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Gig economy e dignità dei lavoratori: la mossa di Di Maio

Un rider di Foodora

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Lucandrea Massaro - pubblicato il 18/06/18
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Cosa c’è dietro l’apparente scontro tra il capo dei 5 Stelle e Foodora?Ieri il Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, ha tenuto una tavola rotonda con i rappresentanti delle aziende della consegna del cibo tramite i cosiddetti riders (ciclisti)Deliveroo, JustEat, Foodora, Domino’s Pizza e Glovo al ministero del Lavoro, per presentare il “Decreto Dignità”. Questo è quanto ha detto ai giornalisti subito dopo:

https://www.facebook.com/LuigiDiMaio/videos/1746990535337485/

Il ministro Luigi Di Maio sta approcciando un tema molto importante della cosiddetta “Gig Economy”.

Con gig economy si intende un modello economico sempre più diffuso dove non esistono più le prestazioni lavorative continuative (il posto fisso, con contratto a tempo indeterminato) ma si lavora on demand, cioè solo quando c’è richiesta per i propri servizi, prodotti o competenze (Blog)

Questo modello del lavoro intermittente e on demand ha visto una esplosione grazie alle app con cui ci si improvvisa tassisti (Uber) o fattorini (come con Foodora, Just Eat, ecc) e si lavora sostanzialmente a cottimo, spesso senza alcuna tutela assicurativa o con scarse copertura previdenziale, ferie pagate né tanto meno garanzie come la malattia o la maternità.

La questione riders in Italia

L’annuncio è arrivato dopo che nei giorni scorsi sembrava che il governo fosse sul punto di approvare un decreto legge che avrebbe modificato di molto le norme che regolano il settore (Una bozza di quel decreto è stata pubblicata oggi dal Sole 24 Ore). Nel frattempo solo la Regione Lazio ha iniziato a studiare come regolare il fenomeno e non lasciare soli i rider, a ridosso del primo vero incidente documentato (un rider che lavora per Just Eat a Milano è finito sotto un tram perdendo una gamba).

Per ora l’atteggiamento del Governo è dialogante con le aziende e vorrebbe che chi lavora per queste realtà avesse una forma contrattuale più robusta passando da lavoratori autonomi a lavoratori subordinati e dicendosi pronto a mediare con le rappresentanze dei lavoratori. Ma la reazione delle multinazionali non si è fatta attendere.

Alla vigilia dell’incontro l’amministratore delegato di Foodora, il 31enne Gianluca Cocco, sul Corriere della Sera aveva dichiarato:

«Se fossero vere le anticipazioni del decreto dignità che il ministro Di Maio ha fornito alle delegazioni di rider incontrate, dovrei concludere che il nuovo governo ha un solo obiettivo: fare in modo che le piattaforme digitali lascino l’Italia. Quella che filtra è una demonizzazione della tecnologia che ha dell’incredibile, quasi medievale e in contraddizione con lo spirito modernista del Movimento 5 Stelle».

La risposta di Di Maio era stata abbastanza netta

  • “Sono contento che finalmente si inizi a parlare dei diritti dei riders e di tutti i ragazzi che lavorano per le piattaforme digitali”. Quanto alle critiche arrivate da Foodora Italia sul ‘Decreto Dignità’ che riguarda proprio i riders (dall’azienda hanno fatto notare che le novità in arrivo potrebbero costringere le imprese a lasciare l’Italia), “è giusto che su questo tema- dice Di Maio- ci si confronti pubblicamente” “Ho tutta la volontà di favorire la crescita di nuove attività legate alla gig economy e nessuno vuole demonizzare le attività legate all’uso di piattaforme innovative. Ma ho il dovere di tutelare i ragazzi che lavorano in questo settore” (Dire).

Ma il tema è molto più grande

Di recente più di un saggio è uscito su come questo nuovo modello di economia, fatta di “lavoretti” formalmente, ma che in realtà scarica sul lavoratore tutti costi del servizio, sia un ritorno a modelli economici del passato, in cui chi prestava la sua opera non aveva diritti e le paghe erano al limite della sussistenza, una modalità più simile all’800 che non al mondo sindacalizzato del ‘900. Su Micromega l’analisi del libro di Riccardo Staglianò (Lavoretti, Einaudi) riporta esattamente questa fotografia:

La struttura dei nuovi lavori della sharing economy, infatti, è “moderna” come il feudalesimo: “chi possiede una piattaforma digitale estrae, secondo una modalità neofeudale, una commissione da chi svolge la prestazione”.

Impietoso è il confronto tra la foto dei 30.000 lavoratori italiani pressoché analfabeti che nel 1902 decisero di proclamare uno sciopero a New York contro i “padroni”, ovvero i caporali che facevano da intermediari della manodopera decurtandone in modo consistente il salario, e l’immagine odierna delle migliaia di laureati di Mechanical Turk, degli ultra qualificati moderatori di contenuti di Facebook, degli informatici di Upwork e delle matricole universitarie che corrono in bicicletta con la pettorina di Foodora o di Deliveroo.

I secondi infatti, nonostante gli studi accademici, sono nella stessa situazione dei primi, senza tuttavia aver compreso la cosa più importante: che il lavoro deve essere pagato il giusto, ovvero in modo proporzionato “alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, per riprendere l’illuminante definizione di retribuzione disegnata dai Costituenti nella stesura dell’art. 36.

Un sistema che l’economista Marta Fana, ricercatrice a Sciences Po (Parigi), prima su Internazionale (e altri giornali) e poi nel libro dal titolo quanto mai esplicativo “Non è lavoro, è sfruttamento” (Laterza) spiega che questo modello, che riguarda tutta l’economia on demand come ad esempio Amazon e tutte le aziende basate sulle consegne a casa tramite sito, cioè tutto un pezzo della “logistica dell’ultimo miglio”.

Il processo produttivo, se di produzione si può parlare, avviene attraverso un’applicazione per smartphone: vengono raccolti gli ordini che sono trasmessi in tempo reale ai relativi ristoranti e infine il fattorino di riferimento della zona riceve la notifica di una nuova consegna da fare. I lavoratori sono fattorini, operai della logistica, sebbene l’azienda preferisca definirli rider.

Ecco che ritorna la questione di un’organizzazione del lavoro funzionale alla massimizzazione dei profitti attraverso la riduzione delle retribuzioni e dei diritti e l’intensificarsi dei turni di lavoro, così come per la  logistica della grande distribuzione.

Una materia complessa

Con tutta evidenza la questione è spinosa, alcune delle definizioni legati alla contrattualistica del mondo del lavoro sono vecchie di oltre 70 anni, e sicuramente il mondo iperconnesso di oggi impone scelte difficili e ripensamenti su come si organizzano le attività aziendali

In pochi pensano che questa sia la strada migliore. «Tutto sommato il decreto ha dentro alcuni contenuti importanti», ha detto al Post Giulia Guida, segretaria nazionale di Filt CGIL, la federazione della logistica della CGIL: «Ma auspichiamo comunque un confronto tra le parti sociali prima della sua approvazione». I sindacati, infatti, notano come la bozza del decreto sia stata elaborata senza un vero confronto. La stessa critica è stata fatta su Repubblica da Michele Tiraboschi, giuslavorista e fondatore del centro studi Adapt, secondo cui il decreto di Di Maio è una misura affrettata e dettata più dalle necessità di propaganda che dalla volontà di tutelare i lavoratori. Di Maio, ha scritto Tiraboschi, «interviene per decreto, senza sentire le parti sociali. E lo fa con un provvedimento bandiera e manifesto. Ma non è così che si crea occupazione di qualità» (Il Post).

Tuttavia, al di là delle necessità politiche di Di Maio, questa mossa ha il pregio di aver messo “sotto pressione” le aziende perché le condizioni di lavoro degli addetti possano migliorare e partecipare anch’essi agli utili legati al boom del settore (stimato attualmente in 450 milioni di euro di fatturato).

Papa Francesco spesso ha parlato in favore della dignità dei lavoratori e in una omelia del 2016 diceva esplicitamente:

«Sfruttare la gente sul lavoro per arricchirsi è come essere delle sanguisughe, è peccato mortale»

E nel 2013 durante una visita apostolica in Sardegna, si è espresso così:

«La crisi economica ha una dimensione europea e globale; ma la crisi non è solo economica, è anche etica, spirituale e umana. Alla radice c’è un tradimento del bene comune, sia da parte di singoli che di gruppi di potere. È necessario quindi togliere centralità alla legge del profitto e della rendita e ricollocare al centro la persona e il bene comune. E un fattore molto importante per la dignità della persona è proprio il lavoro; perché ci sia un’autentica promozione della persona va garantito il lavoro. Questo è un compito che appartiene alla società intera, per questo va riconosciuto un grande merito a quegli imprenditori che, nonostante tutto, non hanno smesso di impegnarsi, di investire e di rischiare per garantire occupazione. La cultura del lavoro, in confronto a quella dell’assistenzialismo, implica educazione al lavoro fin da giovani, accompagnamento al lavoro, dignità per ogni attività lavorativa, condivisione del lavoro, eliminazione di ogni lavoro nero. In questa fase, tutta la società, in tutte le sue componenti, faccia ogni sforzo possibile perché il lavoro, che è sorgente di dignità, sia preoccupazione centrale! La vostra condizione insulare poi rende ancora più urgente questo impegno da parte di tutti, soprattutto delle istanze politiche ed economiche»

https://www.youtube.com/watch?v=-9zv5x0mEso

Del resto due dei quattro peccati che “gridano vendetta al cospetto di Dio” secondo il Catechismo (n° 1867) sono:

il lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova e dell’orfano; [cioè i poveri a vario titolo, NdR]

l’ingiustizia verso il salariato.

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