La “Walk Free Foundation” ha pubblicato il “Global Slavery Index 2018”Circa 40,3 milioni di persone in tutto il mondo vivono e lavorano oggi come schiavi. A rivelarlo è stato giovedì 19 luglio scorso il Global Slavery Index 2018 (Indice Globale della Schiavitù), preparato e pubblicato dalla Walk Free Foundation. Questa denuncia che su ogni mille abitanti del pianeta ben 5,4 sono “schiavi moderni”.
Vittime della prassi sono in particolare donne e bambine: costituiscono il 71%, ossia quasi tre quarti, degli schiavi moderni. L’altro 29% è di sesso maschile. Si calcola inoltre che più della metà delle persone ridotte alla schiavitù sono di minore età.
Di questi 40,3 milioni di schiavi, così continua il rapporto, 15,4 milioni sono donne o bambine vittime di matrimoni forzati. Quasi 25 milioni, ovvero 24,9, sono invece le persone vittime del lavoro forzato, in alcuni casi imposto dalle autorità del proprio Paese.
I Paesi meno virtuosi…
I dieci Paesi del mondo meno virtuosi, ossia quelli con il più alto tasso di prevalenza di schiavitù, sono tutti africani o asiatici. Ad occupare i primi tre posti di questa poco invidiabile graduatoria sono la Corea del Nord, l’Eritrea e il Burundi. Seguono poi la Repubblica Centrafricana, l’Afghanistan, la Mauritania, il Sud Sudan, il Pakistan, la Cambogia e infine l’Iran.
Come spiegano gli autori del Global Slavery Index 2018, lungo oltre 200 pagine, la situazione nella maggior parte di questi Paesi è segnata da seri problemi, in primis conflitti, ma anche l’assenza dello Stato di diritto e la mancanza di sicurezza fisica.
I primi tre Paesi — Corea del Nord, Eritrea e Burundi — sono anche tre nazioni in cui la schiavitù è imposta dallo Stato. Secondo il rapporto di Walk Free, un cittadino nordcoreano su dieci, cioè 2,6 milioni di persone, è ridotto alla schiavitù. Questa sorte tocca del resto a molti cristiani nordcoreani, che rinchiusi nei famigerati kwan-li-so sono costretti ai lavori forzati per il regime di Pyongyang.
Da parte sua il presidente dell’Eritrea, Isaias Afewerki, al potere da ben 25 anni, ha introdotto sullo sfondo del lungo conflitto con l’Etiopia la leva a tempo indeterminato, che secondo Amnesty International ha contribuito a creare “una generazione di rifugiati”.
Per quanto riguarda infine il Burundi, dove continua la prassi dei lavori forzati, conviene ricordare che è uno dei Paesi al mondo “con il peggior tasso di lavoro minorile”, come segnalato da La Repubblica nel giugno 2014. Nel Paese africano, almeno un bambino su cinque è impiegato in varie forme di sfruttamento, e i piccoli schiavi vengono “spesso pagati poco o non pagati affatto”.
Molti bambini burundesi lavorano infatti nei campi o invece nelle zone urbane come “camerieri” nelle case delle famiglie “per bene”, “una piaga aggravata dal fatto che ai piccoli lavoratori non è garantito nessun tipo di diritto, tanto che, spessissimo, vivono in condizioni di autentica schiavitù”, così scrive il quotidiano romano.
Tra i Paesi che fanno “molto poco” nella lotta contro la schiavitù, “nonostante la loro ricchezza e le loro risorse”, figurano poi alcune nazioni con un alto Prodotto Interno Lordo (PIL o GDP, dall’inglese Gross Domestic Product) pro capite, come Kuwait, Qatar, Singapore e il Sultanato del Brunei.
… e quelli più bravi
Ci sono però anche quei Paesi che da anni si impegnano con grande cuore per contrastare il fenomeno. Nella classifica dell’Indice Globale di Schiavitù (IGS) un solo Paese ottiene il rating A: si tratta dell’Olanda. I Paesi Bassi guidano infatti la classifica delle dieci Nazioni più attive nella lotta contro la piaga della schiavitù. Oltre all’Olanda vi sono gli USA, il Regno Unito, la Svezia, il Belgio, la Croazia, la Spagna, la Norvegia, il Portogallo e infine il piccolo Montenegro.
Anche se dispongono solo di limitate o poche risorse, colpisce inoltre l’impegno di Paesi come la Georgia, la Moldavia, il Senegal, il Sierra Leone e il Mozambico, che secondo il rapporto “stanno rispondendo piuttosto con forza”. Il Mozambico è infatti uno dei Paesi più poveri al mondo, con un PIL pro capite di 634 dollari nel 2012 e un basso Indice di Sviluppo Umano (ISU: 0,418).
Dall’Europa e dall’Asia Centrale agli USA
Secondo il Global Slavery Index, all’interno della grande regione costituita dall’Europa e dall’Asia Centrale la più alta prevalenza di schiavitù moderna si manifesta in Turkmenistan, Bielorussia e Macedonia. Russia, Turchia e Ucraina invece hanno il numero in assoluto più elevato di vittime di questa schiavitù di tutta la regione.
Tra i Paesi in cui persiste il lavoro forzato imposto dalle autorità figura del resto anche la Bielorussia. Nel Paese esiste tuttora il sistema del cosiddetto Subbotnik o “sabato comunista”, che costringe dipendenti statali a lavorare anche di sabato o nei weekend e a destinare il ricavato a progetti scelti dal governo.
Anche negli USA esiste la “nuova schiavitù”. Secondo il rapporto, Oltreoceano ci sono infatti più di 400.000 persone schiavizzate, “una statistica davvero sbalorditiva”, che “dimostra quanto sia sostanziale questo problema a livello globale”, ha spiegato il fondatore della Walk Free Foundation, Andrew Forrest, in un comunicato stampa.
“Gli Stati Uniti sono uno dei Paesi più avanzati al mondo, eppure hanno più di 400.000 schiavi moderni che lavorano in condizioni di lavoro forzato”, così ha aggiunto l’imprenditore e filantropo australiano. “Questo è possibile solamente a causa di una tolleranza nei confronti dello sfruttamento”, ha sottolineato.
Il “motore” della schiavitù moderna
Il rapporto della Walk Free Foundation ha dedicato anche ampia attenzione all’importazione da parte dei Paesi del G20 di prodotti realizzati con forza lavoro schiava, il cui volume ha raggiunto un valore complessivo di 354 miliardi di dollari. Perciò, così suggeriscono gli autori del Global Slavery Index, le importazioni sono proprio il “motore” della schiavitù moderna.
Dispositivi elettronici, tra cui computer, laptop e smartphone, costituiscono la fetta più grande di questi 354 miliardi di dollari: 200,1 miliardi di dollari per la precisione. Un altro settore importante è quello dell’abbigliamento: i Paesi del G20 importano infatti capi d’abbigliamento “a rischio” per un valore di 127,7 miliardi di dollari. Al terzo, quarto e quinto posto ci sono poi i prodotti ittici (12,9 miliardi di dollari), il cacao (3,6 miliardi di dollari) e la canna da zucchero (2,1 miliardi di dollari).
La prima economia mondiale è del resto anche il primo importatore mondiale di prodotti a rischio di forza lavoro schiava: gli USA importano prodotti “a rischio” per un valore di 144 miliardi di dollari all’anno, di cui dalla sola Cina materiale elettronico e vestiti per un valore totale di 122 miliardi di dollari. Il Vietnam, con 11,2 miliardi di dollari, e l’India, con 3,8 miliardi di dollari, sono i 2° e 3° esportatori di prodotti “a rischio” verso gli USA.
Il volume delle importazioni statunitensi di prodotti “a rischio” è quindi tre volte superiore a quello del secondo importatore di questi prodotti tra i Paesi del G20, ossia il Giappone (47 miliardi di dollari). Al terzo posto spicca la Germania con 30 miliardi di dollari, poi viene il Regno Unito con 18 miliardi di dollari e la Francia con 16 miliardi di dollari. Con circa 7 miliardi di dollari, l’Italia risulta al 12° posto.
Azione urgente
Dal rapporto emerge inoltre che ben 12 Paesi membri del G20 non fanno nulla per arginare o anzi contrastare il fenomeno, tra cui Argentina, Messico e Russia. Anche la patria di Andrew Forrest non ha fatto ancora nulla, ma Canberra sta lavorando ad una nuova legislazione ritenuta all’avanguardia.
E occorre agire. Molto sgomento hanno suscitato le immagini diffuse dalla CNN nell’autunno scorso, con aste di migranti nigeriani in Libia. I video suggeriscono infatti come all’inizio del terzo millennio esistano ancora dei “mercati degli schiavi”.