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Lotta all’AIDS: “Un successo parziale”

HIV and AIDS
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Paul De Maeyer - pubblicato il 09/08/18
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I progressi non mancano, ma la prevenzione è in crisiNonostante una serie di successi importanti, “la risposta globale all’HIV è ad un punto precario”. A lanciare questo monito è stato il nuovo rapporto del Programma congiunto delle Nazioni Unite sull’HIV/AIDS (o UNAIDS), diffuso il 18 luglio scorso a Parigi, in Francia.

Nel documento, che porta il titolo Miles to go (tradotto in italiano con: “Un lungo cammino da percorrere”) [1], l’agenzia ONU avverte che “a metà strada degli obiettivi del 2020, il ritmo dei progressi non sta al passo dell’ambizione globale”. Il rapporto serve da “campanello d’allarme” e agire adesso “può riportarci in rotta per raggiungere gli obiettivi del 2020”, scrive nella sua prefazione il direttore esecutivo del programma ONU, Michel Sidibé.

Elementi positivi

Anche se il tempo a disposizione “si sta esaurendo”, “ci sono dei progressi di cui essere orgogliosi”, spiega il rapporto. Proprio nell’Africa orientale e australe, “una regione che ospita più della metà (53%) dei 36,9 milioni […] di persone che vivono con l’HIV nel mondo”, sono stati registrati dei progressi “forti”, osserva il documento dell’agenzia ONU. Nel periodo 2010-2017 i decessi per malattie legate all’AIDS sono calati del 42% nella regione, così come il numero delle nuove infezioni da HIV, sceso del 30%.

A livello globale, spiega il documento, continua ad avanzare la terapia antiretrovirale. Secondo i dati dell’UNAIDS, si stima che a fine 2017 la cifra record di 21,7 milioni di persone abbia avuto accesso a terapie, cioè “cinque volte e mezzo in più rispetto ad appena un decennio fa”. Si tratta del resto di un aumento di 2,3 milioni di persone rispetto al 2016 (19,4 milioni). Inoltre, tre quarti delle persone che a livello globale vivono con l’HIV, ossia circa il 75%, erano a conoscenza alla fine dell’anno scorso della loro condizione, un elemento fondamentale nel percorso per chiedere ed ottenere aiuto.

Grazie ai progressi sul piano terapeutico il numero di decessi per patologie correlate all’AIDS è diminuito del 34% nel periodo che va dal 2010 al 2017. L’anno scorso, nel mondo sono decedute meno di un milione di persone per malattie legate all’AIDS: 940.000. Nel 2004, anno di picco per quanto riguardo i decessi, la cifra era di 1,9 milioni.

Proprio l’accesso ai farmaci antiretrovirali per la prevenzione della trasmissione verticale da madre a figlio ha ridotto notevolmente le nuove infezioni da HIV tra i bambini. Secondo l’ONU, dal 2010 sono state evitate in questo modo a livello globale 1,4 milioni di infezioni infantili con il temuto virus.

In questo contesto conviene ricordare che la Thailandia ha eliminato nel 2017 la Mother to Child Transmission del virus dell’HIV, raggiungendo in questo modo come primo Paese del continente asiatico gli obiettivi fissati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization o WHO).

Alcune zone d’ombra

Ma nonostante questi progressi o notizie incoraggianti, molto rimane ancora da fare, anzi occorre rafforzare l’impegno per raggiungere l’obiettivo stabilito nel 2015 dalla comunità globale di porre fine all’AIDS “come minaccia di salute pubblica” entro il 2030.

Infatti, pochi sono i Paesi che nel frattempo hanno raggiunto gli obiettivi intermedi fissati dalla “strategia 90-90-90”, la quale stabilisce che entro l’anno 2020 almeno il 90% delle persone che convivono con l’HIV nel mondo dev’essere al corrente della propria situazione, inoltre il 90% di loro dev’essere in terapia antivirale e infine il 90% di questi pazienti deve arrivare a sopprimere la carica virale.

Un primo ostacolo o problema è di tipo finanziario. Secondo il rapporto ONU, i fondi per la lotta contro l’AIDS/HIV nei Paesi a reddito medio o basso raggiungevano nel 2017 quota 20,6 miliardi di dollari, l’80% circa dell’obiettivo fissato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ma nell’arco dello stesso anno non è stato registrato “alcun nuovo impegno significativo” da parte dei donatori, osserva il documento. Il deficit del 20% sarà “catastrofico” per i 44 Paesi che nella lotta contro la pandemia dipendono maggiormente da fondi internazionali, ha detto Sidibé.

Un secondo contrattempo è costituito dal fatto che anche se il numero delle nuove infezioni da virus HIV continua a diminuire — dal picco di 3,4 milioni nell’anno 1996 a 2,2 milioni nel 2010 e a 1,8 milioni l’anno scorso –, il calo è più lento di quanto necessario per poter raggiungere l’obiettivo o milestone (pietra miliare) di meno di 500.000 nuove infezioni entro il 2020, così spiega il rapporto UNAIDS. Idem per calo del numero di decessi per malattie correlate all’AIDS: per raggiungere l’obiettivo 2020 serve infatti un ulteriore calo di quasi 150.000 decessi all’anno.

Gravi sono anche le conseguenze della mancanza di test per lo screening neonatale per HIV. Per questo motivo, fino a due terzi dei bambini HIV positivi di età inferiore ai due anni in Africa, Asia e nelle Americhe iniziano la terapia con l’immunodeficienza già progredita, osserva il rapporto. Mentre il numero di 940.000 bambini in terapia manca da lontano il traguardo di 1,6 milioni fissato per quest’anno, nel corso del 2017 circa 180.000 bambini hanno contratto l’infezione da HIV.

Crisi di prevenzione

Dal rapporto emerge inoltre che forse il più grande problema in questo momento nella lotta contro l’AIDS/HIV è ciò che Sidibé ha chiamato “una crisi di prevenzione”.

“Per i diritti umani la salute è un imperativo e siamo profondamente preoccupati per la mancanza di impegno politico e l’incapacità di investire in programmi comprovati per l’HIV”, ha spiegato il direttore esecutivo dell’agenzia ONU durante la conferenza internazionale sull’AIDS, che si è svolta ad Amsterdam, in Olanda, dal 23 al 27 luglio scorsi, sotto il titolo (che poteva sembrare uscito dalla penna di papa Francesco) Breaking Barriers, Building Bridges (“Rompere le barriere, costruire ponti”).

“Se i paesi pensano di potersi liberare delle loro epidemie, si sbagliano pericolosamente”, così ha continuato il diplomatico del Mali, che del resto è stato criticato ad Amsterdam per la gestione di uno scandalo di abusi sessuali all’interno dell’organismo delle Nazioni Unite.

In un certo senso, suggerisce una commissione di 40 esperti mondiali della nota rivista scientifica The Lancet, la prevenzione è diventata vittima della campagna Getting to zero: End AIDS by 2030, con la quale la comunità internazionale intende eliminare la pandemia entro il 2030.

“Il discorso prevalente sulla fine dell’AIDS ha alimentato un pericoloso compiacimento e potrebbe aver accelerato l’indebolimento della risoluzione globale per combattere l’HIV”, ha detto il professore Chris Beyrer, epidemiologo della Johns Hopkins University Bloomberg School of Public Health a Baltimore (Maryland, USA) e co-presidente della commissione, citato da Jon Cohen su Science.

Della stessa opinione è il segretario generale della Commissione cattolica internazionale per le migrazioni ed ex consigliere speciale per l’HIV di Caritas Internationalis, monsignor Robert J. Vitillo, il quale conferma che ad ostacolare la lotta contro l’AIDS è una prematura dichiarazione di vittoria.

“Il messaggio è stato diffuso qualche anno fa, anche da alcune agenzie statunitensi, che eravamo quasi alla fine dell’AIDS. Copertine di riviste dichiaravano, ‘La fine dell’AIDS’. Quel messaggio è andato in lungo e in largo ed è stato difficile superarlo. Non eravamo alla fine dell’AIDS allora, e non ci siamo adesso”, ha dichiarato Vitillo al Catholic News Service, che parla a sua volta di compiacimento. C’è davvero compiacimento. C’è la sensazione che abbiamo speso così tanta energia in questa unica malattia mentre ci sono altre priorità di cui occuparsi”, continua l’ecclesiastico.

Proprio quello è il messaggio principale del nuovo rapporto UNAIDS: non possiamo abbassare la guardia nei confronti dell’AIDS/HIV, perché la battaglia non è ancora vinta.

 

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1] Per scaricare il testo completo del rapporto, cliccare in alto a sinistra della pagina che si apre su Download PDF.

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