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Per tutte le volte che Dio mi ha salvato dalla terra dei lupi

LUPO, SOLITARIO, NEVE
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Annalisa Teggi - pubblicato il 14/08/18
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Ululiamo al cielo, e siamo soli. Ci mordiamo l’un l’altro. Finché il Padre non ci strappa al vuoto mettendoci nel suo recinto paradossale che – come un occhio – può contenere l’infinito

“Egli trovò il suo popolo in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio” (Dt 32,10)

Non spiegare, stai a vedere

Spontaneamente non sarei portata a cominciare la mia giornata aprendo il libro del Deuteronomio; è più facile, piuttosto, che apra un quotidiano online.
Ma dov’è la vera attualità?
Me lo sono chiesta imbattendomi, per caso va detto, nella citazione riportata sopra … che mi ha folgorata. E subito mi è frullata in testa quella frase sentita mille volte «la mia Parola non passerà», e poi «da chi andremo, solo Tu hai parole di vita eterna».
Solo l’eternità può essere davvero attuale. I commenti degli intellettuali negli articoli di fondo passeranno; passeranno anche i miei mille messaggi su Facebook e passeranno i bestsellers premiati nelle kermesse estive.


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Ma la Sua Parola non passerà, cioè sarà capace di ritrovarci tutte le volte che ne avremo bisogno, e pure senza averlo chiesto. Si mostrerà all’improvviso calzante ad un momento preciso di vita nostra, così: molto più adeguato dei consigli degli amici, delle letture psicologiche sfogliate su internet.

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Flickr

Passiamo la vita a spiegare o a desiderare che le cose ci siano spiegate. Ecco perché tutte le nostre parole passeranno, come la pioggia di un temporale estivo che non rinfresca quanto ci sarebbe bisogno.
La Sua Parola guarda e vede. Guardare è l’atto di osservare, vedere è l’atto di svelare ciò che si osserva. E perciò questa specie particolarissima di parola resta e resterà.

In fondo, cosa c’è di particolarmente straordinario in quel versetto del Deuteronomio?
Nulla, per chi cerca sofisticate ricette o acrobazie astratte del pensiero.
Ci sono solo immagini e verbi, messi in fila da una sintassi molto basica: virgole e punti. Neppure una subordinata (… e quante volte la mia professoressa di italiano ci ripeteva che le subordinate sono indice di profondità di pensiero! Vero ma non sempre vero).
Gli effetti speciali ci sono persino in una proposizione semplice. Ad esempio, non è forte il contrasto tra «popolo» e subito dopo «ululati solitari»?

Io ululo da solo

C’è un gruppo che dovrebbe essere popolo e forse è solo una massa di solitudini che latrano alla luna.
E, infatti, cos’è un ululato? Non l’ho mai capito bene. È un desiderio lanciato oltre l’atmosfera terrestre. È un lamento fatto al buio per non essere visti. È una mancanza gridata chissà dove, ma comunque espressa. È una preghiera a uno spicchio di luce.
Questa fotografia umana, di gente smarrita al buio in un luogo deserto e sconfinato che piange-desidera-prega in gruppo ma da sola, siamo noi. E sappiamo benissimo che non c’è bisogno di aggiungere una sillaba in più. Intanto, dentro, questa Parola lavora come uno specchio in cui mille nostre giornate sghembe trovano il loro ritratto più vero: dunque, che tempo è quello che abito? Che ne ho fatto delle mie energie, del mio lavoro, delle mie relazioni?

LUPI, LOTTA, NEVE

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A questa dispersione, che può diventare disperazione, risponde un verbo violento che apre una frase nuova: «lo circondò».


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È un assalto? È un nemico che mi circonda per sconfiggermi?
È premura? È una madre che fascia il neonato?
È un assedio benedetto. Quante pubblicità allettanti ci stimolano a venerare l’assenza di limiti: oltre, di più, senza meta. Dio ci salva dalla disperazione mettendoci in un recinto.

Un assedio benedetto

Il limite non è solo una gabbia, può essere la premura di un abbraccio. Perché senza la percezione di uno spazio di custodia l’universo intero nella sua vastità è inutile, e vuoto.
Sì, puoi viaggiare senza limiti. Ma ce l’hai una casa a cui tornare? Solo così il trampolino della scoperta è davvero entusiasmante.
Sto spiegando, di nuovo. La Bibbia mi batte alla grande, perché usa un’immagine più chiara: «lo custodì come pupilla del suo occhio».
Dal vasto e smisurato spazio di una landa deserta siamo all’improvviso catapultati nel piccolo dettaglio di un occhio. C’è una specie di protezione più sicura ed efficace di quella con cui la palpebra racchiude la pupilla?
Non per niente noi diciamo «vale un occhio della testa». Per Dio noi, da lupi solitari, diventiamo preziosi come un occhio, da fasciare attorno a due lembi di pelle sottili, quasi invisibili, eppure indispensabili.

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E l’occhio in sé è un paradosso meraviglioso quanto l’uomo: un piccolo capace di contenere l’infinito.
Queste poche parole del Deuteronomio ci accompagnano – fulminee – a fare un viaggio dal buio di un deserto sterile, alla piccolezza luminosa e fertile di un occhio che si spalanca.

Dobbiamo capovolgere tutto, ecco la dritta per noi. È partendo dal piccolo del mio sguardo, custodito da due palpebre buone, che posso abbracciare il mondo intero. È questo recinto (il mio corpo, la mia casa, i miei amici, il mio quartiere) messo da un Padre premuroso che potrà allevarmi, farmi crescere in tutte le direzioni possibili e immaginabili.
Nella landa deserta c’è molto più spazio, perciò taluni sostengono che sia più libera; in realtà si finisce per stare fermi ciascuno al suo posto – possibilmente lontano dagli altri e, di conseguenza, ci si perde di vista. Nessuno è più capace di sentire quanto simile al proprio sia l’ululato solitario del suo vicino.
Spero d’ora in poi di ricordare con più stupore grato quale portata di speranza militante c’è anche solo nel semplice modo di dire: «Ti tengo d’occhio».

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