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Senza Dio siamo troppo poveri per aiutare i poveri

AFRICAN GIRL SMILING
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Breviarium - pubblicato il 25/07/18
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Agnese, Irene, Maite, Leo sono le quattro suore della missione a Calulo in Angola.. All’occorrenza diventano ingegneri, educatrici, infermiere, cuoche, esploratrici! Sembrano un intero esercito….vivendo con loro ho scoperto qual è il segreto di questa forza.di Claudia Cassano

Ladies and gentlemen stiamo atterrando all’aeroporto di Luanda, si prega di allacciare le cinture di sicurezza, grazie.

Dal finestrino la città mi sembrava esattamente come l’avevo immaginata dalle descrizioni che avevo letto: gli edifici di un colore sabbia africana e la costa dell’oceano atlantico a dominare la vista che si ha dall’alto. Passo i controlli più velocemente di quanto mi aspettassi e anche i bagagli per fortuna arrivano subito.



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Esco fuori e cerco il mio nome tra i cartelli di autisti o colleghi che aspettano qualcuno, mi sento come un bambino che esce da scuola e che fruga ansioso tra gli sguardi quello della mamma tra un misto di fiducia e paura che non ci sia. Il mio nome non c’è. E se le suore non vengono a prendermi che faccio qui da sola dall’altra parte del mondo? Grazie a Dio questo timore dura poco, dalla porta a vetri dell’aeroporto vedo arrivare una suora salesiana che entra di corsa e va incontro a una ragazza dai tratti occidentali con un grande sorriso: «Claudia!». La ragazza risponde di non chiamarsi così e la suora ci resta pure un po’ male, ma questo mi permette di andarle incontro divertita e decisamente sollevata, dicendole che sono io. E Irma Irene mi abbraccia e mi bacia con un grande affetto come se già ci conoscessimo. Questa accoglienza è quella che mi avrebbe aspettato nella missione di Calulo e per la quale a una settimana dal mio arrivo qui in Angola non smetto ancora di sorprendermi e ringraziare.

Fuori dall’aeroporto ci aspettava un autista che aiuta le suore e che aveva accompagnato Irma Irene a prendermi, avevano viaggiato cinque ore per arrivare a Luanda e li aspettavano altre cinque per tornare a casa, ma per loro è normale, bisogna percorrere spesso queste distanze per poter raggiungere la città con tutto quello che vi si trova e che non c’è nei villaggi.

Le ore di viaggio mi permettono di entrare gradualmente in questo contesto molto molto diverso dal nostro. Dal traffico di Luanda, che in quanto a creatività automobilistica batte Napoli e Roma 20 a 0, passiamo nella regione interna del paese, attraversando scenari variopinti di donne dagli abiti sgargianti che vendono i loro prodotti sul ciglio dei marciapiedi, manifesti delle recenti elezioni politiche, centri commerciali, favelas, fabbriche cinesi, per poi lasciare la strada asfaltata e percorrere lunghi tratti di sterrato per passare in mezzo alle province e ai villaggi.

Avevo pronta la macchina fotografica per fermare qualche immagine, ma non l’ho mai usata, ero come paralizzata a osservare, rispettosa di quella gente e della semplicità in cui vive. Scende intanto la sera e alcune case non hanno neanche la corrente elettrica, Irma Irene mi spiega che alcune persone lì devono camminare fino ai fiumi per poter prendere l’acqua. Arriviamo alla missione che è l’ora di cena, le suore della casa e le ragazze della casa famiglia che vivono accanto a loro, sono tutte lì ad accogliermi con i loro canti di benvenuto. Inizia così questa avventura. Nel giro di una settimana mi ritrovo a girare per casa liberamente e fare merenda con banane fritte e maioca, ho iniziato a condurre i corsi di educazione affettiva e sessuale per gli adolescenti delle scuole della missione e per quelli dell’oratorio, collaborato con i catechisti della parrocchia per organizzare gli incontri con i ragazzi e sono andata a visitare una volta la scuola rurale di Quitila dove tornerò un paio di volte alla settimana. Qui non ci si ferma mai. Ogni suora ha le sue attività e il suo da farsi, sembrano delle trasformiste che passano dall’essere mamme e nonne al diventare Indiana Jones alla guida della loro jeep per andare a fare catechesi nei villaggi intorno a Calulo o per prendere i professori e portarli alla scuola di campagna, perché non hanno macchine e senza di loro i bambini dei villaggi più lontani non potrebbero studiare; e poi diventano ingegneri che seguono i cantieri per la costruzione dei bagni della scuola; manager che devono gestire una scuola con più di 1200 ragazzi; educatrici che riescono a ritagliarsi del tempo anche per avere dei colloqui individuali con i bambini o con i loro genitori; e poi ancora infermiere, cuoche, econome, insegnanti, animatrici, maestre di coro, catechiste, evangelizzatrici per gruppi di centinaia di adulti che la domenica fanno anche dodici chilometri a piedi per ascoltarle. Ah già e in tutto questo non dimentichiamo che sono anche suore. Sembrano un esercito, ma sto parlando di sole quattro donne: un’italiana, una guatemalteca, una spagnola e una angolana (che detto così sembra l’inizio di una barzelletta). Agnese, Irene, Maite, Leo, le loro sono storie vere, storie vissute. Insieme ai sacerdoti salesiani che hanno fondato la missione, si dedicano ogni giorno con energia e amore alla gente del posto e ai più poveri.


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Non è facile. Il primo impatto che ho avuto qui mi ha fatto sentire tutte le emozioni in forma amplificata: paura, perché le condizioni del posto ti rendono pienamente consapevole che, se non stai attento, il tuo stato di salute è più a rischio (in pratica, l’unico lusso che mi permetto qui ogni giorno sono tre gocce di Autan n. 5); tristezza perché la povertà che vedi non può che farti stringere il cuore, rabbia perché sai che è profondamente ingiusta la differenza tra questo stato di vita e quello dei paesi più ricchi. E poi anche gioia, perché resti affascinato dalla profondità dello sguardo degli adulti, dalla vivacità degli occhi dei bambini, dai colori, dalle musiche e dalle danze di questo popolo, da un’allegria che sembra volersi affermare prepotentemente sulle difficoltà per vincerle con la speranza. Qui anche chi non mi conosce mi saluta. L’altro giorno, con la jeep carica di tutti i prof, abbiamo riaccompagnato a casa una bambina della scuola di Quitila perché aveva mal di pancia e per evitare di farle fare un’ora di cammino, il tempo abituale che impiega ogni giorno per andare e poi tornare da scuola a piedi, passando per i campi. La famiglia viveva in una casa isolata in mezzo alle piantagioni e al nostro arrivo, di quel niente che aveva, ci ha offerto tutto, con un immenso sorriso, noccioline e patate dolci.

Come si fa a reggere di fronte a tutto questo? Sono arrivata qui il 5 settembre, il giorno di Santa Teresa di Calcutta, un onore per me poter affidare proprio a lei questa mia esperienza. Quello stesso giorno ho ricevuto un video su whatsapp di un’intervista al cardinal Comastri che raccontava di un suo incontro con Madre Teresa. Il cardinale ricorda che la Madre gli chiese quanto tempo dedicasse alla preghiera, aggiungendo: «Fai un po’ di orazione ogni giorno, altrimenti non reggi». La Madre aggiunse:

Tu credi che io potrei andare ogni giorno dai poveri se Gesù non mi mettesse nel cuore il suo amore? Pregando, Gesù mi mette nel cuore il suo amore e io vado a portarlo ai poveri che incontro. Ricordati, Gesù per la preghiera sacrificava anche la carità, per ricordarci che senza Dio siamo troppo poveri per poter aiutare i poveri.

https://youtu.be/kfbNn2diBos

Senza Dio, siamo troppo poveri per poter aiutare i poveri.

Non può essere che questo il segreto di queste suore e di tutti i missionari che operano qui e nel mondo. Per ora passo e chiudo, c’è fermento in casa perché due capre sono entrate nel giardino e le bambine le stanno rincorrendo per scacciarle, ridendo come matte. Anche questo fa parte della vita qui a Calulo.



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