Le divisioni nella Chiesa non sono un problema perché il Cristianesimo consiste proprio nel tenere insieme gli opposti: libertà e obbedienza, egoismo e carità, ricchezza e povertà. Perché solo nell’incontro con Cristo diventa realtà quella speranza che all’uomo appare impossibile (per cui, cari scismatici, fatevene una ragione).
di Giovanna Jacob
Libertà e Obbedienza
Vediamo innanzitutto come può esserci libertà nell’obbedienza. La tradizione cristiana intende la libertà non soltanto come libertà di scelta fra il bene e il male o fra tante cose diverse, ma come felicità. Noi ci sentiamo veramente liberi solo quando siamo felici (viceversa non si può essere felici se si è schiavi di qualcuno o qualcosa). La stessa libertà di scelta noi tendiamo ad utilizzarla in funzione dell’accrescimento della nostra felicità. Fra due o più cose fra cui scegliere, noi normalmente scegliamo quella che, a nostro parere, può garantirci maggiori soddisfazioni. Questo vale sia per la scelta dei vestiti ai grandi magazzini che per la scelta dell’uomo o della donna da sposare. Non conosco nessuno che, fra tanti vestiti o cd musicali, sceglie di comprare quelli che a lui piacciono di meno. Ciò detto, che cosa ci rende veramente felici? Le cose che scegliamo di volta in volta possono darci anche delle grosse soddisfazioni ma non una soddisfazione totale. Molti filosofi antichi e moderni tagliano corto: poiché nulla ci soddisfa mai del tutto, meglio non essere mai nati (da Epicuro a Leopardi è la stessa lagna).
I cristiani ribattono: solo Dio può soddisfare pienamente il nostro desiderio infinito di felicità. Dunque da questo punto di vista la nostra libertà si realizza pienamente solo nel momento in cui abbiamo raggiunto la meta finale del pieno godimento della presenza di Dio, ovvero la beatitudine eterna. Attualmente la nostra libertà, che è ancora imperfetta, consiste nel compiere le scelte che più ci avvicinano a questa meta finale. Dal momento che Dio è il Bene, per tendere a Lui siamo costretti, molto banalmente, a scegliere il bene e scartare il male ovvero ad obbedire alla legge di Dio (qui tralascio il problema troppo complesso del peccato e della redenzione). I dieci comandamenti, che rappresentano la sintesi della legge di Dio, coincidono con i comandamenti della nostra coscienza ovvero con la legge naturale. Nota a questo proposito San Tommaso d’Aquino: “È libero chi esiste per se stesso; è schiavo chi esiste per un padrone.
Chi fugge il male non perché è male ma per comando di Dio, non è libero“. E poi: “Ogni legge disposta dall’uomo ha il carattere di legge esattamente in quanto è derivata dalla legge naturale. Ma se in qualche punto è in conflitto con la legge naturale, essa cessa subito di essere una legge; è un semplice pervertimento della legge”. Anche i temi del sesso, della fecondazione assistita e dell’eutanasia i cattolici non li discutono sul piano teologico ma sul piano della legge naturale. Atei convinti come Giuliano Ferrara credono fermamente che, in era di relativismo e nichilismo, la Chiesa sia rimasta l’unica a difendere l’integrità della legge naturale. La vita umana va difesa fin dal primo istante dal suo concepimento indipendentemente dal credere o non credere in Dio.
Per obbedire a Dio basta dunque obbedire alla legge naturale? In realtà manca una piccola cosa da fare: obbedire al progetto che Dio ha su ciascuno di noi ovvero a quella che la tradizione chiama vocazione. Pur con tutti i distinguo che vanno fatti caso per caso, l’innamoramento è una delle forme più semplici di vocazione. Noi siamo liberissimi di scrollarci di dosso questo sentimento, ma è chiaro che esso ci nasce dentro indipendentemente dalla nostra volontà e ci porta verso qualcuno che magari noi non avremmo neppure scelto. Attraverso questo sentimento Dio ci suggerisce una strada: il matrimonio e la famiglia. Ad altri invece suggerisce, attraverso altri segni, la strada della verginità consacrata. Percorrere la strada che Dio Padre sceglie per noi non è una scelta da schiavi ma da figli.
Il padre sa bene, chiamando il figlio all’esistenza, che collabora all’apparizione di una nuova libertà, che potrà opporsi alla sua, ma che egli spera che, in seno alla sua autonomia, deciderà liberamente di amare colui che l’ha generata. Dio non vuole delle prosternazioni da schiavi, dice Péguy. E nemmeno le vogliono i genitori. (…) Chi oserebbe dire che nello slancio che getta lo sposo e la sposa nelle braccia l’uno dell’altra c’è meno libertà che negli atti della vita dove ciascuno si sforza, da solo, di affermarsi agli occhi del mondo come ‘padrone di sé e dell’universo’? (Charles Moeller, Letteratura moderna e cristianesimo).
Egoismo e carità
Veniamo all’amore e all’altruismo. Cristo non ha detto “Ama il prossimo tuo e non te stesso” (che è la formula dell’altruismo) bensì “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Dunque se non amo me stesso non posso neppure amare il prossimo. Ma che cosa è esattamente l’amore? L’amore comprende innanzitutto dei sentimenti di simpatia e compassione verso gli altri. Se vedo un mio simile che soffre soffro anch’io (compassione significa patire-con) e quindi se lo aiuto a non soffrire più smetto di soffrire anch’io. In questo c’è un fondo di sano egoismo.
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Tuttavia, come tutte le cose naturali, questi sentimenti sono imperfetti e si corrompono facilmente. La carità è come una eccedenza soprannaturale che si insinua in questi sentimenti caduchi. La definizione della carità è: “Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo come te stesso”. Io amo il prossimo perché Dio ama il prossimo dello stesso amore infinito con cui ama me e perché sono destinato a condividere con lui lo stesso destino di felicità eterna. La legge del paradiso è: quanti più siamo a dividere la torta della felicità, tanto più grande è la fetta che tocca a ciascuno. Dice Dante che in paradiso
per quanti si dice più lì ‘nostro’, \ Tanto possiede più di ben ciascuno, \ E più di caritate arde in quel chiostro. (Dante, Purgatorio, XV, vv. 55-57).
I santi, nei quali soltanto la carità si manifesta pienamente, amano tutti gli uomini, anche gli sconosciuti, esattamente come una madre ama i figli, anzi molto di più (Clive Staples Lewis spiega molto bene queste cose ne “I quattro amori”). Quale madre non sacrificherebbe la vita per salvare i figli? Cristo ha detto:
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.
Dare la vita non significa autodistruggersi a favore degli altri (altruismo) ma dare la propria vita terrena in cambio della vita eterna propria e altrui. Lo scambio è vantaggioso (ciò non toglie che richiede un eroismo sconosciuto a noi umani normali).
Ricchezza e povertà
L’idea cristiana di carità non ispira una concezione collettivista della società e dell’economia. Gli scolastici spagnoli del sedicesimo secolo (da essi John Locke attinse a piene mani) e Rosmini affermavano che l’uomo, in quanto è creato libero, ha il diritto di possedere i suoi beni e il frutto del suo lavoro. Obbligarlo a condividere il frutto del suo lavoro con qualcun altro contro la sua volontà è quindi profondamente ingiusto. La tassazione obbligatoria a beneficio dei poveri è una forma di “carità coatta” (l’espressione è di Rosmini) che trasforma i poveri in parassiti senza dignità e trasforma lo stato in un leviatano che schiaccia l’economia e la società civile.
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La carità verso i poveri deve essere libera per definizione. Ha detto di recente monsignor Cafarra di Bologna:
la carità non è un dovere sociale, la carità è una promessa fatta a Dio, la promessa di amare la persona umana e tutte le persone (…) la carità non è una funzione del welfare, la carità può essere offerta… ma nessuno la può pretendere. (Repubblica, 30 novembre 2005).
Il welfare non è figlio del cattolicesimo ma del calvinismo, che sostituisce la carità con l’altruismo. Le prime forme di welfare furono introdotte nell’Inghilterra vittoriana, non nell’Italia democristiana (vedi gli studi di Rothbard “Catholicism, Protestantism, and Capitalism” e “Readings on Ethics and Capitalism, Part I: Catholicism”).
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Si direbbe proprio che l’idea cristiana della carità ispiri proprio una concezione liberale della società e dell’economia. Se non c’è proprietà privata, non c’è neppure carità. Che cosa posso donare agli altri se non possiedo nulla? Ma il bello dell’economia di mercato è che diffonde il benessere fra il maggior numero possibile di persone. Certo il mercato tende ad emarginare ed escludere dal benessere quelli che non riescono ad essere competitivi. Aiutare queste persone a costruire delle imprese competivive (attraverso prestiti, consulenze ecc.) è un atto di carità che fa bene anche al mercato nel suo insieme: quanti più numerosi sono i soggetti competitivi in grado di consumare i beni prodotti, tanti più beni vengono prodotti per tutti (in questo il mercato è simile al paradiso). Un Rockfeller in una società di poveri è destinato ad impoverirsi, perché i prodotti delle sue industrie restano invenduti. Elementare principio economico. Ma resta un’ultima domanda inevasa. Cristo ha detto che è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli. Ma la ricchezza di cui parla non è tanto una quantità eccessiva di beni posseduti ma un atteggiamento psicologico di eccessivo attaccamento ad essi. Il ricco è colui che delle sue ricchezze si fa idolo e non le considera per quello che sono: strumenti da impiegare in vista di uno scopo ideale. L’ideale dell’amore per Dio, per se stessi e il prossimo.