Nel 2017 sono stati assassinati 207 attivisti in 22 Paesi del mondoNei primi sei mesi di quest’anno almeno 123 persone tra attivisti, leader comunitari e difensori dei diritti umani sono state uccise in Colombia. A denunciare quello che il difensore civico del Paese sudamericano definisce “uno sterminio” è il quotidiano britannico The Guardian in un articolo pubblicato il 23 agosto scorso.
Sin dall’inizio del 2016, cioè l’anno in cui il governo di Bogotá ha siglato uno storico accordo di pace con la guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) per porre fine alla sanguinosa guerra civile (nota come “il conflitto armato”), che ha provocato in oltre mezzo secolo più di 220.000 vittime e 7 milioni di sfollati, sono stati assassinati circa 311 attivisti impegnati nella lotta per la difesa delle terre ancestrali dei popoli indigeni e dell’ambiente, ricorda la fonte.
Dipartimento di Cauca
Il dipartimento di Cauca, situato nel sud-ovest del Paese e affacciato sull’Oceano Pacifico, è quello dove il maggior numero di attivisti sono stati uccisi o minacciati. Secondo il sito Colombia Plural, il quale avverte di una “balcanizzazione” del Cauca, le vittime sono infatti almeno 81, ma alcuni parlano persino di 90.
Il 10 agosto scorso è stato assassinato a Santander de Quilichao da alcuni sicari l’esponente indigeno Emiliano Trochez, 70 anni. Un giorno prima, il 9 di agosto, la stessa sorte era toccata ad un altro dirigente locale, Alejandro Jacanamejoy, ucciso nei pressi di Piñuña Negro, nel dipartimento di Putumayo (che confina con quello di Cauca), ricorda il sito Semana.com.
Per il suo suolo fertile e la presenza di giacimenti auriferi non ancora sfruttati, il dipartimento di Cauca, che prende nome dall’omonimo fiume, fa molta gola non solo all’industria agroalimentare e alle aziende minerarie ma anche alle bande criminali coinvolte nella coltivazione delle foglie di coca, cioè la materia prima per la “pasta basica” della cocaina.
Sono cambiati solo i nomi
Anche se il nuovo presidente Iván Duque, che ha iniziato il suo mandato il 7 agosto scorso, ha promesso di rafforzare la protezione degli attivisti, i leader comunitari nel dipartimento sono scettici, così scrive il Guardian. Duque infatti è molto vicino all’ex presidente Álvaro Uribe (2002-2010), sotto inchiesta per crimini legati ai famigerati squadroni della morte nati negli anni ‘90.
“Le FARC possono aver lasciato il campo di battaglia ma altri gruppi hanno preso il loro posto”, dichiara il coordinatore per i diritti umani dell’Associazione dei Consigli Indigeni del Nord del Cauca (Asociación de Cabildos Indígenas del Norte del Cauca), Edwin Marcelo Capaz. “E questi gruppi non hanno ideologia politica”, aggiunge Capaz, citato dal quotidiano britannico.
Del resto, osserva Capaz, i gruppi possono cambiare nome, ma si tratta delle “stesse persone con cui abbiamo vissuto tutta la vita”. “Sono le stesse persone che hanno compiuto massacri anni fa”, così sostiene, alludendo all’attività dei paramilitari di destra delle Autodifese Unite della Colombia (AUC).
Enrique Fernández
Uno dei leader attualmente preso di mira e pesantemente minacciato è Enrique Fernández. Già sopravvissuto ad un massacro effettuato dalle AUC nell’aprile del 2001, nel febbraio scorso un ordigno è stato depositato davanti alla sua abitazione, il quale è stato disinnescato dagli artificieri dell’esercito colombiano.
Nel luglio scorso, l’ambientalista ed esponente del popolo indigeno Nasa è stato bersagliato da messaggi intimidatori. “Non riposeremo finché la Colombia non sarà libera da comunisti come te”, diceva uno dei messaggi, citato dal Guardian. Netto e inequivocabile è anche il significato del seguente messaggio: “Condoglianze alla tua famiglia”. Dietro i messaggi minatori si cela una delle numerose nuove bande armate attive nel Paese, le Autodefensas Gaitanistas de Colombia, scrive il Guardian.
“C’è una taglia sulla mia testa”, ha ammesso il dirigente indigeno, la quale diventa ogni giorno “più alta”. “Veniamo uccisi lentamente”, ha aggiunto con amarezza sua moglie, Ana Lucía Velasco.
La violenza in Guatemala
Altrettanto pesante è l’atmosfera in Guatemala, un Paese che secondo il Guardian (19 agosto) rischia di scivolare nel caos in cui versano due altre Nazioni dell’America Centrale: Honduras e Nicaragua. Nel Paese, che conta più di 16 milioni di abitanti, di cui circa la metà sono indigeni, sono stati uccisi quest’anno già 18 attivisti per i diritti umani e quelli della popolazione indigena.
Tra il 9 maggio e il 4 giugno scorsi sono stati assassinati in totale sette esponenti indigeni e attivisti dei diritti umani. Cinque di loro – Luis Marroquín, Florencio Pérez, Alejandro Hernández, Francisco Munguía e Juan Xol – erano membri del CODECA (Comité de Desarrollo Campesino), un organismo che si oppone al land grabbing o accaparramento delle terre, alle monocolture industriali, quali le piantagioni di canna da zucchero e palma da olio, e allo sfruttamento minerario. Due altre vittime, Ramón Choc e Mateo Chamam, appartenevano al Comité Campesino del Altiplano (CCDA).
“Sono stata avvertita che sarebbe stato ucciso ma non l’ho preso sul serio”, ha detto al Guardian la vedova di una delle sette vittime. “Tutti sanno chi sono gli assassini”, ha aggiunto la donna. Il maggior problema è infatti quello che Mike Taylor, direttore della Coalizione Internazionale per la Terra (ILC o International Land Coalition), ha definito “la cultura dell’impunità” in Guatemala.
Coalizione Internazionale per la Terra (ILC)
“Chiunque si oppone alle miniere, agli sfratti, alle piantagioni di palma da olio o che addirittura partecipi a tavole rotonde per trovare soluzioni alla crescente ondata di violenza contro i difensori dei diritti alla terra verrà probabilmente preso di mira”, spiega Taylor, che parla di una “persecuzione sistematica” di chi difende la propria terra.
In un comunicato stampa pubblicato il 10 agosto scorso, l’ILC, che ha verificato la situazione sul terreno, denuncia l’impunità e il clima di violenza, e critica con parole nette il governo guatemalteco, il quale “ha fallito a fornire alcuna risposta adeguata per proteggere i difensori dei diritti umani a rischio o a indagare sui crimini contro di loro”.
Secondo l’organizzazione con sede a Roma, alla radice del conflitto sociale c’è la questione dell’accesso alla terra, all’acqua e alle risorse naturali. “È evidente che lo Stato del Guatemala ha scelto di dare la priorità a un modello economico di sviluppo rurale che arricchisce pochi, a discapito delle comunità impoverite, incentivando la migrazione e distruggendo l’ambiente”, osserva il comunicato.
2017: triste record
Secondo il rapporto annuale di Global Witness – una ONG fondata nel 1993 a Londra, che lotta contro lo sfruttamento delle risorse naturali nei Paesi in via di sviluppo e contro la corruzione nel sistema politico economico globale -, nel 2017 sono stati uccisi almeno 207 difensori dei diritti alla terra e attivisti ambientali in 22 Paesi del globo, vale a dire quasi quattro alla settimana. Il 60% circa dei casi sono avvenuti nell’America Latina.
Intitolato At What Cost ? (“A quale prezzo?”) e pubblicato il 24 luglio scorso, il documento sottolinea che si tratta del “peggior anno finora registrato”. Ad uccidere almeno 53 delle 207 vittime – cioè un quarto circa – sono stati elementi delle forze armate e agenti di polizia, scrive il rapporto. Altre 32 vittime sono state assassinate da bande criminali e 13 da membri di gruppi paramilitari.
I Paesi più pericolosi nel corso del 2017 sono stati il Brasile e le Filippine, con rispettivamente 57 e 48 vittime. Quest’ultima cifra è “la più alta mai registrata nei Paesi asiatici”, ricorda il rapporto. Sgomento ha suscitato l’uccisione il 3 dicembre 2017 da parte di soldati dell’esercito filippino di otto abitanti del villaggio di Datal Bonglangon, Mindanao, che si opponevano ad una piantagione di caffè.
Dai dati di Global Witness emerge inoltre che 40 uccisioni erano legate al settore dell’attività estrattiva (33 nel 2016) e 23 a quello del logging o abbattimento degli alberi. Nel 2017 il settore più ‘assassino’ è stato invece quello dell’agro-commercio, con almeno 46 delle 207 vittime. “Attivisti locali vengono uccisi perché i governi e le compagnie danno più peso ai profitti rapidi che alle vite umane. Gli scaffali dei nostri supermercati sono pieni di prodotti di questa carneficina”, ha ricordato Ben Leather, di Global Witness, citato da Le Monde. Conviene ricordarsene quando si fanno le spese.