In paesi come l’India o Myanmar possono uccidere, letteralmente Uno dei temi più cari a papa Francesco è quello delle chiacchiere che feriscono e uccidono la comunità. “Non ci sono chiacchiere innocenti”, disse il 13 settembre 2013 durante la sua predica nella Domus Sanctae Marthae in Vaticano. Nel suo discorso rivolto il 7 novembre 2014 ai partecipanti all’assemblea nazionale della Conferenza Italiana Superiori Maggiori (CISM), il Pontefice ha persino utilizzato l’espressione “terrorismo delle chiacchiere”.
Un pensiero ancora più forte il Papa l’ha formulato nel suo messaggio per la 52.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, celebrata domenica 13 maggio scorso, giorno di Pentecoste. Nel testo, il Pontefice si è soffermato sul fenomeno delle cosiddette fake news, ossia le notizie false o infondate, le bufale quindi, che per la loro diffusione possono “contare su un uso manipolatorio dei social network e delle logiche che ne garantiscono il funzionamento”. Per Francesco, la prima fake news della storia è stata quella lanciata dal “serpente astuto” menzionato nel Libro della Genesi, che poi si è purtroppo concretizzata nel “primo fratricidio” della storia: Caino che uccide suo fratello Abele (Genesi 4).
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Episodio più recente nel Maharashtra
Che le parole del Pontefice non sono metafore dimostra una notizia che viene dall’India. La polizia di Mumbai (ex Bombay), nello Stato del Maharashtra, ha arrestato lunedì 2 luglio 2018 in totale 23 persone sospettate di essere state coinvolte nel linciaggio di otto persone, di cui cinque sono decedute, avvenuto domenica 1° luglio in un villaggio nel distretto di Dhule, Rainpada.
Come spiega il quotidiano Hindustan Times, messi in allerta da una fake news diffusa sulla popolarissima app di messaggistica istantanea WhatsApp, gli abitanti del villaggio pensavano erroneamente di trovarsi di fronte ad un gruppo di rapitori di bambini o child lifters. A scatenare la violenza omicida è stato il fatto che le vittime, tutti membri di una comunità nomade, stavano parlando con una bambina.
Secondo quanto riferito dal quotidiano, linciaggi provocati da notizie false su presunti rapitori di bambini lanciate sulle reti sociali hanno provocato nel periodo che va dal 20 maggio al 30 giugno scorsi in totale 14 vittime. Tra di loro — ironia della sorte — anche un operatore sociale, il trentatreenne Sukanta Chakraborty, che era stato appositamente ingaggiato dall’Information and Culture Department dello Stato di Tripura (nel nord-est dell’India) per una campagna di sensibilizzazione riguardo ai messaggi e video falsi che circolano sulle reti sociali.
Si tratta purtroppo di un fenomeno molto diffuso. Linciaggi sono stati registrati in dieci dell’in totale 36 Stati e territori della Federazione indiana: Andhra Pradesh, Assam, Bengala Occidentale, Gujarat, Karnataka, Madhya Pradesh, Maharashtra, Odisha, Telangana e Tripura. Sono inoltre decine le notizie che parlano di persone innocenti picchiate selvaggiamente perché “dall’aspetto sospetto”, così riferisce di nuovo l’Hindustan Times.
Nel caso del linciaggio di domenica scorsa, il video all’origine della violenza cieca degli abitanti di Rainpada era stato girato da una ONG pachistana, Roshni Helpline, proprio con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico sul fenomeno del child-lifting e del traffico di minori.
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Non credere a queste cose
Mentre punta il dito contro i social media, il direttore generale della polizia dello Stato di Tripura, Akhil Kumar Shukla, ha chiesto agli abitanti dei villaggi “di non dar retta alle voci” che circolano. “Il problema è che una volta il messaggio diventa virale è difficile controllarlo. Se la gente smette di credere a tali messaggi, si può affrontare il problema”, così ha dichiarato a sua volta il direttore generale della polizia dello Stato dell’Odisha, RP Sharma, all’Hindustan Times.
“Non credere a queste cose”, è anche il messaggio che la trentanovenne poliziotta Rema Rajeshwari rivolge agli abitanti dei villaggi che visita nel suo distretto nello Stato di Telangana, nel sud-est dell’India. La sua missione è cercare di fermare l’impatto sulla popolazione dei messaggi fasulli in rete, racconta Iain Marlow su Bloomberg.com, che offre un ritratto della poliziotta.
“Vedete questi messaggi, queste foto e questi video, ma non controllate se sono veri o falsi, li inoltrate e basta”, così spiega la Rajeshwari agli abitanti. “Non diffondere questi messaggi. E quando vengono degli stranieri nel vostro villaggio, non vi fate giustizia da soli. Non ucciderli”, cerca di convincere il suo pubblico.
La giovane poliziotta, entrata nel 2009 nelle Forze di polizia, ha organizzato delle sessioni di sensibilizzazione per oltre 500 agenti. “Abbiamo dovuto istruire i nostri poliziotti prima di mandarli nelle comunità per educare le persone”, spiega la
Rajeshwari, che ha anche parlato con centinaia di capi villaggio.
La campagna portata avanti dalla Rajeshwari sembra portare i suoi frutti. Infatti, non sono stati registrati decessi legati a fake news nei più di 400 villaggi sotto il controllo della giovane poliziotta, così sottolinea Marlow.
Il dramma dei Rohingya
I social media hanno giocato anche un ruolo nel dramma umanitario del popolo Rohingya in Myanmar (ex Birmania). Ad alimentare la violenza nei confronti della minoranza islamica è stato l’incitamento all’odio o hate speech, che si è diffuso in rete “come un incendio boschivo”, soprattutto attraverso Facebook. Ne sono convinti gli esperti delle Nazioni Unite, spiega Tom Miles su Reuters.
Nel 2014, sottolinea l’autore, meno dell’1% della popolazione birmana aveva accesso ad Internet, oggi invece un quarto utilizza Facebook. Parlando con i giornalisti, il presidente della Missione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite in Myanmar, il giurista indonesiano Marzuki Darusman, ha dichiarato nel marzo scorso che le reti sociali hanno giocato un ruolo “determinante” nella crisi.
“In Myanmar tutto viene fatto attraverso Facebook”, ha aggiunto a sua volta il rappresentante speciale per i diritti umani dell’ONU, Yanghee Lee, il quale teme che la popolare rete sociale si sia trasformata ormai in una “belva”.
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Facebook & WhatsApp
La nota piattaforma di messaggistica istantanea WhatsApp, acquistata nel 2014 da Facebook, è popolarissima in India. Secondo Neha Dharia, ex analista della società Ovum e consulente a Bengaluru (ex Bangalore, nota anche come la “capitale IT” dell’India), citato da Marlow, l’app conta attualmente oltre 200 milioni di utenti nel Paese [1], che mandano ogni giorno circa 13,7 miliardi di messaggini.
Preoccupato per l’impatto delle fake news sulla popolazione, il ministro indiano dell’Informatica, Ravi Shankar Prasad, ha chiesto mercoledì 4 luglio ai responsabili di Whatsapp e Facebook di rafforzare i controlli sui messaggi fasulli. “Devono trovare un modo per bloccare la diffusione di tali messaggi”, ha dichiarato. “Fanno un bel po’ di soldi in India, quindi devono aggiungere più funzioni di protezione e di sicurezza”, ha aggiunto Prasad. Già lunedì 2 luglio, il governo del primo ministro Narendra Modi aveva chiesto al colosso statunitense di intervenire sui “messaggi irresponsabili ed esplosivi” sulla piattaforma.
Da parte sua, l’azienda di proprietà di Facebook, che in una lettera al ministero dell’Informatica si è dichiarata “inorridita da questi terribili atti di violenza”, sta da tempo lavorando a nuovi sistemi per affrontare il fenomeno delle bufale online.
La piattaforma, che conta più di 1,5 miliardi di utenti in tutto il mondo, sta infatti studiando una nuova funzione, che contrassegnerà con un bollino i messaggi che sono stati inoltrati e quindi permetterà di verificare se il testo ricevuto è stato scritto sì o no dall’utente o invece ripreso da un’altra conversazione non verificabile.
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1] Secondo le stime dell’ONU, l’India ha attualmente una popolazione di circa 1,35 miliardi di abitanti (e avrebbe persino superato la Cina).