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Davanti agli occhi di Josefa salta la nostra credibilità

MIGRANT RESCUE

Members of the Spanish NGO Proactiva Open Arms rescue a woman in the Mediterranean open sea about 85 miles off the Libyan coast on July 17, 2018. / AFP PHOTO / PAU BARRENA

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Annalisa Teggi - pubblicato il 20/07/18
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E’ sopravvissuta in acqua per 48 ore prima di essere soccorsa. Cosa ci racconta il suo sguardo terrorizzato?

C’è un grande frastuono di voci attorno a lei, vorrei avvicinarmi ma è fatica. Leggo tutti gli articoli, ma poi mi fermo a ingrandire la sua foto per stare sola, in compagnia degli occhi sgranati e muti con cui ha abbracciato i soccorritori. Una donna discinta accanto a uomini con casco e salvagenti e funi di sicurezza: questa sua nudità vorrà dire qualcosa. Sentirà forse il bisogno di coprirsi il basso ventre, oppure è abbandonata alla barella con inerte gratitudine. Sussurra “Merci“, non ricorda altro che le botte del marito da cui è scappata.

“Sono del Camerun, sono scappata dal mio paese perché mio marito mi picchiava. Mi picchiava perché non potevo avere figli”, racconta Josefa (non Josephine, come si era detto inizialmente) con un filo di voce in un francese dolce. Si tocca la pancia. “Non potevo avere figli”, ripete. (da Internazionale)

Josefa è rimasta in acqua 48 ore, giorno e notte, accanto a lei un’altra donna e un bambino che poi sono morti; questo raccontano tutti i giornali. E poi attaccano con le implicazioni politiche, le ONG contro Salvini, Salvini contro tutti, fake news contro comunicati stampa, twit contro dirette Facebook. Chi ha il commento più illuminato, azzeccato, sorprendente, elucubrato, sofisticato, emotivo, aggressivo?
In silenzio non ci sta nessuno, cara Josefa, e io non ci capisco niente. Davvero, il silenzio lo vedo addosso a te e lontano mille miglia da noi.


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E in mezzo c’è il mare. Ognuno sta barricato nella sua isola di sapienza. Nessuno ha il coraggio di ammettere che nuotiamo nel mare dell’incomprensione umana, dell’inadeguatezza, finché non saremo sulla spiaggia della Verità. All’asciutto e al sicuro.

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Il silenzio del mare di notte deve essere terribile, hai pregato Josefa? Come hai trascorso le ore? C’è stato forse un momento in cui ti saresti lasciata andare, mollare la presa incerta, stendere le braccia e consegnarti alle acque. Tu parli francese, mi ha sempre colpito che in questa lingua mare e madre coincidano. Forse hai pensato anche a tua madre, chi è in pericolo di vita implora sempre questo vincolo umano originario. Ti sei aggrappata per non morire come un neonato afferra il seno con la bocca.

Un grande scrittore americano raccontò nel suo capolavoro, Moby Dick, di un piccolo bambino nero che cadde da un vascello nell’oceano e ci rimase per giorni finché i marinai della sua ciurma non riuscirono a ripescarlo. Da quel momento il bambino fu giudicato pazzo, perché diceva cose incomprensibili agli altri umani. Melville suggerisce che era arrivato a profondità così assurde da toccare i piedi di Dio. Non è che non sapesse più parlare, aveva cambiato modo di essere e di esprimersi. Era diventato profeta, perché stava aggrappato all’Assoluto e basta.


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Tutti gli altri si credevano in viaggio a bordo della propria nave, lui solo sapeva di essere una molecola a galla nell’abisso di Dio. Sopravvissuto come te, impazzito o rinsavito. Anche noi siamo marinai che parlano la lingua di chi si sente perennemente in salvo e allora gioca a fare il sapiente, il risolutore. Capitani di yacht, poveri illusi.

I tuoi occhi spalancati, Josefa, ci rendono ridicoli. Fai saltare l’unità di misura della nostra credibilità.
Tu sei il verso di Baudelaire che mi fa piangere tutte le volte che lo rileggo; è nella poesia I fari e dopo aver raccontato tutti i grandi tentativi fatti dagli artisti come Rubens, Michelangelo, Goya, Delacrois il poeta conclude scrivendo che la testimonianza più alta di tutti questi uomini è un “ardente singhiozzo che muore sulla sponda dell’eternità di Dio”. Non voglio fare l’erudita, vorrei dire e non so. Allora mi rifugio nella voce di chi credo abbia guardato l’uomo nel modo più sincero possibile.

Davvero la Cappella Sistina è un singhiozzo ardente? Sì, è tutto ciò che un uomo può fare e dare per stare in vita. È aggrapparsi a ogni trave per non sprofondare nella notte. Il talento di un uomo, il suo destino più vero, quello di tutti noi, è tenere la testa un po’ fuori dalle acque, dall’ipotesi che il nulla ci possa inghiottire.

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Jorge CC

È più facile parlare d’altro, quando dobbiamo dare un nome alla storia della tua sopravvivenza incredibile. Abbiamo paura di guardare il fatto nudo e crudo perché si porta addosso tutto il peso del nostro destino. Noi vogliamo ridere, altro che singhiozzo. E se non c’è da ridere allora possiamo benissimo urlare. Confutare, arguire, disputare, smontare, accusare: sono i verbi che ci piacciono. Vogliamo qualcosa che ci metta in evidenza, ben in rilievo anche se stiamo all’opposizione.

Il singhiozzo è sgradevolissimo, arriva dopo che si è pianto a profusione e non smette di farci sussultare. Ecco, Josefa, sono arrivata qui: a ipotizzare forse ci fa bene piangere tanto per il dolore ingiusto che vediamo. Mi sento di singhiozzare sulla sponda di Dio, e non di litigare con gli uomini sulla soluzione al tragedia dei migranti. Il pianto lava, pulisce; è una via di discernimento, non di lamento fine a se stesso.



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Anche se non so bene metterlo a fuoco, tu sei lo specchio della giornata di ogni vivente. Non c’è niente di sicuro per sempre. Non camminiamo mai tra le mura dorate di un castello. C’è solo una trave bagnata a cui aggrapparsi, cadere e affogare è il pericolo dietro ogni scelta.

Mi fa tanta paura riconoscere, guardando la tua nuda stanchezza, che attendiamo una salvezza che non può venire dalle nostre mani. È facile annuire quando il prete ne parla durante l’omelia. Lo è meno guardandoti negli occhi, ma non distolgo lo sguardo. Ti sto a fissare ancora un po’, mi esercito finché riesco nel tremore del figlio che si sveglia di notte all’improvviso e chiama il Padre.

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