Un articolo del New York Times spiega come si sta sviluppando l’economia della concentrazione: in pratica oggi solo un app ci può salvare dalla dipendenza dalle app, mentre un male che nessuno conosce cresce inesorabilmente dentro di noiSono passati pochi mesi da quando i colossi della tecnologia si sono allineati per dirci che non vogliono vederci diventare troppo dipendenti dalle tecnologie – le stesse che hanno creato loro – e hanno annunciato l’arrivo sui nostri dispositivi di nuovi strumenti in grado di aiutarci a limitare la dipendenza dagli smartphone. Per esempio: Apple ha lanciato una nuova funzionalità (prima di farlo l’ha voluta testare lo stesso Tim Cook), App Limits, che traccia il tempo di utilizzo dell’apparecchio e soprattutto quello trascorso su una determinata applicazione.
Ora un articolo del New York Times racconta che sta nascendo una vera e propria economia della concentrazione. Il concetto può suonare bizzarro: solo un’app ci può salvare dalla dipendenza dalle app. Ed è generata dalla convinzione che se siamo perennemente distratti forse non è colpa nostra, mentre un male che nessuno conosce cresce inesorabilmente dentro di noi. A scendere in campo per armare di nuove tecnologie le tecnologie, sono tutti i big: Google, Instagram, Facebook.
Sì, perché è ormai risaputo che la dipendenza digitale ha cambiato il modo in cui ci concentriamo sulle cose. Una ricerca del 2010 – riporta il Guardian – ha rilevato che gli adolescenti che trascorrono cinque o più ore al giorno su dispositivi elettronici hanno il 71% in più di probabilità di sviluppare rendenze suicide rispetto a quelli che trascorrono meno di un’ora al giorno.
Non è però un problema che riguarda solo i ragazzi, ma tocca un po’ tutti. Secondo uno studio di Locket, un utente sblocca il suo telefonino in media 110 volte al giorno. Realizza, in altre parole, uno sblocco ogni 13 minuti, che diventano sei minuti durante le ore serali.
Sapete quanto volte tocchiamo il nostro telefono? A rispondere a questa domanda inquietante ci ha pensato uno studio condotto da Dscout: 2.617 volte. E’ chiaro che fatichiamo a leggere un libro, e che siamo voraci di ogni cosa, e che la nostra concentrazione è sminuzzata, debole, opacizzata.
Questo scenario non è abbastanza raccapricciante? Allora leggete cosa scrive il New York Times. Il punto è che una serie di ricercatori e neuro scienziati si è messa a studiare l’impatto sui nostri comportamenti di questa eccessiva esposizione al mondo digitale, ma fanno fatica a tirare delle conclusioni, a fissare punti fermi nello studio di un fenomeno estremamente complicato da decifrare.
Ad avere le idee chiare è invece chi quelle tecnologie ha contribuito a crearle e oggi si è messo a fare la gola profonda per salvare l’umanità da un serie di pericoli che conosce molto bene. James William, 36 anni, ha lavorato dieci anni da Google sviluppando modelli di pubblicità sui motori di ricerca, e a un certo punto si è accorto che c’era qualcosa che non funzionava più nella sua vita. La mente vagava senza più dare un senso ai pensieri, “come se la terra si stesse sbriciolando sotto i miei piedi”. E oggi scrive: “liberare la mente umana potrebbe essere la battaglia morale e politica dei nostri tempi”.
Perché Williams, che a tal proposito ha scritto un libro dall’eloquente titolo “Stand Out of Our Light” dopo un dottorato in filosofia a Oxford, è convinto che gli smartphone non solo minano la nostra capacità di concentrazione, ma facendoci perdere il contatto con la realtà dei fatti, rendendoci dunque orfani di una narrazione condivisa della verità, ci portino a smarrire il senso morale della vita. E sono guai seri.
La tecnologia – concepita per essere irresistibile – Williams se la immagina come un “esercito di caccia militari e carri armati” progettato per catturare e sequestrare la nostra attenzione. Scacco matto. Noi, inchiodati allo schermo, con gli occhi persi, le spalle curve, le dita a sfogliare compulsivamente pagine intangibili. Noi, siamo noi questi qua: individui aberranti. Il problema non è più soltanto quello di essere distratti. Trasferendo una metafora che Williams ambienta nel mondo del baseball a uno sport più vicino a noi, è come se Ronaldo dimenticasse di tirare in porta perché sta controllando le notifiche di Instagram.
Mail problema è ancora più grande: la concentrazione non è l’unica cosa che abbiamo perso – come se non fosse già un fatto abbastanza grave – perché il peggio è che abbiamo smarrito il senso più profondo della vita. Williams scuote le coscienze e mette mano a una materia che spaventa i neuro scienziati, i primi a essere confusi nel mare oscuro dei big-data (la schiera degli apostoli si sta via via ingrossando; tra questi Tristan Harris, ex Google pure lui, che nei seminari dell’Aspen punta il dito contro la “minaccia esistenziale” lanciata dai dispositivi che ci seguono ovunque). Sono loro che, attoniti di fronte ad alcune grandi domande, sono lacerati dai dubbi irrisolti.
I ricercatori hanno saputo spiegare da tempo – per dire – la differenza che passa tra la concentrazione “top-down” (cioè quando decidiamo di focalizzare la nostra attenzione su qualcosa) e la concentrazione “bottom-up” (cioè quando la nostra attenzione viene catturata nostro malgrado da qualcosa intorno a noi: un tuono. O una notifica di Twitter).
Ma brancolano nel buio se gli si chiede del rapporto tra la concentrazione e l’esperienza cosciente del mondo, oppure della conseguenza sui neuroni di tutto il tempo che si passa attaccati al display. Gli scienziati questo non lo sanno ancora, e alzano le mani (il New York Times cita fior fiore di studiosi, come Jesse Rissman della U.C.L.A.).
Nel frattempo sta fiorendo una vera e propria industria per combattere l’alienato tecnologico che è in noi. Per esempio a Stanford hanno sviluppato HabitLab, che ti aiuta a limitare il tempo che trascorri in quelle applicazioni dove in genere perdi più tempo. Dove insomma nessuno oggi sa dirti se un giorno perderai definitamente il lume della ragione.