ancora era lo strumento dei “preti gallicani”), ancora largamente da definire nei suoi contorni giuridici. Non sfuggirà, del resto, che già in Evangelii Gaudium Francesco lamentasse un grosso vuoto ancora da colmare in tal senso:

Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono «portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente».[36] Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale.[37] Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria.

E come viene composto il sinodo? Sono membri

nominati per la maggior parte dalle Conferenze Episcopali, con la Nostra approvazione, sarà convocato, secondo i bisogni della Chiesa, dal Romano Pontefice, per sua consultazione e collaborazione, quando, per il bene generale della Chiesa, ciò sembrerà a lui opportuno.

Così diceva Paolo VI, e Francesco l’ha ricordato, aggiungendo una sorta di riepilogo delle grandi tappe della storia dell’istituto:

Paolo VI, all’atto di istituire il Sinodo come «speciale consiglio permanente di sacri Pastori», si dichiarava consapevole che esso, «come ogni istituzione umana, col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato»[14]. A tale successivo sviluppo hanno concorso, da un lato, la progressiva recezione della feconda dottrina conciliare sulla collegialità episcopale e, dall’altro, l’esperienza delle numerose Assemblee sinodali celebrate nell’Urbe a partire dal 1967, anno nel quale veniva pubblicato anche un apposito Ordo Synodi Episcoporum.

Anche dopo la promulgazione del Codice di diritto canonico e del Codice dei Canoni delle Chiese orientali, che hanno integrato nel diritto universale il Sinodo dei Vescovi[15], quest’ultimo ha continuato a evolversi gradualmente, fino all’ultima edizione dell’Ordo Synodi, promulgata da Benedetto XVI il 29 settembre 2006. In modo particolare, è stata istituita e via via rafforzata nelle proprie funzioni la Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, composta dal Segretario Generale e da uno speciale Consiglio di Vescovi, affinché la costitutiva stabilità del Sinodo stesso fosse meglio assicurata nel tempo compreso tra le diverse Assemblee sinodali.

In questi anni, constatando l’efficacia dell’azione sinodale di fronte alle questioni che richiedono un intervento tempestivo e concorde dei Pastori della Chiesa, è cresciuto il desiderio che il Sinodo diventi ancor più una peculiare manifestazione e un’efficace attuazione della sollecitudine dell’Episcopato per tutte le Chiese. Già Giovanni Paolo II ha affermato che «forse questo strumento potrà essere ancora migliorato. Forse la collegiale responsabilità pastorale può esprimersi nel Sinodo ancor più pienamente»[16].

Il punto è che, quantunque si tratti di un istituto di diritto ecclesiastico e non divino, il sinodo è uno strumento che la massima autorità legislativa della Chiesa, di diritto divino, ha stabilito per facilitare la comunione tra le Chiese e il buon governo delle varie situazioni in cui versano gli uomini in tutto il mondo:

In tale prospettiva, il fatto che «il Sinodo abbia normalmente una funzione solo consultiva non ne diminuisce l’importanza. Nella Chiesa, infatti, il fine di qualsiasi organo collegiale, consultivo o deliberativo che sia, è sempre la ricerca della verità o del bene della Chiesa. Quando poi si tratta della verifica della medesima fede, il consensus Ecclesiæ non è dato dal computo dei voti, ma è frutto dell’azione dello Spirito, anima dell’unica Chiesa di Cristo»[29]. Pertanto il voto dei Padri sinodali, «se moralmente unanime, ha un peso qualitativo ecclesiale che supera l’aspetto semplicemente formale del voto consultivo»[30].

Ecco, se qualcuno temeva che il sinodo diventasse di fatto un’oclocrazia dominata da correnti – e di correnti ne abbiamo viste, nel corso dei due sinodi sulla Famiglia… – Francesco ribadisce, sulla scorta dei suoi predecessori, che

  1. da un lato non è la maggioranza a orientare il dibattito, ma l’unanimità morale;
  2. dall’altro la prima frase della Costituzione Apostolica ricorda che a manifestarsi nel Sinodo dei Vescovi è «la comunione episcopale con Pietro e sotto Pietro» – un primus c’è sempre, e anzi la tesi di Francesco sembra essere che quanto più il suo intervento sia rarefatto tanto più esso sia moralmente incisivo ed ecclesialmente determinante.

Vediamo come secondo la nuova Costituzione Apostolica dovrebbero svolgersi la redazione e la ratifica del documento:

Art. 17

Elaborazione e approvazione del Documento finale 

§ 1. Le conclusioni dell’Assemblea sono raccolte in un Documento finale.

§ 2. Per la redazione del Documento finale, viene costituita un’apposita Commissione, composta dal Relatore Generale, che la presiede, dal Segretario Generale, dal Segretario Speciale e da alcuni Membri eletti dall’Assemblea del Sinodo tenendo conto delle diverse regioni, cui se ne aggiungono altri nominati dal Romano Pontefice.

§ 3. Il Documento finale viene sottoposto all’approvazione dei Membri a norma del diritto peculiare, ricercando nella misura del possibile l’unanimità morale.

Art. 18

Consegna del Documento finale al Romano Pontefice

§ 1. Ricevuta l’approvazione dei Membri, il Documento finale dell’Assemblea è offerto al Romano Pontefice, che decide della sua pubblicazione.

Se approvato espressamente dal Romano Pontefice, il Documento finale partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro.

§ 2. Qualora poi il Romano Pontefice abbia concesso all’Assemblea del Sinodo potestà deliberativa, a norma del can. 343 del Codice di diritto canonico, il Documento finale partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro una volta da lui ratificato e promulgato.

In questo caso il Documento finale viene pubblicato con la firma del Romano Pontefice insieme a quella dei Membri.

Perché il documento deve partecipare del magistero ordinario del Papa se quest’ultimo vi ha contribuito materialmente quanto gli altri vescovi… o forse anche meno? Proprio perché il sinodo “evoca e rappresenta” la massima autorità della Chiesa ma non lo è, mentre il Papa è uno dei sopra ricordati “due soggetti non adeguatamente distinti”. Se anche non avesse steso una sola riga del documento (ed è cosa non probabile), il suo apporto sarebbe quello del “vescovo tra i vescovi” (etimologicamente, del “super-sorvegliante): «Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come Successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese[29]».



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Chiunque vede bene come questa sia una scelta che cerca d’imprimere anche all’istituto giuridico del Papato una riforma che meglio lo disponga a servire la comunione anche con i fratelli cristiani attualmente lontani da Roma. Lo auspicava Giovanni Paolo II nella Ut unum sint, e Francesco se n’è ricordato nell’ultimo paragrafo introduttivo della Costituzione:

Confido altresì che, proprio incoraggiando una «conversione del papato […] che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione»[40], l’attività del Sinodo dei Vescovi potrà a suo modo contribuire al ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani, secondo la volontà del Signore (cfr. Gv 17, 21). Così facendo esso aiuterà la Chiesa cattolica, secondo l’auspicio formulato anni or sono da Giovanni Paolo II, a «trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova»[41].

“Perfettibilità” è l’altro nome di “imperfezione”, questo è sicuro, e più che l’ordinamento giuridico del sinodo in sé potremo variamente valutare i nomi che compongono le varie commissioni e i rispettivi segretariati del sinodo: forse però dovremmo smettere di favoleggiare di una Chiesa fatta di consenso facile. L’esperienza cattolica dell’evento cristiano dice piuttosto l’inverso, come ricorda anche il motto degli USA “e pluribus unum”: anche i credenti vengono da mille lidi e hanno altrettante esperienze e formazioni; la grazia che piove sulle loro vite li accomuna misticamente e l’incarnazione esige con dolcezza che di questa comunanza le loro vite maturino gli effetti. Quindi vedersi, rivedersi, parlarsi, comprendersi, venirsi incontro alla luce della misericordia che ciascuno di noi ha sperimentato: questa è la via sinodale di tutta la Chiesa, dalle sagrestie parrocchiali alla lanterna di San Pietro.

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