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Nel donarci troviamo anche noi stessi

Card. Joseph Ratzinger (1996)

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Centro Culturale "Gli Scritti" - pubblicato il 07/08/18
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L’omelia di saluto dai sacerdoti e dai diaconi dell’allora arcivescovo di Monaco e Frisinga Joseph RatzingerCari confratelli! Cari fratelli e sorelle nel Signore!

Di tutto cuore do a tutti voi il benvenuto, oggi, qui, nel Duomo di Frisinga, e desidero cordialmente dirvi: “Che Dio ve ne renda merito!”, per l’opportunità di vederci insieme qui in questa grande comunità del presbiterio, del servizio ministeriale alla nostra diocesi, per la possibilità di fare insieme esperienza di Chiesa e per essere convenuti in questa occasione, a costo di qualche sacrificio, per rendere un comune grazie al Signore per la sua misericordia, che imploriamo di nuovo su di noi.

Ci siamo riuniti attorno all’altare presso il quale un giorno dicemmo “Adsum”: “Eccomi, Signore, tu mi hai chiamato”; quel giorno nel quale mettemmo le nostre mani nelle sue mani, la nostra via nella sua via. Noi non sapevamo, non potevamo sapere, per quali strade ci avrebbe condotto, ma sapevamo che le sue mani sono buone e che potevamo affidarci a lui. Oggi gli diciamo di nuovo “sì”: Signore, prendimi come sono. Fa’ di me secondo la tua volontà!

Omelia

Cari confratelli nel ministero episcopale e presbiterale! Cari diaconi e collaboratori nel servizio pastorale! Cari candidati al sacerdozio! Cari fratelli e sorelle nel Signore!

Nell’ambito del mio nuovo incarico, poco tempo fa mi sono imbattuto nella vicenda di un sacerdote di un Paese molto lontano, vicenda nella quale penso si rispecchi in modo commovente la bellezza e l’onere della nostra vocazione in questo nostro tempo. Al momento dei suoi studi e nei primi anni di ministero quel sacerdote era stato un entusiasta; pieno di gioia, aveva scoperto la Parola e la chiamata di Dio, immergendosi sempre più in quella Parola; grazie a conversazioni, conferenze, incontri personali e con la stessa testimonianza della sua vita, per molti era diventato una guida e un punto di riferimento.

Poiché lo si riteneva molto capace, lo si mandava sempre su terreni aridi, per così dire, lì dove risultava molto difficile la semina della Parola. E quando a un certo punto fu costretto a sperimentare che nessuno richiedeva la sua semina, che era come se essa si perdesse nel vuoto, il suo cuore fu sempre più oppresso dal peso di una tale inutilità. Insieme al buio di questa inutilità si affollarono dentro di lui tutte quelle domande che allora assillavano la Chiesa intera: Questo lavoro è davvero ancora necessario? Non abbiamo magari bisogno di una Chiesa completamente diversa e di un ministero completamente diverso? Non deve forse cambiare tutto? Nello stesso tempo avvertiva anche il peso di una solitudine fattasi più oppressiva e si chiedeva se avesse senso il celibato, che non era stato voluto come scelta primaria, ma accettato solo per amore di quell’altra vocazione.

Intorno a lui si era fatto buio: e così lasciò. Voleva finalmente essere un uomo come tutti gli altri: unicamente sé stesso, libero dal carico troppo pesante della Parola di Dio e della Chiesa di Dio.

Trovò un lavoro accettabile e anche ben retribuito come assicuratore e poté così continuare a esercitare la sua facilità di parola e di relazione con la gente. Nell’incontrare le persone in quella nuova attività – cercando di concludere un affare e non per comunicare loro la Parola di Dio – avvertiva che quell’impegno, in sé del tutto legittimo, stava ben al di sotto di quello che aveva fatto sino ad allora. E disse: ho capito che Dio non mi ha donato questa mia eloquenza per far concludere affari alle persone, ma per annunciare la sua Parola.

Quello che faceva ora, anche se era una cosa buona in sé, era in ogni caso povera cosa rispetto al parlare agli uomini dell’essenziale, di come poter essere veramente tali e vivere in modo giusto, da uomini.

Com’erano secondarie e piccole le certezze che ora egli offriva, se paragonate con la domanda su ciò che conta, con la domanda su quale sia il solido fondamento su cui poter vivere e morire. E così cercò un altro lavoro, divenne assistente sociale e poté di nuovo parlare con le persone della loro umanità e dare consigli in proposito.

Detto per inciso: mi sembra molto indicativa per il nostro tempo – un tempo che ha puntato tutto sulla sicurezza tecnica e sulle certezze scientifiche – l’importanza che in esso hanno acquisito il consiglio e la consulenza. In questa domanda di consiglio e di consulenza – a seguito della quale è emersa e si è sviluppata tutta una rete di supporti consultivi dei tipi più diversi – si apre, di fronte a tutta la sicurezza basata sul sapere e sul potere, lo spazio della libertà dell’uomo che è la nostra specificità, che non si può né calcolare né realizzare con la tecnica e che dunque è possibile servire solo nella modalità della libertà, nell’attenzione alla libertà dell’altro, nel consiglio che esige la libertà e la incontra.

Ma sorge la domanda: cosa succede se l’uomo stesso che dà consigli consiglia solo a partire da una prospettiva umana? Non potrebbe essere che, dovendo consigliare da solo, nell’oscurità si perda lui stesso? Non potrebbe essere che il cieco guida altri ciechi? La nostra società, che consiglia ma è essa stessa disorientata, in realtà è paragonabile, proprio nella sua ricerca del consiglio giusto e della strada verso la libertà – che non si possono calcolare -, a quella folla di uomini per la quale il Signore prova compassione, perché sono “come pecore senza pastore”.

Ritorniamo al sacerdote che operava come assistente sociale: egli consigliava la gente e tuttavia notava che anche questo era molto meno rispetto a quello che faceva prima, giacché ora, nell’oscurità fitta e impenetrabile, egli poteva tentare di indicare una strada solo con il suo sentimento, con il suo buon senso, con la sua personale esperienza, con certi standard statistici della psicologia e della sociologia. E così, come il figliol prodigo, alla fine si accorse che, in tutto il suo vagare lontano, impercettibilmente si era trovato di nuovo sulla via del Signore, gli era nuovamente andato incontro e nuovamente lo aveva ritrovato nella grandezza e nella sublimità del suo servizio. Di nuovo poteva dirgli: “Adsum”, Signore sono qui, riprendimi di nuovo, come riprendesti Pietro, perché, pur in mezzo alla sua debolezza, non aveva comunque mai smesso di amarti. Quel sacerdote aveva riconosciuto nuovamente la sublimità di un ministero che non offre agli uomini questo o quello, ma ciò di cui vivono, un ministero nel quale non diamo solo noi stessi e la nostra miseria, ma offriamo quello che solo lui, il Signore di tutta la vita, può dare: veramente possiamo condurre gli uomini, come prima abbiamo ascoltato nella Lettura, a pascoli erbosi e alle acque vive, inesauribili, alle acque della vita che solo Dio conosce e dona, alla verità di Gesù Cristo e della sua Chiesa.

Credo che nella vicenda che ho raccontato si rispecchi qualcosa della grazia e delle difficoltà della strada che in questo nostro tempo noi tutti percorriamo come servitori di Gesù Cristo, anche se, in generale, grazie a Dio, le nostre strade, almeno dall’esterno, non sembrano percorsi così drammatici. All’entusiasmo dell’inizio segue sempre quell’ostacolo contro cui Mosè si trovò a dover lottare sulla strada verso Israele: il desiderio di ritornare in Egitto, la tentazione di pensare che sarebbe stato meglio essere rimasti in Egitto, essere come tutti, vivere unicamente la propria vita e non dover essere sempre condotti dalla sua mano, non dover attraversare il deserto a seguito della sua chiamata ed essere esposti all’apparente monotonia del suo pane e dell’acqua che egli dà.

E invece, grazie alla misericordia di Dio, è come se ci cadessero sempre di nuovo le bende dagli occhi nel riconoscere che proprio nel donarci a lui, troviamo anche noi stessi. In quanto riconosciamo il suo diritto su di noi, in quanto riconosciamo il diritto degli uomini alla nostra fedeltà e ci lasciamo donare da lui, noi diamo quello che è essenziale, possiamo condurre alle acque della vita, possiamo fare la cosa più bella che è data all’uomo; donarci a vicenda quello di cui viviamo, il senso che ci porta, la speranza che ci sostiene, la certezza con cui possiamo davvero vivere e morire.

Cari fratelli, questo momento del congedo è e deve essere soprattutto un momento di ringraziamento. Oggi il ministero episcopale è gravato da tante conferenze, riunioni e carte. È stato ed è sempre bello allora quando si può andare nelle comunità, fare esperienza della Chiesa viva e vedere quanto anche oggi la Chiesa sia presente, quanto anche oggi renda felici gli uomini, quanto anche oggi offra loro uno spazio di vita.

So bene naturalmente che in questo il Vescovo fa, per così dire, esperienza solo del volto domenicale della comunità e che dietro il lato festivo c’è quello feriale, molto più sobrio e faticoso. Sono necessarie tante ore apparentemente infruttuose, tanti giorni di lavoro faticoso, il farsi carico di tanti pesi che in realtà non sembrano neppure appartenere all’ambito del servizio ecclesiale. È necessaria tanta cura e fatica perché la comunità cresca, perché in essa i servizi siano ben organizzati, perché essa impari ad amare la Parola di Dio e si possa riunire in armonia. Costa pazienza, amarezze e una sempre rinnovata disponibilità a servire.

Ma, d’altra parte, il volto domenicale non è solo apparenza, bensì proprio il frutto di quelle tante ore di fatica. Dopo le ore della quotidianità, con i suoi sforzi spesso vani e la sua opacità, la Chiesa viene così tenuta viva, può festeggiare la domenica ed essere domenica per gli uomini, perché essi si impegnino sempre ad andare avanti in modo nuovo, a costruire la Chiesa in modo vivo, a mettersi a servizio di Gesù Cristo e del suo Corpo vivo. Per questo grande stare insieme, ricco delle fatiche di tutti, voglio dirvi cordialmente: “Che Dio ve ne renda merito”.

Siccome fa parte della nostra natura di uomini non portare a compimento le cose che cominciamo, il ringraziamento nell’uomo assume sempre anche la forma della preghiera. Ringraziando per questo servizio reso alla comunità nell’annuncio di Gesù Cristo – che oggi nel nostro stare assieme si esprime in maniera così forte e consolante – vorrei pregarvi soprattutto di questo: rimaniamo uniti! restiamo l’uno accanto all’altro! Il sacerdozio è un servizio che può essere reso unicamente nel “noi”.

“Cooperatores Veritatis”: proprio per questo ho scelto questo motto, proprio perché in esso si esprime questo “noi” del nostro ministero. Solo in quanto fratelli di Gesù Cristo, solo in quanto inseriti nella grande comunità dei chiamati e solo in quanto siamo il “noi” del presbiterio di una diocesi, possiamo come singoli individui offrire un servizio a tutto l’insieme e per tutto l’insieme. Restiamo uniti! Vi prego di questo con tutto il cuore.

Restiamo uniti nei decanati. Abbiamo attenzione gli uni per gli altri, quando qualcuno è affaticato. Veniamoci incontro a vicenda. Parliamo tra noi. Sosteniamoci vicendevolmente. Aiutiamoci mutuamente. Scambiamoci i carismi in modo da rendere così gli uni agli altri più facile il servizio, proprio nel darci gli uni gli altri quello che possiamo! Restiamo fianco a fianco e non parliamo di noi come se fossimo divisi in fazioni avverse!

È cosa buona e giusta che vi sia una varietà di carismi come pure una varietà di modi di intendere il servizio. La Chiesa ha bisogno di questo perché gli uomini sono differenti fra loro. Ma non permettiamo che questo sia causa di divisione. Rimaniamo perciò fianco a fianco, non distruggiamo quella reciproca fiducia di fondo, così da vivere in forza della comune fede, della comune missione, di modo che, pur con tutte le differenze esteriori, pensiamo e agiamo in base a questo comune fondamento e per suo amore; e possiamo davvero appartenerci reciprocamente e reciprocamente edificarci. Rimaniamo fianco a fianco! Teniamoci uniti: è possibile, nonostante tutte le diversità, se restiamo presso ciò che veramente ci tiene assieme, se rimaniamo presso Nostro Signore, se rimaniamo presso Gesù Cristo. Amiamolo, andiamogli sempre di nuovo incontro!

Il breviario, la preghiera personale, l’immergersi nella meditazione della sua Parola: non si tratta solo di abitudini esteriori, contingenti, che si sono sviluppate nel corso della storia; sono i segnavia che insieme ci indirizzano all’essenziale. Solo se è profondamente radicato in noi questo fondamentale principio dell’essere uniti gli uni agli altri, possiamo sopportare le tante differenze, perché mai comunque è in discussione ciò che è essenziale, perché siamo tutti accanto a lui, perché siamo nella barca di Gesù Cristo.

Rimaniamo accanto al Signore! Non permettiamo che si laceri la profonda relazione interiore con lui! Viviamola perché possa sostenerci! E rimaniamo fianco a fianco anche nel senso di non tentare di dividere Cristo dalla sua Chiesa. Non inventiamoci un nostro Gesù che sarebbe migliore di quello reale che ci viene incontro nel suo Corpo, la Chiesa! Non inventiamoci un vangelo migliore da contrapporre ai travagli e ai fallimenti della Chiesa! Crediamo che Cristo ha voluto vivere in un corpo e che questo corpo è umano! Crediamo che egli è presente solo nel “noi” della comunità che egli ha guidato nella storia attraverso tutte le tribolazioni. Crediamo che abbiamo davvero la sua Parola solo in questo “noi”, nella comune fede della Chiesa, e anche personalmente la possiamo così scoprire, in modo sempre nuovo e sempre più profondo, nell’inesauribilità e nella grandezza che le è propria. Restiamo fianco a fianco nella Chiesa concreta, nella Chiesa con il vescovo, con il collegio episcopale, con il Papa, e viviamo in essa l’unico vangelo del Signore, che è tutta la nostra forza. Ogni altro tentativo potrebbe solo portare a nuove separazioni. Ringraziamo il Signore che ogni volta ci introduce in questa unità e, in tutta umiltà e pazienza, ricerchiamola sempre di nuovo!

La messe è molta, dice il Signore nel Vangelo di oggi. Ho ancora negli orecchi le parole proclamate dal Santo Padre alla moltitudine riunita sulla spianata di Theresienwiese, a Monaco, rivolte soprattutto ai tanti giovani presenti, e con quale profondità spiegò queste parole sulla  messe: come Dio l’abbia posta negli uomini, come ora essa voglia crescere e maturare in loro sotto il sole della verità di Dio e del suo amore. La messe è molta, anche e specialmente oggi, Quando si conversa con dei giovani, capita di rimanere sbalorditi nel constatare quanto desiderio ci sia di una vita migliore, di un’alternativa, di un senso che dia un vero sostegno; capita di rimanere sbalorditi nel vedere quale messe ci sia proprio oggi in quel desiderio e in quella ricerca, che attende degli operaispecialmente se poi si osserva che tipo di uccelli vi si avventino sopracercando di far propria quella messe. La messe è molta. E dovremmo ringraziare il Signore per averci chiamato a servire in questa messe secondo le nostre possibilità, che sempre possiamo e dobbiamo accettare umilmente.

«La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe!» (Le lO, 2). Questa è anche l’ultima, grande esortazione che rivolgo a noi tutti: che cioè, secondo l’invito del Signore, facciamo sempre risuonare di fronte a lui questa invocazione come nostra comune preghiera; che lo preghiamo, audacemente, come egli ci ha insegnato a pregare. Una preghiera così non rimane inascoltata. Se il trend degli ultimi quindici anni fosse proseguito secondo le previsioni degli esperti di statistica, nel 1981 in tutta la Germania nei Seminari diocesani ci sarebbero stati solo 130 candidati nel triennio teologico; erano invece 542. Non si dovrebbe fare eccessivo affidamento sui numeri, ma questo mostra comunque che non vi sono leggi immutabili, che c’è del nuovo, che c’è un nuovo inizio del cammino, che la statistica non tiene conto, non può tener conto della libertà. E oggi in Germania ci sono alcune diocesi che dicono con gratitudine che non soffrono più alcuna penuria di candidati al sacerdozio.

Il cammino è iniziato di nuovo. Significa che possiamo pregare, che è lecito pregare, che è lecito nutrire fiducia. Facciamolo con tutto il cuore! Facciamolo rivolti al Signore. Ma facciamolo anche rivolti gli uni verso gli altri. E non facciamolo solo con le parole, ma con tutto il nostro essere. Invitiamo gli uomini, i giovani a rischiare sulla Parola, ad assumersi questo servizio, grande perché arduo e dunque bello! Sappiamo che anche la differenza generazionale non rappresenta un ostacolo: molti di noi hanno trovato questa strada proprio grazie a un sacerdote più anziano, nel quale hanno visto un’umanità piena, una bontà matura e l’hanno trovato degno della propria fiducia. Abbiamo l’ardire di interpellarli, di invitarli, senza far violenza alla loro libertà, con la nostra parola, con il nostro annuncio, con tutto noi stessi. Facciamolo con piena fiducia nel fatto che il Signore aspetta la nostra preghiera per poter operare per noi.

E ringraziamo ancora una volta il Signore perché ci ha chiamato a stare di fronte a lui e a servirlo. Signore, abbiamo messo le nostre mani nelle tue. Guidaci come tu vuoi! Chiama uomini al tuo servizio, perché la tua messe cresca in questo nostro tempo!

QUI L’ORIGINALE

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