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Memoria, speranza, perdono: la risposta dei cristiani mediorientali alla persecuzione

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Fondazione Oasis - pubblicato il 23/07/18
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Di generazione in generazione, le famiglie irachene insegnano ai loro figli a rispondere alla violenza con il perdono. Una testimonianza.«Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita: le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli» (Dt 4,9).

Sono le parole che Mosè rivolse agli Israeliti nel deserto, dopo aver sconfitto Sicon, Re degli Amorrei, e Og, re di Basan. Esse riassumono accuratamente l’eredità della mia famiglia e quella di tante altre famiglie cristiane che, recentemente, sono tornate nelle loro città e nei loro villaggi liberati dall’ISIS nel nord dell’Iraq e nella piana di Ninive. Ma che cosa chiede Dio agli israeliti e a quale eredità ci riferiamo?

«Radunami il popolo e io farò loro udire le mie parole, perché imparino a temermi per tutti i giorni della loro vita sulla terra, e le insegnino ai loro figli». (Dt 4,10)

A prima vista la risposta potrebbe sorprendere, visto che parlare del timore di Dio in tempi di persecuzione sembrerebbe poco accettabile. Di fronte alla sofferenza, non è proprio il “timore” che siamo incoraggiati a evitare? In questo paradosso, il principio dell’“ermeneutica della continuità” di Papa Benedetto XVI potrebbe, per analogia, aiutarci a scorgere qualcosa di significativo e in armonia con il comportamento e la risposta dei cristiani del Medio Oriente alla persecuzione.

Solo mettendo l’accento sulla risposta cristiana alla sofferenza e alla persecuzione diventa chiaro che il timore di Dio è sempre stato l’antidoto all’odio e alla disperazione. La cosa più sorprendente del vivere nel timore di Dio in tempi di persecuzione è che esso ci sprona a ricordare la Sua bontà passata e ad avere fiducia nella Sua provvidenza. Il timore di Dio altro non è che una richiesta di saggezza e di comprensione e la preghiera di non perdere il senso del nostro essere peccatori, vulnerabili.

Ecco perché quando l’ondata di persecuzioni diminuisce, i sopravvissuti affrontano tre domande esistenziali: come dare un senso al tragico passato, come affrontare un presente sconsolante, segnato da ciò che si è perso e dall’incertezza, e infine quale futuro garantire ai nostri figli e ai figli dei nostri figli. Tali domande ci permettono di concentrarci su tre parole chiave che, nel tempo, racchiudono l’essenza della risposta cristiana alla persecuzione: la memoria, la speranza e il perdono.

I perseguitati sono perlopiù colpiti nella loro possibilità di sostentamento quotidiano e subiscono perdite materiali, esilio e umiliazioni. Non di rado pagano con il sacrificio ultimo. Alleviare i bisogni materiali immediati dei nostri fratelli e sorelle è dunque una questione di giustizia e carità. Tuttavia, non possiamo soccombere alla tentazione di fare di questi aiuti la risposta principale, la condizione sine qua non per la sopravvivenza della Chiesa perseguitata. I perseguitati hanno infatti bisogni spirituali a cui bisogna rispondere con lo stesso zelo e fervore. Prendersi cura spiritualmente dei perseguitati non è un dovere, ma un privilegio. Deve ancora maturare un’adeguata cura pastorale, sviluppata in modo particolare per le persone perseguitate, sia durante la persecuzione che nel periodo successivo ad essa.

Nel periodo della ricostruzione, la cura pastorale dei perseguitati dovrebbe fondarsi sul mantener viva la memoria cristiana. Le comunità perseguitate hanno una grande resilienza e una grande senso di fiducia nella divina provvidenza. Non si tuffano nei ricordi per crogiolarsi nel passato, ma per rivivere la loro esperienza personale della bontà di Dio in un periodo di prove e tenebre. Grazie al ricordo della fedeltà di Dio nel passato, riescono a «trovare forze e poter camminare in avanti», come ha detto recentemente Papa Francesco. Le nostre famiglie perseguitate non si sono mai abbandonate al passato per lamentarsi delle difficoltà vissute, ma per ricordarsi, come afferma ancora il Papa, che «la memoria cristiana è sempre un incontro con Gesù Cristo» e che solo ricordando la fedeltà di Dio c’è speranza per il futuro.

La speranza non è un tratto innato di una mente ottimista, bensì un atteggiamento di attenzione e “anticipazione” spirituale. Significa poggiare entrambi i piedi sul solido fondamento della fede, tenendo alte le nostre teste nella certezza che la nostra attesa troverà una risposta, non in circostanze migliori, ma, in definitiva, in una Persona. Il ricordo di Gesù crocifisso è l’eredità che ha aiutato la Chiesa perseguitata a vedere la mano di Dio dietro gli eventi. Mia nonna ci diceva che se una porta ci si chiude in faccia, Dio, nella sua misericordia, è capace di aprirne altre nove. È un’immagine commovente che rispecchia un’altra immagine biblica – dal Libro di Osea – che ci ricorda il potere di Dio e la Sua volontà di «trasformare la Valle dei Guai in porta di speranza». (Os 2,17)

Grazie alla cultura della memoria e della continuità, queste parole di San Paolo ai Romani non sono mai state lettera morta per me: «Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio». (Rm 8,18-21)

L’anno scorso, durante una conferenza alla quale stavo partecipando, un altro conferenziere ha avuto una reazione interessante all’esperienza della mia famiglia, sulla quale vale la pena soffermarsi un attimo. Spiegando come i miei parenti siano stati sfollati quattro volte in meno di 100 anni e abbiano perso le loro proprietà e i loro averi almeno due volte in un periodo di 25 anni, ho sottolineato la centralità e la continuità del perdono nella risposta della mia famiglia alla persecuzione. Il relatore ha replicato, in maniera ragionevole e ben intenzionata, «che ciò è molto nobile, ma i responsabili devono essere consegnati alla giustizia».

In qualsiasi società ben ordinata, basata sullo Stato di diritto, la risposta appropriata e giusta è che i reati siano perseguiti e puniti. Tuttavia, di fronte a ondate di persecuzione sistematicamente ricorrenti, i nostri genitori e nonni hanno scelto la via del perdono. Come cristiani siamo chiamati a liberare gli altri e a cercare la giustizia riparatrice, non punitiva.

La mia famiglia e tante altre coraggiose famiglie cristiane in tutto il Medio Oriente hanno sempre scelto il perdono, non perché sono state traumatizzate o hanno perso la fede nella giustizia di una punizione appropriata. Piuttosto, erano pienamente consapevoli del fatto che, per arrivare alla riconciliazione, loro – e solo loro – potevano liberare sé stessi e gli altri dal circolo vizioso dell’odio e della vendetta. Accettare la nostra partecipazione alle sofferenze di Cristo, perdonare i nostri nemici e benedire coloro che ci perseguitano è l’unico modo attraverso il quale possiamo restituire alla creazione la sua libertà.

Il perdono non riguarda la ridefinizione del bene e del male, quanto il nostro modo di trattare gli altri, ricordandoci della loro dignità in quanto esseri creati a immagine di Dio, al di là di quanto possa essere ferita o distorta tale immagine. Le nostre famiglie hanno sempre scelto la via della giustizia riparativa, perché è l’opzione biblica per eccellenza e la via maestra dei cristiani. Hanno insegnato ai loro figli e ai figli dei loro figli che sia l’offeso che l’offensore reato hanno bisogno del perdono: il primo per poter vivere conformemente alla dignità cristiana, nell’imitazione del suo Redentore crocifisso; il secondo per poter essere liberato dalla schiavitù paralizzante del male. Il perdono e la giustizia vanno di pari passo: chi perdona porta giustizia e rettitudine, soccorre gli emarginati e rifiuta l’oppressione o la violenza (cfr. Ger 22,3).

Dobbiamo ricordare che la persecuzione non ha mai messo in ginocchio una Chiesa o una comunità cristiana. È vero il contrario: il sangue dei martiri è seme di vita. La gioia cristiana è radicata nell’atto di ricordare la bontà di Dio, confidando in Lui e temendolo. È una gioia radicata nella croce che “svela più misteri di quelli che crea”.

È dunque appropriato finire questo contributo con le parole della lettera agli Ebrei, che ci ricordano di guardare a Cristo, il quale «di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore». (Eb 12,2).

 

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