Sono coloro che non studiano, non lavorano e non si formano. Trascorrono le giornate oziando, spesso sui social network. Il professore Rosina: giovani troppo immaturi, iper protetti dalle famiglie. Ecco come si può uscire da questa condizione
NEET è l’acronimo inglese di “not (engaged) in education, employment or training“, in italiano anche né-né indica persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione.
Il professor Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia alla “Cattolica” di Milano, ha studiato questo triste e grave fenomeno. All’attivo vanta numerose pubblicazioni, tra cui Non è un paese per giovani (2009), Neet: giovani che non studiano e non lavorano (2015), Il futuro che (non) c’è (2016).
L’Italia è il primo Paese europeo per numero di Neet: ne sono 2 milioni e 189 mila tra 15 e 29 anni, secondo il rapport Istat 2017 (La Repubblica, 13 luglio)
Rosina (nella foto qui sotto presa dal suo profilo twitter) ha provato a spiegare il perché di questo primato, di cui non c’è ovviamente da vantarsi, in un’intervista ad Alberto Galimberti, raccolta in “È una Chiesa per giovani?” (Ancora editrice).
Nessun investimento
«È un triste primato e suona peraltro paradossale – premette Rosina – poiché, come conseguenza dell’accentuata denatalità, noi abbiamo già meno giovani rispetto agli altri Paesi europei. Dal punto di vista quantitativo abbiamo disinvestito sulle nuove generazioni. Dovremmo fare tesoro dell’insegnamento tedesco. La Germania ha subito lo stesso crollo delle nascite, con relativo de-giovanimento, solo che l’ha compensato con un potenziamento qualitativo. La comparazione con il modello tedesco è interessante in termini di strategie-Paese adottate».
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La strategia della Germania
«La Germania , avendo meno giovani – prosegue il docente – ha investito di più sulle politiche attive del lavoro, nella formazione sia professionale sia terziaria. Hanno detto: “Una volta preparati bene, i nostri giovani li inseriamo bene nel mondo del lavoro”. Hanno perciò puntato sui centri per l’impiego, fondamentali per accompagnare i giovani in un mercato del lavoro sempre più complesso, anziché abbandonarli a se stessi, rendendo efficiente l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Incontro che in Italia non avviene».
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Le raccomandazioni “made in Italy”
Questo accade «perché da noi vige un altro modello. Non ci curiamo di predisporre percorsi finalizzati a rispondere alla domanda di lavoro, alle esigenze delle imprese. Collochiamo i giovani dove capita o, peggio, lasciamo che entrino, quando riescono a entrare, sulla spinta di relazioni di tipo familiare e amicale, con buona pace della meritocrazia».
Assenza di formazione seria
A fronte di ciò, istruzione e alta formazione sono considerate investimenti secondari.
«All’interno di un processo di riconoscimento dell’importanza di una solida formazione – evidenzia Rosina – c’è comunque un aspetto debole che riguarda le classi sociali più basse, per le quali il costo di formazione dei figli è particolarmente rilevante. Tanto più in un’Italia dove il diritto allo studio è più fragile rispetto agli altri Paesi. Questo origina due problemi: abbiamo una bassa percentuale di giovani che terminano il percorso formativo fino alla laurea e creiamo forti diseguaglianze. Chi arriva al traguardo sono spesso i figli di genitori dotati di maggiori risorse economiche e culturali».
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Non sono giovani “svantaggiati”
Allora quali sono le misure necessarie per facilitare l’accesso al mondo del lavoro dei giovani, trasformandoli in risorse utili al Paese? Rosina è categorico: «Le giovani generazioni, proprio perché sono nuove, quando hanno gli strumenti giusti – formazione e motivazione – possono raggiungere obiettivi importanti e diventare risorse positive per la comunità. Non possiamo rifugiarci dietro la sciocchezza che i giovani italiani “geneticamente” partano svantaggiati».
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La pigrizia dei trentenni
«Noi dovremmo allenare bene le nuove generazioni – sentenzia il docente e scrittore – fin da subito affinché ciascuno possa seguire il proprio percorso di vita, in base alle proprie aspirazioni coniugate con la dinamicità e il cambiamento del mondo del lavoro. Al di là di questo, è anche vero che un giovane prossimo ai trent’anni dovrebbe prendere in mano il proprio destino, andando oltre le fragilità del sistema».
L’età “chiave”
L’età chiave di questo processo «è quella tra i sedici e i diciassette anni. Se lì i giovani si spengono, cioè non maturano una visione prospettica della loro vita, smettono di pensarsi adulti e, in forza di ciò, non riflettono sulle scelte giuste da prendere, dopo sarà troppo tardi. Altrove, a diciassette anni, sei sollecitato a pensare come rendere spendibili le tue scelte formative nel mondo del lavoro, perché l’autonomia dai genitori si ottiene molto prima dei venticinque anni».
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Giovani immaturi
In Italia invece «l’idea che si possa vivere con i genitori oltre ai trenta fa sì che il preoccuparsi positivamente del proprio futuro e la responsabilizzazione rispetto alle proprie scelte siano processi rimandati, salvo poi, dopo la laurea, essere spaesati, privi di riferimenti e mete. L’iper-protezione da parte delle famiglie tende a mantenere immaturi più a lungo i figli, mentre la spinta all’autonomia dopo i vent’anni, come accade nell’Europa settentrionale, li costringe a confrontarsi prima con i vincoli e le opportunità della realtà».